Mosca, Washington e l’Europa smarrita: il ritorno della politica di potenza
Lo svolgersi della diplomazia e della ancor più concreta politica di potenza, ha condotto al palcoscenico dell’Alaska, proscenio quanto mai simbolico per l’anfitrione americano. In fondo, non poteva esserci nulla di meglio di un antico possedimento russo per discutere di conflitti ai massimi livelli globali, riassaporando sentori che la storia ha allontanato relegando Mosca ad una dimensione regionale, cosa che dovrebbe preoccupare non poco l’Europa, regione d’elezione.
Questa potrebbe essere un’iniziale chiave di lettura, come molte altre, sfuggita alle platee occidentali. Abituati ai più graditi ed inevitabili happy ending da trasmissioni dove basta una letterina per finire in lacrime di gioia e gloria, i parterre europei hanno dovuto prendere atto che, come diceva Bennato, “la guerra è una cosa seria, e buffoni e burattini non la faranno mai”.
Nulla di rapido, nulla di scontato, nessuna assicurazione per un domani che, ora come ora, appare ancora più nebuloso di prima. Non si capisce nemmeno se, chi si è offerto di ospitare il secondo round di un negoziato che si conferma difficilissimo, abbia considerato la cogenza dei vincoli imposti dalla sottoscrizione del trattato riguardante la corte penale internazionale. Come avrebbe detto quel galantuomo d’altri tempi di Bruno Pizzul, è davvero tutto molto bello. Talmente bello che ci si continua a perdere in rivoli di pensieri inconsistenti ed in commenti infondati perché basati sul nulla che mai è trapelato, e che ribadiscono prese di posizione ad uso e consumo interni, utili solo per rafforzare posizioni politiche che, in ambito internazionale e negoziale, poco tangono. Chi ha imputato il tutto ad un’impreparazione di fondo, magari d’antan perché risalente ai primordi rinascimentali del Principe, è stato finanche troppo condiscendente: qui il problema è di gran lunga peggiore.
Basterebbe studiare un pò, non troppo, per carità, ma sarebbe appena sufficiente rammentare quanto sia durato il Congresso di Vienna, come si sia svolto con negoziati tenuti dalle maggiori potenze dell’epoca, a cosa abbia condotto. Basterebbe rammentare quel che asserì Margaret Thatcher quando richiamò alla necessità dell’uso della forza, ricordando che lo stesso Bismarck, nel suo divide ed impera, non desiderasse certo la guerra ma comunque di certo la vittoria.

Lavrov, abilissimo diplomatico di lunghissimo corso, adula Trump, rimpiange la sua assenza ad inizio conflitto, ridicolizza l’esangue immagine politica di un’Europa contro cui sparare è come prendere di mira la Croce Rossa. Nel momento strategicamente più drammatico ed importante che abbia mai potuto esserci, l’Europa guarda alla transizione green. Il campo politico qui è in larga parte inedito, perché spazia su estensioni che vedono un aggressore che avanza pretese stizzite nei confronti di un aggredito, peraltro di sovente anche bacchettato perché resistente all’inverosimile.
I paracadutisti russi all’aeroporto di Kiev, così come le colonne corazzate destinate a concludere un blitzkrieg che, da quelle parti, non c’è mai stato verso di far riuscire, sembrano appartenere ad un immaginario filmico. Il Cremlino è stato chiaro; il sistema politico post Euromaidan non piace, come non piacciono l’integrazione europea ed il rafforzamento delle Forze Armate di Kiev, evidentemente percepita quale avversario di rara scomodità.
La reimmersione nell’acqua gelida della guerra fredda è evidente, come è evidente che il disegno della nuova Yalta non vede gli stessi attori di 80 anni fa. La politica internazionale getta la maschera ed accetta solo protagonisti, non comparse. La fotografia dello studio ovale, con il presidente americano alla lavagna, è eloquente, come è evidente che è necessario adeguarsi all’idea di un nuovo ordine conformato ad una geopolitica completamente diversa.
L’Ucraina non sa se attendersi un nuovo Marshall, o più concretamente una holding di privati pronti a ricostruire un paese in larga parte ricondotto a cannonate all’età della pietra. Quel che è certo è che, stavolta, un’altra Norimberga non ci sarà, perché, bene o male, con la fretta da soap opera che c’è, ricostruzione a parte, i crimini di guerra non li giudicherà nessuno, sì da rimanere perennemente sospesi in un limbo che, nelle decine d’anni a venire, agiteranno revanscismi e desideri di vendetta.
Intanto, mentre Mosca reclama territori peraltro neanche interamente occupati e l’imposizione del proprio idioma nazionale, si pone il problema di come garantire, boots on the ground, il mantenimento degli accordi che, prima o poi, verranno stretti. Quel che più conta, ora, è che ci sia stata una reprise dei rapporti russo americani, oscillanti tra il mercantilismo washingtoniano e l’imperialismo moscovita. Se questo è il ritorno in grande stile della politica, sul Baltico hanno forse ragione a temere un nuovo 1938.
Shakespeare, nel Giulio Cesare, diceva che “il nostro destino è in noi stessi, non nelle stelle”. Aveva ragione.
Good night and good luck. Ne abbiamo bisogno.
Foto: Ministry of Defense of Ukraine / presidenza del consiglio dei ministri
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