Patriottismo e realpolitik, una dicotomia insanabile
Quando mi cimento nell’esame di un fatto, di massima riferito all’ambito bellico in virtù del mio profilo professionale, mi sforzo sempre di analizzarlo nella sua essenza e, soprattutto, di non lasciarmi incantare dalle narrazioni propagandistiche che, oggi come mai nel passato, permeano in larga misura la comunicazione e l’informazione divulgate attraverso i media. Tuttavia, mi corre l’obbligo di anticipare che, con le considerazioni che seguiranno, svestirò i panni del “freddo analista” (per lo meno di quello che cerco di essere) per indossare quelli del “vivace polemista”. Chiedo scusa in anticipo.
Il mio pensiero va al piano originale di Trump per la pace in Ucraina che, cronologicamente, segue di poco la roboante divulgazione di quello per Gaza elaborato dal Grande Pacificatore. Come pecora nel gregge, mi muovo solidale nella direzione di coloro che affermano che, dopotutto, il tycoon (cosa non si fa per trovare dei sinonimi e non risultare ripetitivi) è l’unico che ha formulato delle proposte concrete per porre fine ad un conflitto che dura ormai da quasi quattro anni, con il suo enorme carico di morte e distruzione.
La prospettiva che si è delineata con immediatezza – lo dico con rammarico considerando il tributo di sangue versato dal popolo ucraino per arrestare l’invasione della Wermacht del Cremlino – è stata che Kiev accettasse delle condizioni che sembrano scritte dal presidente degli Stati Uniti sotto dittatura… perdonatemi, volevo dire “dettatura”, del suo sodale Putin. D’altronde il businessman seduto alla Casa Bianca ci ha abituato a eclatanti e spropositate richieste, salvo poi accondiscendere a soluzioni negoziate che, in ogni caso, solleticassero il suo ipertrofico ego.
Qualcuno che non ha abbandonato la lettura di questo corsivo dopo il primo capoverso, si sarà accorto che ho usato provocatoriamente il termine Wermacht per indicare le forze militari russe, ove includo anche tutta la marmaglia prezzolata che combatte nei ranghi di Mosca per denaro e vantaggi a vario titolo, peraltro in molti casi meglio e con più coraggio delle unità regolari. Tra queste ultime, infatti, molti sono i disgraziati inviati al macello oltreconfine scarsamente motivati a combattere; non che gli Ucraini siano strafelici di passare eroicamente a miglior vita, ma almeno, a differenza dei loro nemici, si battono per difendere la loro terra, non per invaderne un’altra.
E qui sta il punto. Come le ragion di Stato si coniughi con l’amore per la propria terra e la protezione dei suoi confini, della sua cultura, delle sue risorse e, perché no, della sua bandiera che, in un simbolo, rappresenta tutto questo. La Storia ci insegna che al termine di un conflitto, il vincitore detta le regole e lo sconfitto le subisce e che ciò comporta una serie di rinunce.
Piange il cuore a vedere che un affarista americano pattuisca con un despota russo la cessione di pezzi di territorio, nemmeno interamente conquistati, di un paese terzo, illuso fino a poco prima di essere sostenuto nella propria causa di baluardo contro il progetto di ricostituzione del Reich di Mosca. Già, perché paradossalmente, nonostante la ridicola campagna informativa imbastita dagli esperti di “misure attive” al servizio dell’ibridizzazione bellica putiniana e incentrata sul concetto di “denazificazione” dell’Ucraina, la figura del presidente russo è sovrapponibile a quella di Adolf Hitler.
La Russia in cui è maturata l’ascesa al potere dell’oscuro funzionario dei servizi segreti russi presenta forti analogie con la Repubblica di Weimar che portò all’ascesa di un oscuro funzionario di partito nella Germania sconfitta nella Prima guerra mondiale. Come fece ieri Hitler, oggi Putin ha saputo abilmente fare leva sulla parte irrazionale del proprio popolo, cavalcando l’orgoglio ferito per la sconfitta in una guerra – nel suo caso, la Guerra Fredda – e la grave crisi economica che ne è seguita. Come Hitler ha cercato di perseguire l’ambiziosa ricostituzione di un Reich perduto muovendo le proprie truppe in direzione di un’Europa impreparata ad arginarlo politicamente.
Per fortuna, tuttavia, le forze del male che oggi hanno cercato di dilagare nel cuore dell’Europa si sono palesate come una pallida e impacciata brutta copia di quelle che ieri si erano rapidamente affermate sullo stesso continente, fino a trovare la loro Ucraina a Stalingrado. E, grazie alla potenza della guerra cognitiva e alla perizia dei suoi artefici, proprio nella manipolazione della memoria della resistenza russa nella Seconda guerra mondiale affondano le radici della narrazione grossolana e contraddittoria del Cremlino, di cui ho parlato in precedenza.
Sempre la Storia, nella sua funzione mai sufficiente di magistra vitae, ci insegna che nel mondo ha agito e agirà sempre un certo numero di individui che uno stimatissimo docente che ho avuto il privilegio di avere nel corso della mia formazione lavorativa definiva senza mezzi termini “birbaccioni”. Prima gli Hitler, Mussolini, Stalin; poi i vari Mao, Pol Pot, Videla, Somoza, Pinochet, Stroessner. Attualmente imperversano Putin, Xi, Khamenei, Kim Jong-un… Anche Trump non disdegnerebbe di avere la tessera del Club dei Veri Duri, se non avesse la sfortuna di presiedere uno Stato che, almeno per ora, mantiene le sue caratteristiche di democrazia.
Restiamo sul filone narrativo della propaganda russa fondata sulla “denazificazione” dell’Ucraina: tale concetto è stato ormai ampiamente demistificato e, tuttavia, la permeabilità di una certa parte della popolazione europea al messaggio putiniano, soprattutto nel nostro Paese, fa sì che vi siano delle casse di risonanza che si affannano a mantenerlo vivo e divulgarlo con una incrollabile fede nella vittoria riportata da “baffone” Stalin. Eppure, ci tengo a ribadirlo, costoro non dovrebbero essere accecati dalla loro ideologia morta e sepolta e guardare, invece, ad un’altra idea vivida e antecedente a tutti i fascismi e comunismi della storia contemporanea: il ritorno all’impero di Pietro il Grande propugnato da Putin con l’integrazione di Russia, Ucraina e Bielorussia, tanto per cominciare.
Sottolineo “tanto per cominciare”, perché se il nostro non avesse impattato contro una resistenza che lo obbliga da quasi quattro anni a sbattere come una Mosca (con la maiuscola, ah! ah!) in un bicchiere contro il muro che si estende dai territori a sud di Kharkiv a quelli dell’oblast’ di Kherson, è lecito pensare che non avrebbe disdegnato proseguire la sua partita a Risiko per dimostrare al suo popolo quanto fosse bravo a ristabilire gli antichi fasti e il prestigio che spettano alla Santa Madre Russia per mandato divino.
Ancora una volta la figura di Stalin resta pallida sullo sfondo, reminiscenza di una gioventù dedita al Partito che, allo stato attuale, non è funzionale rivangare per il cammino intrapreso. Anche questo, però, è vero solo in parte; tutto può rivelarsi come efficace arma brandita dalle “casse di risonanza” che combattono nel dominio cognitivo e allora se anche gli sbandieratori delle sfilate pro-qualcosa e contro-qualcos’altro sventolano rossi vessilli ricamati con falci e martelli, contribuiscono ad indebolire l’odiato e corrotto Occidente, essi sono i benvenuti. L’importante è non enfatizzare questo aspetto, solo alimentarlo.
Ho visto troppe adunate oceaniche a favore di una Palestina, indubbiamente sofferente, che una cultura imbevuta di un pacifismo monodiretto e contraddittorio urla il proprio sdegno contro la violenza delle forze armate israeliane. E, sovente, non si è trattato solo di urlare slogan. Avrei voluto assistere ad analoghe grandi adunate e udire gli stessi slogan (ma non vedere lo stesso ignobile vandalismo) a sostegno dell’Ucraina.
Ma la logica sostantiva alle mobilitazioni, inconsciamente assorbita e sapientemente alimentata attraverso le misure attive così ben padroneggiate dal Cremlino, è quella per cui la Palestina è la piccola realtà pseudo-statuale che dal 1948 combatte per la propria autodeterminazione e sopravvivenza e lo ha fatto per larga parte della sua storia con l’appoggio dell’Unione Sovietica.
Per comprendere il nesso logico-causale tra la delegittimazione delle politiche nazionali (e, in genere, dell’Occidente) e la situazione attuale di Gaza dobbiamo analizzare la infowar orchestrata dal Cremlino; dobbiamo considerare la manipolazione attuata sfruttando l’emotività delle masse collegata a un sostrato culturale che trova terreno fertile nelle reminiscenze di un iconico Arafat sostenuto dall’U.R.S.S.
E per salvaguardarci da questa info-operation concepita da Mosca non dobbiamo ignorare le misure attive implementate attraverso la concessione di poligoni ed aree addestrative messe a disposizione delle Brigate Rosse, della Rote Armee Fraktion e di altre organizzazioni terroristiche che, negli anni settanta del secolo scorso, si sono adoperate per la causa sovietica.
Al contrario, almeno per quanto ci riguarda, il peccato originale di essere usciti malconci dall’infelice avventura intrapresa dal “birbaccione” Mussolini, non ci consente di esprimere la stessa solidarietà verso quel popolo che la spregiudicata narrazione russa definisce nazista, senza possibilità d’appello.
Non solo le reminiscenze vetero-comuniste, però, minano la sicurezza degli Stati e i principi della democrazia. Anche l’economia e quella particolare attitudine che, per semplificazione e senza voler sminuire od offendere nessuno, in riferimento al nostro Paese definisco “politica del prosecco e del taleggio” contribuiscono all’indebolimento di un Paese.
Si tratta del presupposto di natura squisitamente mercantile, efficacemente espresso con il detto “Francia o Spagna, purché se magna!”. Una certa linea politica, infatti, fa coincidere l’interesse nazionale in maniera pressoché esclusiva con l’import-export dei prodotti, semplificando i complicati rapporti tra economia, finanza e relazioni internazionali attraverso una chiave di lettura banalizzante e riduttiva, riconducibile ad un altro inossidabile slogan: “fate l’amore, non fate la guerra”.
Sostanzialmente, per vendere più “prosecco” e più “taleggio” sui mercati esteri sarebbe sufficiente che non ci fossero le guerre. Soprattutto che non ci fosse un aperto contrasto con la Russia, il cui mercato tra sanzioni e crollo degli acquisti di nostri prodotti suscita (legittimamente, per carità), tanti rimpianti.
E, in tale quadro, il malcontento delle categorie imprenditoriali e commerciali trasforma anch’esse in potenti “casse di risonanza” per la propaganda russa. La guerra economica, altro formidabile strumento della guerra ibrida, è più complessa e deve essere combattuta con la capacità di intuire in anticipo quali siano le strategie da adottare per vincerla.
E non mi riferisco al commerciante di vini della Costa Smeralda che si lamentava con il sottoscritto di non poter più vendere una bottiglia di Cannonau a 200 euro agli oligarchi russi che imperversavano sull’isola. Mi riferisco al dramma delle imprese italiane che, a causa delle sacrosante sanzioni imposte alla Russia, hanno dovuto rivedere i propri piani industriali e valutare la sostenibilità delle proprie attività, soprattutto quelle che hanno una significativa partecipazione russa nella loro proprietà.
Una politica lungimirante avrebbe dovuto prendere in considerazione degli adeguati piani di sostegno economico a questa tipologia di aziende, in tempo utile per contenere i problemi derivanti dell’applicazione delle sanzioni, altrimenti si rischia un effetto boomerang a vantaggio dei poveri russi “umiliati e offesi” (la citazione dostoevskijana è calzante).
È evidente che una resa dell’Ucraina, a prescindere dalle condizioni e dalle conseguenze che questa comporterebbe per quel Paese, farebbe tappare il naso, sfregare le mani e riallacciare il giro d’affari a molte realtà imprenditoriali nazionali e non. Il che è comprensibile e anche auspicabile nella cornice della realpolitik.
Quello che non è comprensibile è l’incapacità di capire le ragioni della necessità di essere sempre pronti alla guerra, in qualunque forma essa si manifesti (convenzionale, ibrida, asimmetrica, con tutte le loro sfumature) come ineluttabile realtà deterministica della Storia stessa.
Essere pronti non significa doverla fare, anzi, è una forma di deterrenza. Prima del novembre 1989 la deterrenza era rappresentata da quel potentissimo strumento di guerra psicologica che era la minaccia dell’impiego dell’arma nucleare. Strumento di pressione psicologica che, ancora oggi, Mosca ha adoperato per contenere le iniziative occidentali che la avversano.
Allo stato attuale una credibile capacità di deterrenza in Europa è attuabile solo attraverso un adeguato riarmo e l’istituzione di uno strumento militare comune e coeso che possa porsi come alternativa alla Nato, in presenza di un’America che ci invita come continente ad essere più autonomi nelle politiche di difesa.
Va detto che il concetto di “difesa” è funzione della percezione della minaccia e se in Polonia o nei Paesi Baltici, per ragioni storico-geografiche-culturali, la percezione della minaccia è elevata, lo è certamente di meno in Paesi come l’Italia, la Francia o la Spagna, dove tale contiguità non è assolutamente paragonabile.
Va anche detto che il concetto di “difesa” è diverso dal concetto di “guerra” tout-court e la retorica pacifista irrazionale in Italia si fonda su una narrazione fuorviante dei principi costituzionali. L’articolo 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Non basta recitare la litania dell’Italia che ripudia la guerra e lì troncare il discorso. La parte razionale che il pacifismo ideologizzato militante omette di considerare è che l’Italia ripudia la guerra, ma deve potersi difendere. Anche l’approccio più evangelico, quello che prevede di porgere l’altra guancia, si scontra con il numero limitato delle guance. Dopo la seconda, si possono solo prendere calci. Oddio, si può anche optare per questa soluzione. È solo una questione di scelte. Anche questa è realpolitik.
Coloro che, poi, si strappano i capelli e si indignano sentendo parlare di riarmo, forse non sanno – o non vogliono sapere – che l’Italia è sempre stata armata fino ai denti, in virtù della presenza statunitense e del cosiddetto “ombrello della Nato” sul proprio suolo. Presenza che ha inibito qualsiasi velleità di invasione del nostro Paese attraverso il Brennero e la Soglia di Gorizia. Ma quello è il passato.
In un presente fatto di droni, guerre spaziali, attacchi cibernetici la difesa non è soltanto cannoni e carri armati che, ad un certo momento, comunque servono. “Armarsi” oggi significa disporre di una varietà di strumenti estremamente diversificati, idonei a combattere in tutti i domini: fisico, cognitivo e cibernetico, ed in tutte le dimensioni: terrestre, aerea, navale, aerospaziale.
Armarsi non basta. È necessario addestrarsi ed essere determinati all’uso delle armi, proprio per cercare di evitare che ciò possa accadere facilmente. E di “birbaccioni” in giro, purtroppo, ce ne sono tanti.
In un presente in cui la filosofia trumpiana è quella di impegnare sempre meno tempo e risorse per difendere il vecchio continente, bisogna che gli eserciti dei singoli Paesi europei si solidifichino e diventino credibili, possibilmente in una forma di alleanza che per ora appare ancora lontana.
Non si può delegare la propria capacità difensiva alla speranza che “morto un Trump (politicamente, beninteso) non se ne faccia un altro”. È necessario che la realpolitik europea si omologhi un po’ meno al becero affarismo e consideri un po’ di più la minaccia che viene da Oriente. Estremo compreso, con il quale la guerra economica è già persa.
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Quando mi cimento nell’esame di un fatto, di massima riferito all’ambito bellico in virtù del mio profilo professionale, mi sforzo sempre di analizzarlo nella sua essenza e, soprattutto, di non lasciarmi incantare dalle narrazioni propagandistiche che, oggi come mai nel…
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