La Global Sumud Flotilla: una missione umanitaria che apre scenari geopolitici imprevedibili
La Global Sumud Flotilla è una coalizione internazionale non governativa di oltre 50 imbarcazioni civili, con partecipanti provenienti da 44 paesi, formatasi nell’estate 2025[1]. Il termine sumud (in arabo, “resistenza ferma” o “perseveranza”) richiama la tenace volontà di resistere di fronte alle avversità. L’obiettivo dichiarato della flottiglia è sfidare il blocco navale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza – un assedio in vigore da 18 anni – per consegnare aiuti umanitari urgenti ai palestinesi e creare un corridoio umanitario dal basso, guidato dalla società civile[2][1]. Questa iniziativa costituisce la più grande missione marittima di solidarietà verso Gaza mai organizzata, con centinaia di attivisti, medici, giuristi, parlamentari e volontari uniti dal motto: “l’assedio e il genocidio devono finire”[3]. Tra i partecipanti figurano personalità note come l’attivista climatica Greta Thunberg e l’ex sindaca di Barcellona Ada Colau, a testimoniare il vasto sostegno transnazionale e interculturale all’impresa[4].
La mobilitazione della Flotilla ha un peso geopolitico significativo. In piena guerra a Gaza (scoppiata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023), la flottiglia è emersa come un catalizzatore della coscienza pubblica internazionale sulla crisi umanitaria in corso[5]. Mentre l’esercito israeliano ha devastato la Striscia causando oltre 65.000 morti secondo le autorità sanitarie locali[6], l’azione pacifica di questa flotta civile intende “non lasciare che Gaza venga dimenticata”, come ha spiegato la portavoce italiana Maria Elena Delia[7]. La Flotilla incarna dunque una forma di diplomazia dal basso: una pressione esercitata dall’opinione pubblica globale e dalla società civile per spingere Israele e la comunità internazionale ad affrontare l’emergenza umanitaria. Secondo osservatori indipendenti e relatori delle Nazioni Unite, infatti, la nascita di questa iniziativa è «conseguenza del fallimento della comunità internazionale nel porre fine all’illegale blocco di Gaza», evidenziando come la Flotilla riempia un vuoto lasciato dall’inazione diplomatica tradizionale[8][9].
Dal punto di vista simbolico e mediatico, la Global Sumud Flotilla ha riportato all’attenzione mondiale la questione del blocco di Gaza con una forza paragonata da molti all’incidente della Mavi Marmara del 2010. In quell’episodio, l’assalto israeliano a una nave di attivisti diretta a Gaza causò la morte di 9 persone e suscitò un’indagine internazionale che concluse come Israele avesse commesso gravi violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani, giudicando il blocco navale causa di un danno sproporzionato ai civili di Gaza[10]. Oggi, la Sumud Flotilla – pur con dimensioni e appoggi ben maggiori – si ricollega a quella tradizione di “navi per Gaza”, ma in un contesto ancora più drammatico. La sua portata globale (attivisti di tutti i continenti, 15.000 persone registrate per partecipare[11]) e il coinvolgimento di figure pubbliche e parlamentari gli conferiscono una legittimità senza precedenti agli occhi dell’opinione pubblica. “Non stiamo consegnando solo aiuti umanitari. Stiamo cercando di portare speranza e solidarietà, di mandare un forte messaggio che il mondo sta con la Palestina”, ha dichiarato Thunberg dal ponte di una delle imbarcazioni[12]. Questa affermazione sintetizza il significato politico della Flotilla: oltre all’aspetto materiale (gli aiuti caricati a bordo), conta il messaggio di sfida nonviolenta a uno status quo ritenuto ingiusto.
Pressione su Israele e la reazione dell’Italia
Israele ha reagito con aperta ostilità all’iniziativa, percependola come una minaccia sia sul piano della sicurezza che su quello propagandistico. Dall’inizio, le autorità israeliane hanno dichiarato che avrebbero trattato gli attivisti della Flotilla come “terroristi”[13]. Il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, esponente dell’ala ultranazionalista, li ha definiti esplicitamente “terroristi da trattare di conseguenza”, e il Ministero degli Esteri israeliano ha bollato lo sforzo umanitario come “un’iniziativa jihadista”[14]. Tel Aviv ribadisce che non consentirà a nessuna nave di violare il blocco o di entrare “in una zona di combattimento attiva” al largo di Gaza[15]. Un alto funzionario israeliano, il ministro Gideon Sa’ar, ha dichiarato sui social: “Israele ha accettato la proposta del governo italiano di scaricare gli aiuti a Cipro… ma la Flotilla l’ha respinta, dimostrando che il suo vero scopo è la provocazione al servizio di Hamas”[16]. Questa retorica accomuna la Flotilla al nemico militante, nel tentativo di delegittimarla agli occhi della comunità internazionale. Va notato tuttavia che molte voci terze confutano le accuse israeliane: gli attivisti non trasportano armi né rappresentano una minaccia concreta alla sicurezza, come ribadito da giuristi che definiscono “infondati” gli addebiti di terrorismo[17]. Anzi, la Flotilla si presenta come “missione umanitaria pacifica e non violenta, rispettosa del diritto internazionale” (parole dell’attivista brasiliano Thiago Ávila)[18]. Persino figure istituzionali moderate hanno espresso perplessità: ad esempio, il presidente israeliano Isaac Herzog (non citato direttamente nelle fonti qui, ma noto per toni più concilianti) avrebbe messo in guardia da un impatto negativo sulla già deteriorata immagine di Israele all’estero, qualora si verificasse uno scontro cruento. In ogni caso, la leadership israeliana sembra determinata a non cedere: un portavoce militare ha avvertito che la marina “userà ogni mezzo” per fermare le imbarcazioni prima che raggiungano Gaza[19].
Parallelamente, Israele sta già agendo sotto traccia per impedire il successo della Flotilla. Nel corso del viaggio, le navi civili hanno subito misteriosi sabotaggi e attacchi: droni non identificati hanno colpito le imbarcazioni con ordigni assordanti, razzi esplosivi e spray chimici irritanti, danneggiando alberi e vele[20]. Almeno tre attacchi separati sono avvenuti: in acque tunisine il 9 e 10 settembre, e poi il 23-24 settembre al largo di Creta, quando otto barche sono state investite da droni e sostanze chimiche durante la notte[21][22]. Gli attivisti accusano apertamente i servizi israeliani, che dal canto loro non hanno rivendicato né commentato questi episodi – seguendo un modus operandi di ambiguità già visto in operazioni all’estero[23]. Le interferenze elettroniche e gli attacchi clandestini puntano a intimidire gli equipaggi e fermare la Flotilla prima dello scontro frontale. Finora non vi sono stati feriti, ma i rischi aumentano man mano che le barche si avvicinano a Gaza. La Flotilla stessa ha ammesso di aspettarsi “un attacco imminente” da parte di Israele nelle ultime miglia nautiche[24]. Emblematiche in tal senso le parole dell’ambasciatore israeliano in Francia, che all’inizio di settembre – rivolgendosi ai volontari – ha detto: “Auguro loro buona fortuna, quantomeno a restare vivi”[25]. Questa frase, di inquietante franchezza, lascia intendere che Israele potrebbe ricorrere anche alla forza letale, se riterrà necessario bloccare il convoglio. In sintesi, la Flotilla rappresenta per Israele un dilemma: concederle il passaggio significherebbe mostrare debolezza e porre un precedente; fermarla con ogni mezzo, però, rischia di scatenare un contraccolpo diplomatico enorme.
L’Italia si trova in una posizione delicata, stretta fra la tradizionale vicinanza a Israele e la pressione dell’opinione pubblica interna, sempre più turbata dalla crisi umanitaria a Gaza. Il governo italiano, guidato da Giorgia Meloni (esponente di destra tradizionalmente filo-israeliana), inizialmente ha criticato apertamente la Flotilla definendola “gratuita, pericolosa e irresponsabile”, invitando gli attivisti a consegnare gli aiuti attraverso canali ufficiali[26]. Al tempo stesso, di fronte alla partecipazione di vari cittadini italiani – tra cui deputati di opposizione – e all’attenzione mediatica sul loro destino, Roma non ha potuto disinteressarsi. Dopo i primi attacchi ai danni della Flotilla, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha annunciato l’invio di una nave militare italiana (fregata Alpino) in funzione di scorta umanitaria, pronta a intervenire per soccorrere i connazionali in caso di emergenza[27][28]. Questa mossa, condivisa anche dalla Spagna quasi in simultanea, è stata definita senza precedenti dagli analisti, poiché segna un insolito intervento a tutela di una missione civile in rotta di collisione con Israele[29][23]. Tuttavia, l’impegno italiano è stato circoscritto e condizionato. La Premier Meloni e la Farnesina hanno chiarito che la presenza navale serve solo per eventuali operazioni di salvataggio in mare, e “in nessun caso potrà costituire un fattore di difesa o offesa… sul piano militare” per la Flotilla[30]. In altre parole, l’Italia ha avvertito i propri cittadini che, oltre le acque internazionali, non potrà garantire la loro sicurezza: “Non siamo in grado, fuori dalle acque internazionali, di tutelare le imbarcazioni… Chi prosegue si assume tutti i rischi”[31][32]. Questo messaggio – accompagnato dall’offerta di rimpatrio per chi avesse deciso di rinunciare in Grecia[33] – riflette l’imbarazzo italiano: da un lato non intende rompere con Israele né rischiare uno scontro diretto, dall’altro subisce la pressione interna a proteggere i volontari e ad agire in favore di Gaza. Ne è prova l’inedito appello pubblico lanciato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che con tono accorato ha esortato gli organizzatori a “non mettere a repentaglio la propria incolumità” e ad accogliere la mediazione del Patriarcato Latino di Gerusalemme (disponibile a farsi carico degli aiuti a Cipro)[34][35]. “Il valore della vita umana… richiede di evitare di porre a rischio l’incolumità di ogni persona”, ha dichiarato Mattarella, riconoscendo comunque il “valore” ideale dell’iniziativa[35]. La Flotilla ha cortesemente ma fermamente respinto la proposta di deviare su Cipro, ribadendo tramite la portavoce Delia che ciò equivarrebbe a lasciare mano libera a chi li minaccia: “È come dire: se volete salvarvi, scansatevi voi, perché non possiamo chiedere a chi vi attaccherà di non farlo, sebbene sia un reato”[36]. Gli attivisti italiani sottolineano che permettere a Israele di intercettarli senza opporre resistenza passiva significherebbe avallare l’illegalità dell’assedio: “La nostra missione resta fedele all’obiettivo di rompere l’assedio illegale… Qualsiasi attacco od ostruzione… costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”[37]. Va notato che la legalità internazionale è davvero dalla loro parte: esperti citano la Convenzione di Montego Bay che sancisce la libertà di navigazione in alto mare, attribuendo giurisdizione esclusiva allo Stato di bandiera di ciascuna nave[38]. Un intervento armato di Israele in acque internazionali contro le imbarcazioni civili violerebbe il diritto del mare e configurerebbe un uso sproporzionato della forza contro civili protetti dalla Quarta Convenzione di Ginevra[39][8]. Questa consapevolezza giuridica ha spinto i promotori italiani a consegnare una diffida formale al governo italiano, chiedendo di attivarsi diplomaticamente affinché Israele rispetti i propri obblighi e non interferisca con la Flotilla[40]. In Italia, intanto, il dibattito infuria: settori della società civile (come il sindacato USB) hanno annunciato una mobilitazione permanente in cento piazze a sostegno di Gaza e minacciano uno sciopero generale se la Flotilla dovesse essere aggredita con spargimento di sangue[41]. Ciò indica quanto fortemente parte dell’opinione pubblica italiana colleghi questa vicenda alla più ampia indignazione per i bombardamenti su Gaza. In sintesi, sul governo Meloni si esercita una pressione duplice: esterna, da parte di Israele (che si aspetta cooperazione nel frenare l’iniziativa), e interna, da parte di cittadini e opposizioni che chiedono invece di proteggerla o quantomeno di prendere posizione più netta contro le uccisioni di civili a Gaza.
Possibili scenari futuri
Man mano che la Global Sumud Flotilla si avvicina alle acque di Gaza, si delineano due scenari estremi – e una gamma di sviluppi intermedi – a seconda di come Israele deciderà di reagire. Da un lato c’è l’ipotesi, considerata al momento poco probabile ma non impossibile, che Israele permetta il passaggio della Flotilla fino alle coste di Gaza senza usare la forza letale. All’opposto, lo scenario peggiore è che Israele risponda con violenza, anche letale, pur di far rispettare il blocco, arrivando a un confronto armato che potrebbe causare morti tra gli attivisti. Entrambe le eventualità avrebbero conseguenze geopolitiche di vasta portata, in particolare nel mondo arabo e nell’arena internazionale.
Scenario 1: Israele permette alla Flotilla di raggiungere Gaza (passaggio consentito). Se il convoglio umanitario riuscisse, contro ogni aspettativa iniziale, a entrare nel porto di Gaza, il fatto rappresenterebbe un evento storico. Sarebbe la prima rottura pubblica e su larga scala dell’assedio navale imposto nel 2007. Nel breve periodo, ciò comporterebbe la consegna diretta di tonnellate di aiuti essenziali (cibo, medicinali, attrezzature mediche) alla popolazione stremata di Gaza, alleviando almeno in parte la crisi umanitaria. Ma le implicazioni andrebbero ben oltre l’aspetto materiale. Nel mondo arabo e musulmano, l’ingresso della Flotilla verrebbe salutato come una grande vittoria morale della resistenza palestinese (sumud, appunto) e un’umiliazione per Israele. Hamas e le altre fazioni palestinesi capitalizzerebbero propagandisticamente il successo: l’assedio – da loro definito parte di un “genocidio” – sarebbe stato bucato non da missili o forze armate, ma da civili disarmati e determinati. È facile prevedere che in molte capitali arabe si terrebbero manifestazioni di giubilo e solidarietà, e probabilmente i governi della regione (anche quelli formalmente allineati con Israele tramite accordi come gli Accordi di Abramo) rilancerebbero la richiesta di revocare definitivamente il blocco. Un membro di spicco dell’Autorità Nazionale Palestinese o lo stesso presidente Abu Mazen potrebbero ringraziare pubblicamente gli attivisti, utilizzando l’evento come leva diplomatica per chiedere l’apertura di corridoi umanitari permanenti. A livello internazionale, un simile sviluppo darebbe nuovo slancio a quanti – ONU, UE, ONG – invocano da tempo la fine delle restrizioni su Gaza. Israele subirebbe una forte pressione morale e politica: avendo già in un’occasione permesso il transito, sarebbe più difficile giustificare ulteriori divieti assoluti. La comunità internazionale potrebbe cogliere l’attimo per negoziare l’istituzione di un corridoio marittimo umanitario stabile, magari sotto supervisione ONU o della Mezzaluna Rossa, approfittando del precedente creato. Sul piano geopolitico, l’immagine di Israele potrebbe uscirne ambivalente: da un lato eviterebbe la macchia di un massacro, guadagnando qualche credito per aver agito con moderazione; dall’altro, i settori più oltranzisti in Israele la vedrebbero come una pericolosa debolezza. Internamente in Israele, infatti, concedere il passaggio sarebbe altamente controverso: il governo Netanyahu verrebbe attaccato dai partiti di destra estrema (inclusi i ministri come Ben-Gvir) per aver ceduto a quella che definiscono una provocazione filo-Hamas. Si potrebbe assistere a tensioni nella già fragile coalizione di governo e forse a un irrigidimento successivo delle misure (per compensare la “figuraccia”). Ma c’è anche la possibilità che elementi più pragmatici dell’establishment israeliano preferiscano evitare uno scontro che isolerebbe ulteriormente il Paese. In tal senso, alcune fonti suggeriscono che Israele potrebbe scegliere un “male minore”: consentire un ingresso limitato e simbolico – magari solo ad alcune barche rappresentative con parlamentari a bordo – e subito dopo riaffermare il blocco, rivendicando di aver gestito l’episodio in modo responsabile. Un compromesso simile, ventilato nelle discussioni diplomatiche (ad esempio il suggerimento del cardinale Zuppi di far giungere le barche “di fronte a Gaza, nel rispetto delle acque internazionali, come gesto simbolico”[53], per poi scaricare gli aiuti altrove), permetterebbe a Israele di salvare la faccia pur soddisfacendo in parte le richieste umanitarie. In ogni caso, uno scenario di passaggio consentito costituirebbe un precedente potentissimo: galvanizzerebbe società civili e attivisti in tutto il mondo, forse ispirando nuove flottiglie e convogli per Gaza (e altri teatri di crisi), convinti che la mobilitazione internazionale può scalfire anche i blocchi più rigidi. Dal punto di vista del diritto internazionale, confermerebbe la tesi che il blocco navale è privo di base legale quando ostacola aiuti vitali ai civili[8][54]. Non a caso Israele sinora ha insistito nel dire che “il convoglio potrà consegnare gli aiuti solo attraccando al porto israeliano di Ashkelon, da cui saranno trasferiti a Gaza”[55], tentando di mantenere il controllo assoluto. Ma se una volta le navi civili rompessero il principio, quel controllo ne uscirebbe incrinato. In sintesi, lo scenario in cui Israele non spara e lascia passare eviterebbe lo scontro immediato e aprirebbe spiragli per soluzioni umanitarie, ma implicherebbe per Israele un costo in termini di percezione di sovranità e deterrenza, e per i sostenitori palestinesi una spinta motivazionale enorme per future iniziative analoghe.
Scenario 2: Israele reagisce con forza letale (intercettazione violenta). Nel caso in cui Israele optasse per la linea dura e usasse forza militare contro la Flotilla, le conseguenze sarebbero probabilmente esplosive sul piano diplomatico e dell’ordine pubblico internazionale. Uno scontro violento potrebbe assumere diverse forme: dall’abbordaggio armato delle navi in alto mare con eventuali scontri corpo a corpo (come avvenne sulla Mavi Marmara nel 2010), fino all’uso di armi da fuoco da parte dei militari della marina israeliana o addirittura attacchi a distanza (per esempio spari sui motori o sulle imbarcazioni per fermarle). Se tale intervento causasse vittime tra gli attivisti, la condanna globale sarebbe immediata e durissima. Israele verrebbe accusata di pirateria e strage, avendo attaccato civili disarmati in acque internazionali in violazione flagrante del diritto[39]. In sede ONU, probabilmente verrebbero convocate riunioni d’urgenza del Consiglio di Sicurezza e del Consiglio dei Diritti Umani. Molti Paesi – non solo arabi o musulmani, ma anche diversi Stati europei, latinoamericani e africani – chiederebbero sanzioni internazionali e indagini indipendenti. Già nel 2010 la Turchia (allora coinvolta direttamente) ottenne una commissione d’inchiesta ONU che concluse per gravi violazioni israeliane[56]; questa volta, con 44 nazioni coinvolte, il coro di proteste sarebbe ancora più ampio e potrebbe condurre a una risoluzione di condanna all’Assemblea Generale, se non in Consiglio (dove però gli USA potrebbero porre il veto a misure vincolanti). Nel mondo arabo-islamico, l’uccisione di attivisti internazionali per Gaza infiammerebbe ulteriormente gli animi. Si assisterebbe con ogni probabilità a proteste di massa davanti alle ambasciate israeliane (o anche occidentali percepite come complici) in vari Paesi; gruppi estremisti potrebbero cogliere l’occasione per incitare alla violenza contro interessi israeliani o ebraici nel mondo, con il rischio di una spirale di ritorsioni. Paesi come la Turchia, l’Iran, il Qatar – forti sostenitori della causa di Gaza – avrebbero spazio per iniziative diplomatiche aggressive: ad esempio Ankara potrebbe ritirare di nuovo il proprio ambasciatore da Tel Aviv (come fece nel 2010), Teheran potrebbe sfruttare l’episodio per spingere ulteriormente le milizie regionali (Hezbollah in Libano, ad esempio) a intensificare le pressioni militari su Israele. I governi europei coinvolti dovrebbero reagire per rispondere alla propria opinione pubblica indignata e per tutelare la memoria dei propri cittadini caduti. L’Italia, la Spagna e la Francia – qualora tra le vittime ci fossero loro cittadini – si troverebbero probabilmente costrette a decisioni drastiche: richiamare gli ambasciatori da Israele per consultazioni immediate; sospendere temporaneamente programmi di cooperazione militare o di sicurezza con Israele; sostenere azioni legali internazionali contro i responsabili. Già prima del possibile scontro, esponenti italiani avevano avvertito che “minacciare i nostri concittadini che portano aiuti umanitari” è inaccettabile, chiedendo al governo di isolare Israele tagliando relazioni diplomatiche ed economiche se necessario[57]. Dopo un attacco letale, tali richieste diventerebbero mainstream: vedremmo probabilmente proteste e scioperi generali (come minacciato in Italia[41]), mozioni parlamentari di condanna e forse governi costretti a seguire. La Spagna di Sánchez, in particolare, non esiterebbe a guidare una risposta dura in UE, forte anche dell’appoggio di paesi nordici molto critici verso Israele. Gli Stati Uniti, pur tradizionalmente protettivi di Israele, non potrebbero ignorare completamente una tragedia in cui magari fossero rimasti uccisi cittadini statunitensi o altri occidentali. Certamente la Casa Bianca cercherebbe di calmare le acque, ma membri influenti del Congresso chiederebbero conto all’alleato israeliano. Un segnale in tal senso: dopo gli attacchi con droni di settembre, 20 senatori USA (sia democratici che repubblicani) hanno scritto al Presidente del Senato definendo la Flotilla “un insieme di imbarcazioni civili pacifiche con aiuti umanitari sotto attacco” e chiedendo di agire per proteggerle[58]. Un episodio di sangue potrebbe portare anche Washington a dover appoggiare – obtorto collo – una risoluzione di censura a Israele o quantomeno a esercitare pressioni private perché vengano puniti i responsabili militari dell’eccesso di forza.
In termini legali, un attacco letale israeliano configurerebbe reati internazionali gravi: violazione del principio di protezione dei civili e, potenzialmente, omicidio volontario in ambito di conflitto armato, cioè crimine di guerra. Stati i cui cittadini fossero colpiti potrebbero avviare procedimenti penali sulla base della giurisdizione passiva (come fece la Turchia post-2010) oppure ricorrere alla Corte Penale Internazionale se ne hanno accettato lo statuto. Si aprirebbe così un fronte giudiziario potenzialmente lungo anni, che terrebbe viva la questione su un altro livello. A livello di opinione pubblica globale, l’effetto sarebbe di polarizzare ulteriormente le posizioni: da un lato molti governi occidentali si vergognerebbero di aver tollerato troppo a lungo le azioni israeliane a Gaza e dovrebbero fare i conti con proteste popolari crescenti; dall’altro in Israele probabilmente la maggioranza dell’opinione pubblica, già duramente provata dalla guerra e incline a vedere complotti ostili ovunque, sosterrebbe l’azione militare contro la Flotilla, comprandone la narrazione ufficiale (cioè che a bordo vi fossero elementi pericolosi o che la colpa è degli attivisti “che se la sono cercata”). Ciò renderebbe ancora più difficile qualsiasi mediazione: un episodio di violenza estrema in mare chiuderebbe ogni spazio di dialogo a breve termine, esacerbando i rancori. In pratica, uno scenario del genere rischierebbe di internazionalizzare ulteriormente il conflitto di Gaza, trascinando dentro attori statali prima estranei. Un elemento di particolare gravità è che tra gli attivisti vi sono parlamentari e personalità politiche: se una di queste restasse uccisa (si pensi alla parlamentare europea che era a bordo della Marmara nel 2010, fortunosamente non colpita), il coinvolgimento politico sarebbe ancora più diretto. Si pensi ad esempio a Greta Thunberg: qualora – scenario ipotetico estremo – accadesse qualcosa a lei durante un raid israeliano, l’onda d’urto emotiva e mediatica sarebbe immensa in Europa e nel mondo, con ripercussioni imprevedibili sulle relazioni con Israele.
Scenario 3: uno scenario intermedio, più plausibile storicamente e politicamente. l’intercettazione forzata senza spargimento di sangue immediato. Israele potrebbe scegliere di usare metodi coercitivi non letali per bloccare le navi: ad esempio, imbarcazioni militari che circondano e speronano quelle civili costringendole a fermarsi; l’uso di idranti ad alta pressione; dispositivi sonori a lungo raggio (LRAD) per stordire l’equipaggio; oppure il classico abbordaggio da parte di commando armati ma con ordini di non aprire il fuoco se non strettamente necessario. In questo scenario, gli attivisti verrebbero arrestati in massa e le barche sequestrate, portate probabilmente nel porto israeliano di Ashdod. Un’operazione del genere ricalcherebbe quanto Israele ha già fatto in tentativi minori nei mesi scorsi: a giugno e luglio 2025, piccole imbarcazioni (come la Madleen e la Handala) furono intercettate in acque internazionali e i loro equipaggi detenuti per alcuni giorni[59]. Ripetere lo stesso su scala maggiore (parliamo di alcune centinaia di persone) sarebbe logisticamente difficile ma non impossibile per Israele. Le conseguenze sarebbero comunque rilevanti, sebbene meno di uno scenario con morti: l’azione si configurerebbe comunque come atto di forza illegittimo in alto mare, suscitando proteste diplomatiche formali da parte di molti governi (Italia e Spagna in primis, che si vedrebbero arrestare parlamentari e cittadini). Si innescherebbe un complicato negoziato per il rilascio di tutti gli attivisti detenuti, negoziato che potrebbe coinvolgere mediatori (ad esempio la Svizzera, o la stessa Santa Sede, dato l’interessamento del Patriarcato) e durare giorni. Durante tale fase, le tensioni nei paesi d’origine crescerebbero: manifestazioni chiederebbero la liberazione immediata, aumentando la pressione sui governi occidentali perché adottino posizioni più dure verso Israele. Dal canto suo, Israele probabilmente tratterebbe i detenuti con durezza – come fece nel 2010 – magari cercando di processare alcuni attivisti con accuse pretestuose (ingresso illegale in zona di guerra, supporto ad organizzazione terroristica, ecc.). Tuttavia, difficilmente potrebbe sostenere a lungo questa linea di fronte a decine di governi stranieri coinvolti: presumibilmente, dopo interrogatori e qualche giorno di detenzione, tutti i membri della Flotilla verrebbero deportati nei rispettivi paesi. Israele otterrebbe così l’effetto di neutralizzare fisicamente la Flotilla, al prezzo però di aver mostrato al mondo un volto repressivo. In termini di immagine, non sarebbe una vittoria: i video di militari armati che arrestano persone inermi (magari parlamentari, sacerdoti, medici) farebbero il giro del globo, rafforzando l’isolamento morale di Israele. Anche in questo scenario, perciò, le ripercussioni diplomatiche e mediatiche sarebbero considerevoli, pur senza il trauma irreversibile di vite umane spezzate.
In conclusione, la vicenda della Global Sumud Flotilla rappresenta una sfida inedita allo status quo del conflitto israelo-palestinese: un atto di disobbedienza civile globale che mette alla prova i limiti delle reazioni di Stati e opinioni pubbliche. Il suo significato risiede nell’aver riacceso i riflettori sul dramma di Gaza e nell’aver costretto governi solitamente prudenti a prendere posizione. Qualunque sarà l’esito finale – un compromesso indiretto, un successo umanitario, o un tragico scontro – la Flotilla avrà comunque lasciato un segno. Come ha scritto un’analisi di Reset International, “la Global Sumud Flotilla non porrà fine all’occupazione né garantirà l’autodeterminazione palestinese; il suo scopo è fare pressione perché Israele cambi le proprie politiche e consenta l’arrivo di cibo e medicine per fermare la carestia in corso a Gaza”[60]. Resta da vedere se questa pressione produrrà un cambio di rotta nelle prossime settimane. Nel frattempo, il Mediterraneo orientale trattiene il fiato: il modo in cui Israele sceglierà di affrontare queste barche cariche di speranza e protesta potrebbe influenzare non solo il destino immediato di migliaia di persone a Gaza, ma anche gli equilibri diplomatici e l’opinione pubblica mondiale riguardo al conflitto israelo-palestinese.
Fonti e riferimenti bibliografici
- Reuters – “Gaza aid flotilla set to defy Israel as Italy urges compromise”, 26 settembre 2025[61][12].
- Al Jazeera – “Why have Spain and Italy sent ships to assist the Gaza flotilla?”, 25 settembre 2025[62][42].
- Il Fatto Quotidiano – “Mattarella alla Flotilla: ‘Non rischiate l’incolumità, portate gli aiuti a Cipro’”, 26 settembre 2025[34][35].
- ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) – “Gaza: Flotilla e tensioni”, Daily Focus, 25 settembre 2025[21][28].
- Internazionale – “Cos’è la Global Sumud Flotilla e che storia ha” di A. Camilli, 5 settembre 2025[13][7].
- Reset – Dialogues on Civilizations – “Cosa dice il diritto internazionale sulla Global Sumud Flotilla” di G. Pentassuglia, 5 settembre 2025[63][10].
- Euronews (ed. italiana) – “Flotilla, respinta proposta sugli aiuti a Cipro: consegnata diffida al governo italiano”, 25 settembre 2025[37][55].
- Anadolu Agency – “French opposition urges Macron to protect Global Sumud Flotilla”, 24 settembre 2025[46][47].
- U.S. Senate (Ufficio del Sen. Markey) – Press Release: “Markey, Warren, Merkley, Van Hollen Press Rubio to Protect Gaza Flotilla”, 25 settembre 2025[51][52].
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