DPP 2025–2027: troppi soldi senza obiettivi. La bandiera rossa a 5 stelle impartisce ancora ordini a Roma?
Il Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2025–2027 (DPP) delinea una traiettoria di crescita delle risorse destinate allo strumento militare italiano, accompagnata da un robusto programma di ammodernamento. Il testo mette in fila priorità coerenti con il contesto geopolitico attuale – rafforzamento della prontezza, aumento degli stock di munizionamento, potenziamento delle capacità multidominio (cyber, spazio, subacqueo), promozione dell’industria nazionale e ricorso a strumenti finanziari europei come lo strumento SAFE (consente prestiti fino a 45 anni…) – ma al tempo stesso evita di legare investimento e spesa a obiettivi strategici concreti, misurabili e inevitabili. Insomma il DPP certifica un aumento consistente delle risorse ma non fornisce una matrice di obiettivi operativi che colleghi in modo trasparente ciascun euro speso a un risultato misurabile in termini di capacità, readiness o scorte.
La spesa per la Difesa nel 2025, considerata nel perimetro integrato secondo i criteri NATO, si attesta a circa 45 miliardi di euro, pari a circa il 2% del PIL.

Senza key performance indicators, senza target quantitativi (scorte minime di munizionamento per tipologia, percentuali obiettivo di disponibilità mezzi, numero di piattaforme rese operative in un arco temporale definito), la spesa resta una sommatoria di capitoli. La conseguenza è che non è possibile valutare ex ante la redditività strategica dell’investimento – e nemmeno tracciare ex post l’efficacia delle scelte.
La retorica generica dell’ammodernamento non è più sufficiente quando la posta in gioco è la sopravvivenza operativa di unità, equipaggi e contingenti impiegati in missione.
In questo quadro, l’Italia aumenta le risorse ma non costruisce una bussola strategica che dica chiaramente «contro chi e con quale livello di rischio dobbiamo prepararci».
La differenza tra aumentare i finanziamenti per sostenere capacità precise e aumentare i finanziamenti per alimentare un circuito industriale che converta risorse in profitti è sostanziale.
La domanda che allora sorge è: a chi servono questi fondi?

Sul fronte politico e istituzionale, i dati recenti evidenziano un’accelerazione delle attività di lobbying del settore difesa a livello europeo, con centinaia di incontri e campagne dirette verso il Parlamento Europeo e le istituzioni comunitarie nell’ultimo anno. Questi elementi non dimostrano automaticamente una correlazione causale intendendo «soldi = lobbying = cattive scelte», ma delineano un ecosistema in cui l’incremento dei budget diventa anche terreno di crescita per profitti aziendali e di pressione politica.
È legittimo che un paese rafforzi le proprie capacità quando il contesto lo richiede. È invece discutibile che una struttura di spesa militare cresca senza che esista un quadro trasparente di obiettivi e di controlli che la colleghi ai reali bisogni operativi delle Forze armate.
Quando il legislatore e l’opinione pubblica non hanno strumenti per verificare il legame tra spesa e capacità, il rischio è duplice:
- che risorse pubbliche sostengano in prevalenza aumento di margini industriali e dividendi;
- che le scelte strategiche restino appannaggio di rapporti immediati tra industria e politica, anziché di una pianificazione militare coerente.
L’omissione più significativa: la Cina non è un “competitor” dichiarato
All’interno del DPP la Cina è richiamata in passaggi dedicati all’economia globale, alla posizione dominante nelle terre rare e alla crescente penetrazione in Africa e nei Balcani, ma non viene mai esplicitamente definita come competitor strategico per l’Italia.

Il documento accenna all’Indo-Pacifico come area di interesse e sottolinea il cambiamento degli equilibri globali, senza tuttavia avere il coraggio di trarne le conseguenze geopolitiche e operative che altri alleati hanno invece da anni scelto di formalizzare nel loro quadro strategico. Gli Alleati, spesso della sfera anglosassone e dell’Indo-Pacifico, hanno infatti già indicato nella loro dottrina e nei loro documenti ufficiali la Cina come sfida sistemica o come principale sfidante strategico.
La NATO, nel suo Strategic Concept del 2022, indicava chiaramente che «le ambizioni dichiarate e le politiche coercitive della Repubblica Popolare Cinese sfidano i nostri interessi, la nostra sicurezza e i nostri valori».
L’Australia, con la Defence Strategic Review 2023, ha ridefinito il proprio approccio di difesa guardando alla Cina come il fattore che richiede la ristrutturazione della postura e delle priorità delle Forze armate australiane nel Pacifico.
Il Giappone, nelle sue strategie e white paper difensivi, identifica da anni l’attività militare cinese e la pressione sulla regione come la principale sfida strategica per Tokyo, con ripercussioni dirette sulla dottrina e sulla spesa nazionale.
Il Regno Unito, nell’Integrated Review e nel Defence Command Paper 2023, richiama la necessità di tenere conto della volontà cinese di usare «tutti i leve del potere di stato» per prevaricare e spostare gli equilibri globali.

Per molti dei principali alleati, dunque, la Cina non è un soggetto “neutro” da descrivere solo in termini economici – è un attore che impone scelte di difesa, posture marittime e capacità di deterrenza massicce ed urgenti.
Italiani (plebei) solita carne da cannone?
La retorica istituzionale dichiara sempre che la Difesa è «a tutela dei cittadini» e che le risorse servono a proteggere «i nostri uomini e le nostre donne in uniforme».
La realtà operativa, tuttavia, ricorda che la vera misura di una politica di Difesa non è la quantità di piattaforme acquistate, ma la capacità di ridurre il rischio per chi le utilizza. Significa garantire addestramento, disponibilità effettiva dei mezzi, scorte adeguate di munizionamento e la protezione che oggi passa anche per reti sicure, difesa cibernetica e capacità di contrasto alla guerra cognitiva.
Investire per far sì che i nostri militari operino in sicurezza richiede scelte mirate (verificabili e trasparenti), non semplici incrementi di bilancio. Il pericolo è che le risorse finiscano per alimentare soprattutto la filiera industriale e i risultati finanziari delle imprese, mentre il fattore umano resta in secondo piano.
Il DPP 2025–2027 contiene certamente elementi virtuosi. Tuttavia, la capacità di spesa, se non accompagnata da una strategia politica chiara e da strumenti di valutazione efficaci, rischia di restare un esercizio contabile.
Anche il ruolo della stampa specializzata, in un contesto dove l’informazione è spesso sostenuta dalle stesse aziende di settore, merita una riflessione: può esistere una critica realmente indipendente se la sostenibilità economica dipende da chi è potenzialmente oggetto della critica?

Servono (servirebbero) quindi politici lungimiranti, ma anche osservatori indipendenti, capaci di guardare oltre l’immediato e di ricordare che la Difesa non è un capitolo di spesa, bensì un presidio di credibilità nazionale.
La domanda finale è: chi, in Italia, determina davvero le priorità della Difesa?
Finché questa risposta non sarà chiara, i bilanci cresceranno, i profitti industriali pure, e le lobby continueranno a muoversi con disinvoltura. Ma non è detto che, alla fine, a beneficiarne saranno coloro che indossano l’uniforme o gli altri sudditi italiani.
Foto: OpenAI / ministero della Difesa / NATO / presidenza del coniglio dei ministri
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