Il vassoio, la sabbia e dieci giorni di campo
Ne avevo già accennato in un articolo di qualche tempo fa, ma vale la pena tornare su un oggetto simbolo dell’Esercito di ieri: il vassoio d’alluminio, robusto e inconfondibile compagno di mensa per generazioni di soldati. Questa è la sua storia – e un po’ anche la mia – durante un’esercitazione a Tarquinia in provincia di Viterbo, credo nel maggio del 1989, nel periodo della mia specializzazione da caporal maggiore VFP.
La colonia, i sanitari e la mensa
La località scelta era una vecchia abbandonata colonia per bambini, e lo si capiva bene dalle dimensioni strutturali e dalle tazze dei sanitari minuscole… che, nel giro di pochi giorni alcune si erano già intasate. Eravamo di supporto agli allievi ufficiali di complemento – AUC -, provenienti dalla Scuola Trasmissioni di Roma, impegnati nelle prove pratiche prima dell’assegnazione ai reparti.
L’atmosfera era presto diventata più “campale” (o di fortuna) che didattica, e capirete il perché. Il protagonista indiscusso di quei dieci giorni, almeno per me, fu proprio il vassoio della mensa.
Niente piatti o la storica “gavetta” -mai utilizzata-, che avevano lasciato il posto a questo oggetto razionale, suddiviso in scomparti per primo, secondo, contorno, posate e bicchiere; anch’esso rigorosamente metallico. Durante le esercitazioni (quelle di pattugliamento prevedevano le razioni K), la mensa era ottima: ricordo ancora le pennette all’arrabbiata, piccanti e saporite. Nel Lazio, i cuochi dell’Esercito sapevano il fatto loro.
Sabbia, non sapone
A fine pasto sorgeva il dilemma con il vassoio: e ora dove lo lavo?
Niente detersivo, pochissima acqua e una sola fontanella con un filo d’acqua. Ricordo anche questo. Così, in lunghe file di AUC e caporal maggiori, si aspettava il proprio turno strofinando la sabbia trovata nel campo: un sistema antico ma efficace, perché abrasivo. L’esperienza insegna sempre. E qui sorrido pensando a quella famosa lista che molti facevano – anch’io – per non dimenticare nulla da “imboscare” nello zaino. Dopo questa esperienza ci finì anche una mini confezione di sapone per piatti. Io aggiunsi anche una corda per stendere il bucato, diventata utile e condivisa durante altre esercitazioni, anche più recenti.
Un vassoio, un cuscino e una branda sgonfia
Il mio vassoio, però, non servì solo a mangiare, infatti la fortuna non mi assisteva, e il mio materassino da appoggiare sulla classica branda, era bucato. Inutile chiederne un altro…
Così, con un po’ di spirito di adattamento, stesi una coperta come materasso – di quelle ce n’erano abbastanza – fino a farle coprire il vassoio che, rovesciato, fungeva da cuscino improvvisato.
Mai come in quei giorni capii il motto: arrangiarsi, adattarsi e raggiungere lo scopo.
La libera uscita in “drop”
Quel che trovavo invece discutibile era la libera uscita in drop, l’uniforme “elegante” alternativa alla mimetica. In un campo polveroso e con poche docce contingentate appariva una piccola follia: la mimetica, invece, avrebbe reso meglio -anche a noi- l’idea della fatica e della realtà operativa.
Anche il corredo era limitato, pensate che non avevamo, da capitolato, molte magliette né abbondanza di biancheria. Però, pur con evidenti limiti, ce l’abbiamo sempre fatta e forse non eravamo neppure impresentabili (?).
Oggi, da quanto mi raccontano i militari più giovani, spesso si acquista di tasca propria parte della biancheria o delle dotazioni, ma almeno le condizioni complessive sono nettamente migliorate.
Notte sull’ACM80 e altre imprese
Eravamo circa un centinaio, stipati in uno stanzone unico e, dopo il contrappello, si chiacchierava a bassa voce finché la stanchezza non spegneva le voci qua e là: dialetti liguri, romani e del sud, qualche veneto che non manca mai, sogni sul congedo, geopolitica romanzata – era poco prima della caduta del Muro di Berlino – e un po’ di vita vera tra ragazzi di vent’anni. Una notte, per un servizio, dormii persino su un sedile di ACM80, non reclinabile. A terra era impossibile per via delle zanzare e della mancanza di tende canadesi, altro particolare utile ma che ai tempi non era contemplato per l’uso da campo militare. Non ricordo d’aver svolto servizi armati, forse erano gli AUC a provvedere.
Un’altra esercitazione la feci da caporale un anno prima, a San Polo di Piave (TV), con l’incarico di aprire e chiudere la sbarra di un passaggio a livello approntato presso una cascina agricola abbandonata. Un tenente AUC raffermato, di cui cito solo le iniziali A.A. (che non significa “Autentico Autoritario”), ci comandava con una meticolosità estrema. Mi “ficcò dentro” simbolicamente -credo- una decina di volte perché i miei anfibi non erano lucidi, ma impolverati. Ricordo che diceva: “Alle 14 a rapporto nel mio ufficio”, che poi, in quel cascinale ex azienda agricola, di ufficio aveva ben poco… Mi domando come potevano essere lucidi con il via vai dei mezzi nel fango?
Dall’improvvisazione alla professionalità
I volontari in ferma prolungata, allora, non erano certo incentivati e molto si basava sull’improvvisazione e sulle buone conoscenze. Ma furono esperienze che insegnarono ad arrangiarsi, sopportare e sdrammatizzare – qualità che nel tempo restano preziose.
Oggi l’Esercito è un’altra cosa, diventando professionale, moderno, con condizioni di vita incomparabili con i tempi passati, tuttavia, c’è ancora da migliorare e investire perché questo sia possibile.
L’opinione: Leva o associazioni?
Si parla spesso di reintrodurre la leva come antidoto alla deriva di molti giovani. Ma pochi riflettono su elementi che oggi renderebbero questa scelta pressoché impossibile, a partire dai costi.
Le Forze Armate italiane hanno chiuso, negli ultimi decenni, centinaia di caserme e presidi minori, dismesso officine e accorpato reparti. Inoltre, il personale professionale oggi disponibile è dimensionato su un modello “volontario”, non più su quello di massa.
Sarebbe quindi logisticamente e finanziariamente difficile accogliere e formare nuovamente decine di migliaia di giovani.
C’è poi un secondo punto, più profondo: perché delegare ai militari l’educazione dei figli? Esistono le famiglie e le scuole – qualunque forma esse abbiano – che dovrebbero fornire i primi strumenti di responsabilità e rispetto. Semmai dovremmo chiederci se siano ancora in grado di farlo, in un contesto sociale dove la superficialità sembra prevalere.
Un terzo aspetto spesso ignorato è che una forma di leva esiste già: quella dei Volontari in Ferma Iniziale (VFI), introdotti nel 2023, che possono servire per un solo anno, ricevere formazione e poi scegliere se proseguire o tornare alla vita civile. È una formula moderna, opzionale e professionalizzante.
Forse il contributo di noi “anziani” – anche se solo cinquantenni – potrebbe essere diverso: sostenere le associazioni d’Arma e l’UNUCI, realtà dove la cultura militare è ben conosciuta e può ancora trasmettere valori utili alla società civile. Non per nostalgia, ma per consapevolezza, si potrebbe affermare che certe esperienze – come un vassoio d’alluminio, un po’ di sabbia e una branda sgonfia – insegnano lezioni che restano ben oltre l’uniforme.
L’articolo Il vassoio, la sabbia e dieci giorni di campo proviene da Difesa Online.
Ne avevo già accennato in un articolo di qualche tempo fa, ma vale la pena tornare su un oggetto simbolo dell’Esercito di ieri: il vassoio d’alluminio, robusto e inconfondibile compagno di mensa per generazioni di soldati. Questa è la sua…
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