Montreal, il ricordo di un’Italia che sapeva fare sistema
Ieri l’Italia governava filiere complesse, oggi deve difendere i propri asset – se ci riesce – per non pagarli a peso d’oro. Parlare di una granturismo palesemente civile in una testata di difesa non è semplice, e ancora più difficile è tracciare un parallelo. Ma proprio questo dice molto del cammino industriale che il Paese è stato capace di compiere. L’oggetto in questione, figlio dell’arte e della tecnica, è l’Alfa Romeo Montreal, un simbolo di un’epoca in cui l’industria nazionale sapeva ancora distinguersi nel mondo e di globalizzazione non si sentiva neppure l’odore.
La Montreal colpiva per il suo design da vera supercar futuristica, faceva letteralmente girare la testa per seguirla, soprattutto se confrontata con la fascia media di veicoli che affollavano le strade italiane negli anni Settanta: dalla Fiat 124 alla 125, fino alle nuovissime 127 e 128, senza dimenticare le onnipresenti Fiat 500 e 126 o, alla tedesca Kadett C. In quel contesto di utilitarie e berline familiari, la coupé firmata Bertone appariva come un oggetto quasi alieno; pensate un V8 da corsa in un’Italia che stava ancora imparando a vivere l’automobile di massa. Ebbene sì, già allora si parlava di ricerca, filiere industriali, ricambi e regole da rispettare, quindi questioni che oggi chiameremmo “programmi complessi”. La differenza è che negli anni ’70 l’Italia li governava, oggi spesso li subisce tra globalizzazione e cessioni di pezzi strategici.
Dall’Expo ’67
Nata come concept firmato Bertone e Marcello Gandini per l’Expo di Montréal del 1967, ebbe tanto successo da spingere Alfa Romeo a produrla in serie. Il debutto arrivò al Salone di Ginevra del 1970, con soluzioni stilistiche iconiche come i fari parzialmente a scomparsa, la presa NACA sul cofano (una particolare presa d’aria) e gli interni in velluto. Inoltre offriva accessori che nei primi anni ’70 erano impensabili persino su molte berline di alta gamma come:gli alzacristalli elettrici, il climatizzatore, il volante regolabile in altezza e profondità, lo specchietto interno antiriflesso, e perfino la chiusura centralizzata. Nella guida offriva una tenuta di strada sicura e più che dignitosa per gli anni ’70, ma restava una GT “da viaggio veloce”, non una sportiva agilissima. Le riviste dell’epoca la descrivevano come potente e confortevole, ma non così precisa in curva come Porsche o Ferrari più piccole. La produzione era dislocata in più stabilimenti: le scocche Bertone a Caselle e Grugliasco, poi ad Arese per l’assemblaggio del motore e le finiture. Una catena che richiedeva coordinamento e controlli, anticipando concetti di integrazione industriale che oggi ritroviamo nei programmi della difesa.
Un V8 da competizione “addomesticato”
Sotto il cofano c’era un V8 a 90°, tutto in lega leggera da 2.593 cm³, doppio albero per bancata, 4 totali, lubrificazione a carter secco per abbassare il baricentro e garatire la lubrificazione nelle curve veloci, e iniezione meccanica SPICA. L’uso dell’alluminio era allora abbastanza comune nelle competizioni (Formula 1, endurance e su pochi modelli di altissima gamma). Tuttavia Alfa aveva già esperienza con il 4 cilindri bialbero in alluminio, sin dagli anni ’50 con la Giulietta del 1954. Pertanto il V8 della Montreal, derivato dalla Tipo 33 da corsa, rappresentava – per rimanere in tema del dinamismo industriale italiano che fu – il trasferimento diretto della tecnologia racing all’uso stradale, riuscendoci molto bene. Un motore rivisto rispetto a quello adottato dalla Tipo 33 da competizione, con circa 200 CV a 6.500 giri, cambio ZF a 5 marce e differenziale autobloccante e oltre 220 km/h di velocità massima. Il cambio aveva lo schema rovesciato, come si addiceva alle sportive, con la prima indietro e la seconda avanti: tipico delle gare, dove si usavano quasi sempre 2ª–3ª–4ª–5ª in rapida sequenza nello schema ad “H”. La 1ª serviva solo per partire, e più di un pilota finiva per cercare la seconda pensando di innestare la prima.
Quanti esemplari?
Le fonti primarie divergono di poco: 3.917 unità secondo la documentazione di fabbrica riportata da AlfaMontreal.info, oppure 3.925 secondo Stellantis Heritage. La produzione durò dal 1970 al 1977, ridimensionata dal crollo della domanda dopo la crisi petrolifera. La Montreal non fu mai ufficialmente esportata in USA e Canada per motivi di omologazione ed emissioni, ad eccezione di qualche appassionato che le immatricolate come “grey market cars”. Peccato.
Dalla coupé di Bertone ai programmi militari
La Montreal non è solo un gioiello di stile e velocità, ma il simbolo di un’Italia che era capace di industrializzare una coupé V8 coordinando stabilimenti e fornitori come in un vero programma complesso.
Oggi la Difesa affronta sfide simili, integrando cantieri navali, elettronica e veicoli militari in sistemi unici e competitivi, questa volta in chiave europea. Le scelte recenti lo mostrano, con Leonardo che ha fermato la cessione di OTO Melara a KNDS, avviando una joint venture con Rheinmetall e, nel 2025, come sappiamo, ha acquisito Iveco Defence Vehicles rafforzando il ruolo italiano dentro la filiera continentale.
Se negli anni ’70 ci permettevamo di mettere un V8 da corsa sotto una carrozzeria da sogno, oggi dobbiamo garantire che sotto la corazza di un blindato o dentro la plancia di una fregata ci sia un contributo italiano, inserito però in una visione europea sostenibile e condivisa.
Foto: web
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