Iran oltre la tempesta: crepe nel regime, guerra dei 12 giorni e la battaglia per il dopo-Khamenei
Iniziamo con i cotillons con cui il 7 novembre, in Piazza della Rivoluzione a Teheran è stata inaugurata la statua ispirata al rilievo della necropoli di Naqsh-e Rostam, che immortala la resa dell’imperatore romano Publio Licinio Valeriano, catturato nel 260 d.C. dalle armate persiane; l’iniziativa giunge quale gaia commemorazione della più recente Guerra dei 12 Giorni, con l’inedito ma avvedutissimo intento di riesumare la storia preislamica inserendola religiosamente in un contesto strategico necessario a rafforzare l’unità nazionale.
Oltre al mai troppo atteso monumento dedicato alle Termopili ed alla loro banda di folli Spartani, la Repubblica Teocratica ha tentato di rimettere in circolo l’adrenalina di memorie storiche considerate tatticamente funzionali a scopi islamici che non hanno potuto evitare né l’impatto psicologico dei raid su Teheran né dell’annichilimento della leadership, sanzionando così il passaggio dai giochi di ombre ai confronti ad alta intensità.
Tuttavia, anche se la potenza degli attacchi israeliani ha esaltato debolezze ed isolamento, dare già per spacciato un governo clericale che gioca sul nazionalismo sarebbe un errore, benché sussistano posizioni ambivalenti che contemplano si’ vendetta ma anche frustrazione tale da indurre ad una soporifera ed incerta normalità.
L’orientamento nazionalista si è indirizzato nel richiamo mitologico di Arash l’Arciere, nell’uso di canti nazionalisti intonati funzionalmente anche dagli imam, una strategia che vuole unire la società riducendo i temi esclusivamente religiosi, tanto che anche dissidenti e diaspora si sono stretti attorno al Paese, non per dare un consenso al regime quanto per assicurare una risposta all’attacco alla sovranità nazionale.
L’assenza di movimenti e leader carismatici capaci di catalizzare le opposizioni, ha permesso al governo di mantenere un apparente controllo che, se fondato su una auspicata deterrenza nucleare, modificherebbe lo status regionale di Teheran, colpita da sanzioni che cerca di eludere dirottando il greggio sotto costo verso la Cina; se le operazioni israeliane rischiano di essere considerate un mero successo tattico, è però vero che il regime iraniano potrebbe essere spinto da una disperazione rischiosa, senza contare come la strutturalmente debole Presidenza Pezeshkian, ideale capro espiatorio alla Malaussène che nulla decide su politica estera e Forze armate ma che si occupa di bilancio ed economia, sia stata messa sotto accusa da radicali e conservatori, che avevano ipotizzato un suo impeachment, e riformisti, ulteriormente frammentati al loro interno tra moderati e massimalisti.
Se l’elezione dell’ammortizzante Pezeshkian ha frenato la linea dura, è però vero che non ha potuto che adattarsi alla funzione di valvola di sfogo collettiva, potendo solo conformarsi agli intendimenti di Khamenei. Quel che può tentare di fare, è cercare di tenere aperta una porta protocollare per evitare un nuovo confronto militare, mentre internamente può tentare la strada della calibrazione delle concessioni.
Finché i non eletti eserciteranno il potere, la presidenza rimarrà un utile bersaglio: a grandi aspettative popolari corrispondono poteri istituzionali infinitesimi.
Lo scontro ha coinvolto anche i Pasdaran, compagine non monolitica e polarizzata, critici verso il riformismo di Rouhani e del nipote di Khomeini, che sembra abbiano tentato di spingere verso il dialogo con l’Occidente, una sorta di lesa maestà nei confronti di Khamenei, prudentemente occuktato durante i raid; ogni critica, più o meno legata alle conseguenze della Guerra dei 12 Giorni, la più costosa dopo quella contro l’Iraq, ha evidenziato i punti di faglia interni ad un sistema di potere che ha reagito populisticamente contro le minoranze.
È in questo contesto che assume particolare rilevanza quanto commentato da Ali Akbar Nateq-Nouri, 81enne rivoluzionario di lungo corso e politico di vaglia quando ha definito un errore il sequestro dell’ambasciata americana nel ’79, atto che ha determinato strascichi pesantissimi e duraturi causati dall’aver confuso l’improvvisazione con la strategia; insomma, il confronto con gli americani non era inevitabile e tutto avrebbe potuto essere invertito, al netto delle critiche post attacchi israeliani, anche perché ammettere errori di calcolo imporrebbe di esaminarne le reazioni a catena.
In fondo, l’Iran ha conosciuto allineamenti occidentali anche in chiave anti russa, dunque l’ostilità verso gli USA potrebbe ancora rientrare nelle anomalie storiche.
Assolutismo morale a parte, è il controllo delle narrazioni a fare la differenza: per Teheran è arrivato il tempo di misurare costi e benefici senza slogan, magari grazie ad una resa dei conti generazionale in cui la rivoluzione diventi oggetto di ricalibrazione e di adattamento strategico magari non cristallino ma durevole.
Gli attacchi israeliani, durante i quali sembra che Khamenei abbia scelto tre suoi possibili successori, attacchi rivolti contro istituzioni legate a controllo politico e sicurezza interna, hanno instillato il dubbio circa l’effettiva utilità dell’ufficio della Guida Suprema, se cioè considerarlo una carica simbolica lasciando all’IRGC il controllo effettivo, un approccio che ricorda quello dello Scià quando, poco prima della deposizione, consentì maggiori critiche al suo governo.
Nel mentre, l’opposizione riformista ha invocato un referendum sulla Costituzione, o almeno una nuova strategia nazionale, con aperture verso l’esterno tentando il ripristino del rapporto di fiducia tra Stato e cittadinanza.
Chierici a parte, la fazione più potente rimane l’IRGC, uno Stato nello Stato destinato ad imporsi sulle FA regolari; politicamente intransigente, la cleptocratica1 Guardia è strettamente avvinta all’economia2; non c’è dubbio che i Pasdaran sarebbero i più celeri a prendere il controllo, specie in tempo di guerra, pronti a celebrare ma non a restaurare completamente una qualsiasi Guida Suprema.
Inevitabile rivedere al ribasso le proiezioni economiche, con gli investitori che comprano oro o abbandonano il paese, auspicando un ritiro dei Guardiani dalle attività finanziarie. Ecco la prima vulnerabilità iraniana, l’economia, con inflazione e disoccupazione in ascesa, deprezzamento galoppante della valuta, posto che l’ostacolo principale rimane la politica estera cosa che non ha impedito che i finanziamenti per le istituzioni religiose o ideologiche, aumentassero.
Ecco che trovano posto gli aghazadeh, i figli privilegiati – ma spesso incompetenti – dei maggiorenti, con attività che vanno dalle charity religiose alle proprietà immobiliari al monopolio del greggio; l’indecifrabilità della situazione non riguarda dunque la tenuta dell’establishment ma l’economia, con le finanze pubbliche relativamente protette grazie ad una gestione centralizzata e alle rendite maturate dai settori strategici e non dalle mother industries, più penalizzate. Un Iran più libero, potrebbe proporsi in via globale, incidendo sugli equilibri regionali.
Ed è proprio il problema della successione di Khamenei che continua a incombere, con nuove prospettive circa l’Asse della Resistenza come parte della dottrina della difesa avanzata, con la valutazione su quale proxy investire, con il futuro del programma nucleare al netto della disponibilità missilistica e di UAV, con una multilateralità che non permette di considerare Pechino e Mosca illimitatamente disponibili, stanti i loro interessi ed i loro impegni sul campo, ma comunque pronti alla presa diretta su BRICS o SCO.
Il problema è che, pur resistendo, la durata del regime rimane aleatoria, vista anche la capacità israeliana di infiltrazione.
Nel frattempo, nel 2025, nelle pubbliche piazze ci si affida alla preghiera invocando la pioggia in volumi tali da alleggerire una crisi idrica poco mistica che trova le sue ragioni in politiche dissennate ed impreparazione tecnica.
All’estero non va meglio, con l’indebolimento degli alleati regionali e con la perdita di influenza nel Caucaso meridionale, prioritario per la sicurezza ma sempre più rivolto verso la Turchia ed infiltrato da Israele, post annuncio americano di un accordo tra Armenia e Azerbaigian, comprensivo dell’ex Corridoio di Zangezur, ribattezzato Trump Route for International Peace and Prosperity3.
Le critiche sono diventate sempre più visibili sia durante le proteste per Donna, Vita, Libertà del 2022-2023, sia in occasione degli attacchi israeliani in Siria e Libano nel 2024, e si sono acuite per una cautela governativa poco comprensibile data la muscolarita’ dei proclami.
L’interruzione del programma nucleare sarebbe una capitolazione, specialmente se considerata in combinazione con una reprise diplomatica con l’Occidente, calice amarissimo ma necessario.
Ma che ne sarebbe della teocrazia iraniana se venisse meno il suo nemico esistenziale, con una legittimità ulteriormente compromessa da una crescente incapacità di gestire la cosa pubblica, tra crisi idrica e blackout energetici, affrontati gestendo i giorni feriali come se fossero festivi?
Teheran è al paradosso di dover temere più le spaccature interne che i bombardamenti di Tel Aviv, secondo un paradigma che, collegando i coinvolgimenti anglo americani del ’53 con il conflitto con l’Iraq degli anni ‘80, portano alla percezione israelo-statunitense quale rinnovato pericolo esistenziale.
Mentre gli indici di gradimento presidenziali calano, si innalza il numero delle esecuzioni4, tanto da indurre i riformisti a chiedere a Pezeshkian passi pericolosamente coraggiosi, senza i quali a poco servirà l’empatia, tanto meno quella artificiosa dei video musicali attualmente in voga, così lontani dall’intransigente dogma religioso ma così tatticamente utili per la controinformazione.
Quante sono le crisi sociali iraniane? Diverse, e di spessore, a cominciare da quella immobiliare, causata da un sistema che privilegia accumulo e speculazione, e l’idrogeologica, una bancarotta idrica causata da errori politici e tecnici di cui è responsabile anche l’IRGC.
Giochiamo. Gli imam sono in crisi; quali sono le alternative? Le probabilità di una trasformazione potrebbero coincidere con la successione di Khamenei; immediato pensare ad un passaggio di poteri ai Pasdaran che già detengono gran parte del potere reale, o ipotizzare il mantenimento del sistema clericale quale utile parafulmine, o trasformarsi in un soggetto politico alla Islamabad, un Iranistan nazionalista e militare pronto ad approfittare della frammentazione delle opposizioni.
Poco credibile un pronunciamento popolare, non perché non di valore, anzi, quanto perché troppo determinati i Pasdaran, per cui vale la regola aurea secondo la quale il potere non si cede. Mai.
Imprevisti/Probabilità del Monopoli persiano: forte competizione tra cartelli interni all’IRGC non più contenuti dalla Guida Suprema e pressati o dall’Occidente o dalla necessità di riconfigurare l’Asse della Resistenza con una nuova forma di autocrazia militarizzata, ovviamente senza alcuna onda verde.
Difficile anche un ritorno dello Scia, troppo facilmente associato ad un’idea nazionalista ed autocratica.
Il fattore K di correzione umana, da applicare sul grafico del regime change iraniano, potrebbe premiare un pasdaran piuttosto che un chierico, posto che la teoria del mantenimento del potere è religiosamente chiara anche agli Ayatollah tonache.
Insomma, molto realismo sostenuto dal fatto che, secondo Barbara Geddes, dalla II GM a oggi, meno di un quarto delle transizioni autoritarie ha portato alla democrazia.
Attualmente l’Iran sembra essere più incline a seguire tendenze in cui ascende l’immancabile uomo forte, ispirato al pragmatismo cinese o ad una sorta di dinastia rivoluzionaria, eremita e nucleare come a Pyongyang; o con un minore appeal, una democrazia populista alla turca, dove comunque sarebbe un pio laico a governare.
Attenzione però: non si può escludere una soluzione iraniana che contemperi in un melting pot i diversi aspetti, tutti autocratici e coercitivi, a meno che non prevalga il fattore Vietnam, ovvero un Paese reduce da una guerra sanguinosa ma aperto nel tempo alle liaison anche con gli ex nemici.
1 www.meforum.org
2 I Pasdaran sono diventati un enorme conglomerato economico che controlla settori vitali come il petrolio, il gas, le telecomunicazioni, le infrastrutture e l’agricoltura. Si tratta di una rete economica che permette accessi indiscriminati a risorse che superano quelle disponibili per Artesh.
3 Dovrebbe collegare l’Azerbaigian alla sua enclave di Naxçıvan attraverso la provincia armena di Syunik
4 Solo in settembre non meno di 200; a luglio 2025, i media di Stato hanno invocato un nuovo 1988, quando in una sola estate vennero giustiziati oltre 30 mila prigionieri politici
L’articolo Iran oltre la tempesta: crepe nel regime, guerra dei 12 giorni e la battaglia per il dopo-Khamenei proviene da Difesa Online.
Iniziamo con i cotillons con cui il 7 novembre, in Piazza della Rivoluzione a Teheran è stata inaugurata la statua ispirata al rilievo della necropoli di Naqsh-e Rostam, che immortala la resa dell’imperatore romano Publio Licinio Valeriano, catturato nel 260…
L’articolo Iran oltre la tempesta: crepe nel regime, guerra dei 12 giorni e la battaglia per il dopo-Khamenei proviene da Difesa Online.
Per approfondimenti consulta la fonte
Go to Source
