Lo “Stability Policing” come strumento di gestione delle Crisi e nel mantenimento della Pace
I moderni conflitti armati si manifestano da tempo senza atti formali iniziali e senza dichiarazioni di guerra, passaggi peraltro di difficile realizzazione pratica in considerazione del fatto che sovente i conflitti sorgono all’interno di sovranità nazionali o nell’ambito di realtà locali circoscritte oppure a seguito di azioni offensive operate da organizzazioni terroristiche. Inoltre un conflitto armato può manifestarsi anche in modo (teoricamente) improvviso ponendo la comunità internazionale di fronte all’evento affidandone la comunicazione a uno stringato messaggio di testo su qualche social-network di tendenza!
Attualmente è impensabile che un conflitto armato si materializzi in modo improvviso ed inaspettato, perlomeno in via teorica, senza alcun tipo di avvisaglia, sia dal punto di vista teorico (valutazioni geopolitiche, analisi di Intelligence…) che da punto di vista pratico (ammassamento di truppe, movimentazione di mezzi, aumento dei livelli di comunicazione, implementazione di assetti militari…).
Prima di arrivare a un vero e proprio conflitto, molte realtà del passato hanno insegnato che circostanze politicamente incerte e diplomaticamente ambigue, hanno favorito l’instaurarsi di stati di tensione, di crisi o di situazioni indefinite di “non pace” e di “non guerra”.

In buona sostanza, una progressiva situazione di instabilità che può trasformare una iniziale “situazione di tensione” che, degradandosi, può poi modificarsi in una “situazione di crisi” ed evolversi in una “situazione pre-conflittuale” per giungere alla fine ad un vero e proprio “conflitto aperto”.
Naturalmente anche situazioni post-conflittuali in cui non sia stata conseguita e consolidata una pace possono presentare le stesse necessità di dover parimenti gestire una crisi.
Le situazioni di possibile instabilità, con il contestuale problema della mancanza di sicurezza, la necessità di dover fronteggiare e gestire una crisi erano problematiche già ben chiare negli anni ’90 in cui si parlava di “Politica di Sicurezza e di Difesa” sia a livello della NATO che a livello della pro-tempore UEO (Unione dell’Europa Occidentale). Per fornire tuttavia una legittimazione di carattere “internazionale” ad una eventuale Forza di intervento, sia che fosse militare (Military) o di Polizia (Constabulary), e per avere una co-responsabilità a livello politico, già allora si riteneva necessario un avallo da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tramite una specifica “Risoluzione ONU”, per poter intervenire in un’area di crisi.

Nel merito, non avendo l’ONU delle Forze Armate proprie, gli eventuali contingenti messi a disposizione dell’ONU da parte delle varie Nazioni, possono operare in tre diverse tipologie di livello funzionale e che, conseguentemente, individuano tre tipi di operazioni:
- Operazioni sotto EGIDA dell’ONU: le Nazioni Unite si limitano ad avallare gli obiettivi dell’operazione (es. Desert Storm / UNITAF-Somalia 1);
- Operazioni sotto il MANDATO dell’ONU: le Nazioni Unite incaricano una Nazione od una Organizzazione di pianificare e condurre la missione (operazioni con “gestione delegata”). In questo caso l’ONU definisce gli obiettivi da perseguire, ma mantiene solo la direzione politica dell’operazione (es. Operazione “Alba” / IFOR / SFOR / KFOR);
- Operazioni sotto il COMANDO dell’ONU: le Nazioni Unite assumono direttamente il comando dell’operazione, realizzando in proprio, su base multinazionale, le necessarie strutture di comando (es. UNIFIL-Libano / UNOSOM-Somalia 2 / UNOMOZ-Mozambico).
Più specificatamente, in ambito militare, le Operazioni tese alla gestione di una crisi assumono la definizione di “Crisis Response Operations” (CROs) ovvero “Operazioni di Risposta alle Crisi” , (in ambito NATO denominate “Non article five CROs”).

Tali Operazioni si suddividono in ulteriori sottotipologie, la più importante delle quali è rappresentata dalle “Operazioni di Supporto alla Pace”, ovvero dalle “Peace Support Operations” (PSOs), chiamate anche “Missioni di Petersberg” (così definite durante la riunione del consiglio dei ministri della UEO avvenuta a Petersberg nel 1992), che, a loro volta, a seconda della loro funzione definita dalla Carta dell’ONU, si suddividono in:
- Operazioni con funzione Conciliativa (dal Cap. VI della Carta dell’ONU);
- Operazioni con funzione Coercitiva (dal Cap. VII della Carta dell’ONU).
Alla funzione Conciliativa si ricollegano i seguenti tipi di missione:
- Humanitarian Aid (Aiuto umanitario);
- Conflict Prevention (Prevenzione dei conflitti);
- Peace Making (Edificazione della Pace).
Alla funzione Coercitiva si ricollegano i seguenti tipi di missione:
- Peace Keeping (Mantenimento della pace);
- Peace Enforcement (Imposizione della pace);
- Peace Building (Consolidamento/Costruzione della pace).
Di fatto, il concetto del “Peace Keeping”, o anche “Peacekeeping”, ha poi assunto sia un aspetto molto più “conciliativo” (lasciando il ruolo coercitivo prevalentemente al “Peace Enforcement”) che un aspetto più “multiruolo”, dove la missione assegnata può spaziare anche nell’ambito delle altre, variando al variare della situazione in atto.

La definizione di “Operazioni di Peacekeeping”, anche su vari manuali dell’ONU, risulta non sempre uniforme, tuttavia tra le migliori risulta essere la seguente: “Operazioni di natura multinazionale condotte con Forze militari o di Polizia fornite dai Paesi contributori che, attraverso uno sforzo comune (anche per condividere responsabilità politiche e costi derivanti! ndr), hanno lo scopo di mantenere una situazione di pace e di sicurezza internazionale o comunque di creare quelle particolari condizioni affinché permanga una situazione di pace”.
Alla fine degli anni’90, a seguito di varie missioni ONU, emerse il fatto che determinati contesti di instabilità erano appositamente creati da gruppi ostili per minare gli sforzi profusi durante le Operazioni di Peacekeeping.
Il prof. Stephen Stedman (foto), alla luce di numerose sue esperienze (Cambogia, Angola, Mozambico; Rwanda) come ricercatore ONU di alto livello, definì tali gruppi ostili come “Spoilers” (termine che in tale contesto assume il significato di “rovinare qualcosa”) e che è stato anche tradotto come “Sabotatori della pace”, fornendone la seguente definizione: “Leader e gruppi di individui che credono che la pace che emerge da negoziati minacci il loro potere, la loro visione del mondo nonché i loro interessi e ricorrendo, per evitare questo, alla violenza sabotando quei processi che cercano di raggiungere la pace stessa”. Inoltre furono proprio le crisi complesse degli anni ’90, caratterizzate da guerre civili, tensioni etno-settarie e collasso statale, a mettere a nudo taluni limiti delle forze militari tradizionali, concepite primariamente per conflitti convenzionali tra Stati.

In particolare, le tragiche esperienze nei teatri operativi in Somalia nel 1993 (fallimento del ripristino della stabilità politica – Operazione UN “Restore Hope”) e in Bosnia-Erzegovina nel 1995 (massacro di Srebrenica – mancato intervento della Forza di Protezione UNPROFOR / United Nations PROtection FORce), dimostrarono la non completa adeguatezza dei contingenti militari nel gestire minacce interne, disordini civili e la protezione della popolazione. Fu dimostrato come questa incapacità aveva creato un pericoloso “policing gap” (“mancanza di polizia” intesa come “vuoto di sicurezza”) che andò a determinare un divario di sicurezza tra la fine delle ostilità su larga scala e la creazione di un ambiente stabile e sicuro per la popolazione civile.
Dette esperienze in Somalia e in Bosnia evidenziarono tragicamente l’inadeguatezza dei contingenti militari convenzionali: in Somalia, l’operazione umanitaria si era trasformata in uno scontro urbano in cui le forze speciali statunitensi, pur altamente addestrate per il combattimento, si erano trovate in difficoltà contro milizie irregolari, mentre in Bosnia, le forze di pace delle Nazioni Unite non erano riuscite a proteggere la popolazione civile a Srebrenica assistendo impotenti a uno dei più gravi atti di genocidio in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. In entrambi i casi, le forze militari tradizionali, orientate a contrastare minacce esterne, si erano pertanto rivelate impreparate a gestire la sicurezza interna, i disordini civili e la protezione di civili.
Le difficoltà emerse durante tali circostanze imposero pertanto un ripensamento radicale dell’approccio alla gestione delle crisi delineando la necessità di disporre di forze di Polizia che però avessero in qualche modo uno “status militare”, sostanzialmente una Forza “ibrida” in grado di affiancare (ma anche di sostituire) le Forze di Polizia locali.
Alla luce di quanto detto, la NATO teorizzò e sviluppò il concetto dottrinale di “Stability Policing” (SP) (“Polizia per il mantenimento della Stabilità”) al fine di costituire ed addestrare unità specializzate espressamente concepite per colmare il divario tra le operazioni puramente militari e le attività di polizia civile, fornendo uno strumento flessibile ed efficace per la gestione delle fasi più delicate delle operazioni di pace.

Tale dottrina, formalizzata nell’Allied Joint Publication AJP-3.22 (applicata in scenari complessi, come missioni di Peacekeeping, stabilizzazione post-conflitto o supporto alla ricostruzione di “Stati fragili”), fornisce la seguente definizione ufficiale: “attività di polizia volte a rafforzare o sostituire temporaneamente le Forze di Polizia indigene al fine di contribuire al ripristino e/o al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, dello stato di diritto e della protezione dei diritti umani”.
Peraltro l’Italia già possedeva delle Forze militari istituzionalmente dedicate ed addestrate per svolgere anche compiti e missioni di Polizia: l’Arma dei Carabinieri. Di fatto, risultò di particolare evidenza il contributo concreto che l’Italia, attraverso i suoi carabinieri, avrebbe potuto fornire nel creare una Forza a status militare di pubblica sicurezza, come già forniva sul suolo patrio, nella prospettiva di un impiego operativo in diversi teatri di crisi.
La risposta innovativa a quel “vuoto di sicurezza” che si era avvertito e che era stato recepito dalla NATO attraverso lo Stability Policing, si concretizzò nella creazione della prima “Unità Specializzata Multinazionale”, meglio nota come “Multinational Specialized Unit” (MSU), dispiegata in Bosnia nell’agosto del 1998 nell’ambito della missione NATO SFOR (“Stabilization FORce”).

Questa unità, di dimensioni reggimentali, era composta da forze di tipo gendarmeria (Gendarmerie Type Forces – GTF), nello specifico carabinieri italiani e gendarmi argentini, supportati da una componente di polizia militare rumena, sotto la guida italiana. Sostanzialmente si trattava di forze “ibride”, ovvero forze di polizia con status militare che combinavano la disciplina, l’organizzazione e la robustezza tipiche delle forze armate con le competenze, la mentalità e le funzioni proprie della polizia civile. Questo carattere ibrido si è poi rivelato la soluzione unica al policing gap, poiché consente una risposta calibrata in ambienti troppo ostili per la polizia civile, ma dove un impiego della forza militare letale sarebbe inappropriato e controproducente.
L’esperienza positiva delle MSU nei Balcani ha gettato le basi operative per la successiva formalizzazione di una dottrina condivisa all’interno della NATO, trasformando una soluzione tattica in una riconosciuta capacità di livello strategico.
L’efficacia dimostrata sul campo dalle MSU ha portato alla necessità di codificare l’esperienza operativa in un quadro dottrinale formale e condiviso. Questo processo si è concretizzato nel 2016 con la pubblicazione dell’Allied Joint Publication AJP-3.22 (Allied Joint Doctrine for Stability Policing), che oggi rappresenta il documento di riferimento per l’Alleanza Atlantica in questa materia. La dottrina non solo standardizza l’approccio, ma espande anche la portata del concetto, rendendolo uno strumento flessibile applicabile all’intero spettro dei conflitti.

L’AJP-3.22 definisce due missioni principali per lo Stability Policing, che si adattano a diversi livelli di collasso o inefficienza delle istituzioni di sicurezza locali:
- replacement (sostituzione), necessaria nelle situazioni in cui le forze di polizia locali (IPF – Indigenous Police Force) o un governo riconosciuto sono inesistenti o completamente collassati. Questo è il caso più esigente e può caratterizzare un cosiddetto “Failed State” (Stato fallito). La sostituzione può essere completa (coprendo controllo territoriale, polizia generale e funzioni specialistiche) o parziale (limitata a lacune di capacità specifiche che le IPF esistenti non riescono a coprire);
- reinforcement (rafforzamento), richiesta quando la polizia locale esiste ed è considerata affidabile, ma la sua efficacia è limitata o indebolita. Questa situazione è spesso caratteristica di un “Recovering State” (Stato in ripresa). Le attività di rafforzamento possono includere diverse funzioni: monitoring (monitoraggio): osservazione, valutazione e rendicontazione delle prestazioni delle IPF per garantire il rispetto dei diritti umani e delle migliori pratiche internazionali; mentoring (affiancamento): fornire guida e consulenza continua a individui, team o unità specifiche fino a quando non sono in grado di funzionare autonomamente, spesso focalizzato sullo sviluppo del personale in posizioni di leadership e comando; advising (consulenza): fornire competenze e consigli specialistici alle forze locali, applicabile dal livello tattico a quello strategico; reforming (riforma): processo di trasformazione strategica volto a migliorare le capacità e l’integrità, che può includere la ristrutturazione interna, la ricostruzione e l’ispezione; training (addestramento): iniziative che contribuiscono all’educazione e all’addestramento della forza locale, sia a livello individuale che collettivo; partnering (collaborazione): coinvolgimento in attività congiunte. Il rafforzamento può evolvere dalla funzione di sostituzione (fase iniziale), e richiede un progressivo passaggio di responsabilità alla polizia locale.

Per adempiere a queste missioni, le forze di Stability Policing devono possedere un’ampia gamma di capacità specialistiche, diverse da quelle di un’unità militare convenzionale ed in particolare:
- controllo della folla e gestione dei disordini – capacità fondamentale per gestire le tensioni civili con un uso proporzionato della forza, prevenendo l’escalation della violenza;
- indagini penali e attività forensi: competenze essenziali per raccogliere prove, gestire la scena del crimine e supportare il sistema giudiziario nel perseguire i responsabili di reati;
- controllo delle frontiere e sicurezza di siti critici – per ristabilire la sovranità dello Stato e proteggere le infrastrutture vitali per il funzionamento della società;
- lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata – capacità specialistiche per contrastare le minacce che minano la stabilità e finanziano gruppi destabilizzanti;
- protezione dei civili e dei gruppi vulnerabili – per garantire la sicurezza umana e creare un ambiente protetto, in particolare per minoranze, donne e bambini.
L’impiego di unità MSU si dimostrò sin dall’inizio pienamente in grado sia di porre sul terreno la capacità di colmare il “deployment gap” (inteso come la impossibilità, o mancata volontà, da parte della polizia locale di svolgere la missione assegnata) e sia di fornire un concreto contributo per porre fine alla violenza su larga scala.

Come esempio di impiego si possono citare il dispiegamento in Bosnia ed in Kosovo nonché l’impegno nelle lotta contro l’ISIS (Islamic State in Iraq and Syria):
- In Bosnia, il dispiegamento della NATO SFOR si scontrò con la minaccia dei disordini civili orchestrati, noti come “rent-a-mobs” (termine dispregiativo che indica un gruppo di persone, spesso assunte, che partecipano a proteste o eventi per creare una dimostrazione artificiale o non autentica di sostegno o opposizione). La SFOR, priva di capacità di controllo della folla, si trovava paralizzata. Il dispiegamento della MSU nel 1998 colmò in modo decisivo questo deployment gap. Nel suo primo anno di attività la MSU risolse 261 dei 263 “interventi” senza ricorrere all’uso della forza, basandosi su deterrenza, dissuasione e negoziazione;
- In Kosovo, il rapido dispiegamento della MSU in ambito KFOR (Kosovo FORce) nel 1999 evitò il verificarsi di un deployment gap. Questa prontezza permise di gestire efficacemente i disordini nella città divisa di Mitrovica, neutralizzando le tattiche dei cosiddetti “Bridge Watchers” (“Osservatori/Guardie del ponte”), gruppo paramilitare formato principalmente da serbi del Kosovo settentrionale, attivo soprattutto tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000. Per inciso, il loro nome deriva dal ponte sul fiume Ibar, che divide la città di Mitrovica in due parti: la parte nord, a maggioranza serba, e la parte sud, a maggioranza albanese, diventato un simbolo della divisione etnica e politica tra le due comunità;
- Nel contesto della lotta all’ISIS, il contributo dello Stability Policing, dopo il gravissimo attentato alla base italiana Maestrale di Nassiriya sede della MSU del 12 novembre 2003 che causò la morte di 19 italiani (12 carabinieri, 5 militari dell’Esercito e 2 civili) e 9 iracheni, assunse la forma della Police Task Force – Iraq (PTF-I), a guida carabinieri, come evoluzione di precedenti missioni di addestramento avviate dall’Arma in Iraq. Un contingente di 90 carabinieri fu schierato nel marzo 2015 per formare la PTF-I, successivamente cresciuta fino a includere circa 170 addetti, tra cui Guardia Civil spagnola e personale di polizia militare e civile di altri paesi. La strategia della coalizione si basava sul concetto di “clear and hold” (“ripulisci e mantieni”): le forze militari “ripulivano” le aree da ISIS, mentre le forze di polizia locali (“Hold Forces“) avevano il compito di “mantenerle” sicure. La PTF-I fu creata per addestrare queste forze, un modello di successo nel campo del “train, advise and assist” (addestramento, consulenza e assistenza).

In ogni caso, l’impegno ed i risultati conseguiti dai carabinieri delle MSU, ha messo in risalto il ruolo pionieristico dell’Italia nello sviluppo, nella codifica e nella diffusione del concetto di Stability Policing a livello mondiale, permettendo di trasformare l’esperienza operativa maturata in una capacità strategica riconosciuta e in un modello di eccellenza. Il riconoscimento di tale ruolo pioneristico si è poi concretizzato con la costituzione del “Center of Excellence for Stability Police Units” (CoESPU) (Centro di Eccellenza per le Stability Police Units) inaugurato a Vicenza il 1° marzo 2005.
L’istituzione nacque da una proposta italiana accolta dal G8 durante il “Sea Island Summit” del 2004 (foto) e sostenuta fin dall’inizio da un fondamentale finanziamento del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

La missione del CoESPU è duplice, facendone un punto di riferimento unico con:
- il “centro di formazione avanzata” (advanced training center): il CoESPU è un polo addestrativo di livello mondiale;
- il “polo dottrinale”(doctrinal hub): oltre all’addestramento, il CoESPU funziona come un “think tank” strategico collaborando con organizzazioni internazionali per sviluppare e standardizzare dottrine e procedure comuni e promuovendo l’interoperabilità.
Per completezza, la stessa struttura che ospita il CoESPU ospita ora anche il “NATO Stability Policing – Center of Excellence” (NATO SP-CoE) (Centro di Eccellenza NATO per lo Stability Policing) nonchè il Quartier Generale permanente della “Forza di Gendarmeria Europea”, meglio nota come EUROGENDFOR (EUROpean GENDarmerie FORce – EGF).

In definitiva è evidente che lo Stability Policing, condotto da forze specializzate di tipo gendarmeria, non è un’opzione accessoria, ma uno strumento per la gestione delle crisi e rappresenta l’anello di congiunzione che colma il divario tra l’intervento militare, necessario per fermare il conflitto, e la costruzione di una pace sostenibile, fondata sullo stato di diritto.
Per completezza di informazione, l’attuale impegno di EUROGENDFOR si manifesta presso il valico di Rafah, (tra Gaza ed Egitto) nell’ambito della missione dell’Unione Europea “EUBAM Rafah” (European Union Border Assistance Mission – Rafah), missione riattivata all’inizio del 2025 dopo una sospensione durata dal 2007.

In tale Forza è presente un nucleo di carabinieri, circostanza che dimostra che tali forze di Stability Policing possono svolgere un ruolo chiave nel garantire la sicurezza e la gestione ordinata post-conflitto di quei territori in situazioni precarie, contribuendo così agli sforzi internazionali per la pace e la stabilità nella regione.
Foto: U.S. Army / web / UN / Ministero della Difesa / / White House / COESPU
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