Dai balconi del Covid a quelli vuoti del default: la Cina entra nella sua crisi perfetta
Le coreografie di parate e comitati centrali, con bandiere da decine di metri sullo sfondo, non tengono fuori dalla mischia finanziaria Pechino che non può riproporre il gioioso e falsissimo refrain dell’inno nazionale cantato, in piena tempesta covid, da cori condominiali occidentali all’oscuro del proprio inno, figuriamoci se a conoscenza di quello cinese, con tanto di presunte e grate urla di Grazie Cina! Ma per favore…
Quello che rimane è un equilibrio fragile come il giorno incantevole dei Subsonica, dove i fattori di rischio generalizzati in mercati impreparati e volatili, per il 2026, sostanzialmente sono 3: liquidità monetaria in sofferenza con inflazione persistente; fine del giocarello del riacquisto delle proprie azioni1; affanno del sistema dei prestiti erogati da fondi di investimento, dove 1.7 trilioni di USD cominciano ad essere troppi. Insomma, il mercato è sotto stress ed il 2026 è da temere ovunque; tanto per rimanere sulle fragilità, la crescita economica cinese si basa un labilissimo equilibrio tra controllo autoritario di partito e cagionevoli libertà ed entro questo perimetro si colloca la crisi immobiliare arricchitasi dell’ultima perla di China Vanke, sviluppatore che sta irragionevolmente cercando di prorogare un pagamento di titoli per miliardi di yen, capace da solo di scrollare il mercato e di far paventare, senza accenno ad aiuti imperiali, una ristrutturazione del debito, che farebbe impallidire Evergrande e Country Garden, che pure non hanno scherzato.
Partiamo dal principio da quando, cioè, dall’inizio degli anni ’90, i prezzi – bassissimi – degli immobili sono aumentati di 10 volte, contrastando la speranza che qualsiasi rallentamento successivo avrebbe seguito un trend graduale, visto che le bolle immobiliari hanno piacevolmente flagellato estremo oriente e Giappone e hanno democraticamente chiamato in causa pure Pechino, malgrado i rigorosi accorgimenti dei policy maker di Zhongnanhai in tema di caparre, secondo il famoso principio per cui, desiderando un cammello, è inevitabile presentarsi prima di subito con il dinero. E poi basta con la diffidenza controrivoluzionaria: l’aumento progressivo del valore degli immobili avrebbe di certo compensato gli sforzi monetari del popolo, o forse no?
Se per il governo il settore immobiliare è stato un pilastro per un rapido sviluppo capace di creare milioni di posti di lavoro, per il popolo si è trattato di un investimento venduto come prodotto finanziario ritenuto speranzosa fonte di rendimenti (rivoluzionari?). Tutto in teoria, perché i prezzi hanno continuato a crescere e poi a crollare con un rapporto debito-famiglie-PIL triplicato, e con uno spazio abitativo pro capite abnorme. Diciamo la verità: in fondo, quale intimo gaudio, sono soddisfazioni anche per l’operaio Li Wei di Pechino sud.
Quello che è interessante è che la crisi immobiliare ha colpito zone specifiche, con città che, più di altre, hanno tratto scarsi benefici dagli investimenti sul mattone; sembra dunque di poter dire che la perdita di fiducia nella casa a prima vista cinese abbia influito sui consumi interni con ricadute pesantissime sui governi locali. Insomma, il fatto che la Cina non sia così diversa dagli altri paesi, crea seri problemi nel capire dove stia di casa il tanto osannato eccezionalismo, messo peraltro alla prova dalla pressione delle guerre commerciali, dai cali repentini – o stagnazioni – dei prezzi, dall’eccesso di alloggi invenduti, malgrado le agevolazioni introdotte dalle autorità, spesso obbligate a ricomprare esse stesse2 le medesime case.
Il mattone non è più uno stabilizzatore economico. Ma Xi vede la Cina in competizione con gli USA, e per questo è disposto a forzare i fondamentali economici propendendo per un modello che contempla le nuove forze produttive di qualità prevalere al posto dei consumi; ecco che gli investimenti aumentano, generano una sovrapproduzione non riassorbibile dal mercato, le imprese abbassano i prezzi per vendere l’invendibile per poi riversare l’invenduto interno sulle esportazioni, cosa che determina l’insorgenza di barriere commerciali. Ricordando filosoficamente dazi trumpiani e protezioni, è facile ripensare, come Gaetano Maria Barbagli, che il confine tra genio e follia è molto sottile; quindi matti sì ma per pochissimo3.
E l’Europa? Cicca, prossima a diventare una colonia cinese di assemblaggio su cui far affluire capitali. Tanto per non farsi mancare nulla, l’impero di mezzo si sta approssimando ad un inverno record in quanto a consumi energetici, cosa che costringerà a bruciare più carbone e più gas, con picchi di domanda che, già nei mesi scorsi, alla faccia del greeeen, hanno evidenziato l’insufficienza bizzosa delle fonti alternative. Insomma, il lavoro sporco lo hanno fatto i soliti 4 alla n tizzoni, l’unica certezza in un oceano di instabilità; que, viva el carbòn!
Torniamo alla crisi esistenziale dell’implosione immobiliare, che sta contemplando la rapida estinzione degli sviluppatori in un mercato che trascende l’edilizia e si sta trasformando in un mina alla deriva per l’economia planetaria, cui contrapporre strategie contrarie a qualsiasi dinamica espansiva, a qualsiasi forma di impossibile e infondata pacchia, rimedi pienamente indicativi della portata di una crisi che ha colpito la fiducia dei consumatori con uno stock enorme di immobili invenduti e con spazi sfitti in crescita.
Con i prezzi in calo ed una platea demograficamente sempre più ridotta di acquirenti in attesa di ulteriori ribassi, gli sviluppatori o vendono in perdita o bloccano le negoziazioni, visto che la crisi sta intaccando sia gli aggregati economici sia le basi psicologiche dei consumi; del resto i tre quarti della ricchezza privata in Cina sono investiti nel settore immobiliare, all’estero una concentrazione usuale, qui un rischio strutturale, visto che, quando i prezzi scendono, la ricchezza delle famiglie si riduce insieme con la spesa per i beni non essenziali accompagnandosi all’aumento del tasso di risparmio (gente! Tenetevi i soldi!) ed alla cancellazione dell’ottimismo che si spande a macchia d’olio nelle periferie, dove le bugie sulla ripresa, basata su mere presunzioni, hanno le gambe cortissime, con un mercato che segnala sempre più chiaramente l’esistenza non di fenomeni contenuti ma di cambiamenti strutturali permanenti.
La crisi, gira gira, sta diventando sistemica, se già non lo è, con tutte le conseguenze possibili su più di un comparto e su mutui deprezzati che dovrebbero essere ristrutturati, figurarsi, in un sistema così interconnesso da permettere ad un battito d’ali di farfalla a Pechino di scatenare uragani fin nello Xinjiang. Il fatto è che ogni iniziativa del partito per il sostegno sociale comporta un maggiore indebitamento pubblico, un problema di sostenibilità ed un mercato in piena crisi di sopravvivenza, con forti risparmi, minori investimenti e maggior onere fiscale a carico pubblico.
Ecco la tempesta perfetta che crea la bolla immobiliare data da speculazione, eccesso di offerta e credito facile, con prezzi superiori al reale e con una domanda condizionata dall’auspicio di – improbabili – profitti futuri; una bolla sì funzionale alle aspettative del Partito, ma comunque una bolla pericolosa come tutte le bolle naturalmente portatrici di crolli da controllare, se possibile, controllando i limiti debitori sostenibili dagli sviluppatori, messi sotto la ente d’ingrandimento delle banche, ovvero secondo il sistema che ha scoperchiato le defaillances di Evergrande.
Grazie alle iniziative del Partito, l’immobiliare è passato dal cadere senza freni al precipitare con grazia, che non è da poco: il risultato è lo stesso, ma vuoi mettere? Solo pensare che quota parte dei soldi versati a Evergrande, invece che per costruire alloggi, sono stati utilizzati per l’acquisto di una squadra di calcio, dovrebbe far tornare folle gaudenti sui famosi e fatali balconi.
Insomma, in Cina c’è uno squilibrio macroeconomico dove il PIL è pompato dalle esportazioni nette, con una domanda estera forte ed una interna stagnante, cosa che porta ad una crescita settoriale e ad una debolezza strutturale unita a deflazione, un mostro a due facce, tutte e due brutte; basti pensare alla Germania, che ha utilizzato l’export come motore primario di crescita, con un forte surplus commerciale, a fronte di squilibri interni; la Cina ha rappresentato il modello ideale di crescita export-led growth, con consumi interni marginali e sovracapacità produttiva da spostare su consumi e innovazione, una transizione come visto molto difficile, visto che compendia aspetti sociali, fiscali e salariali e gioca sul bilanciamento politico-economico del tasso di sconto e sulle aspettative di inflazione.
Il rischio è quello di cadere nel pushing on a string, dove lo spingere la corda è del tutto inutile se non si aumenta la capacità di spesa della base aumentando i salari, intervenendo su sanità e pensioni, adottando una politica monetaria espansiva. Il mistero cinese è a due facce contrapposte: una offre una versione proiettata verso un futuro tecnologicamente felice, l’altra è quella dei dati economici in affanno, ambedue risultati di scelte operate dall’attuale leadership, malgrado il pessimismo espresso nel 2007 dal primo ministro Wen Jiabao, per cui il modello di crescita già da allora instabile ha cominciato a collassare dalla crisi immobiliare del 2021; da un lato il sistema produce e investe eccessivamente, dall’altro l’economia rallenta, con gli investitori internazionali che svendono gli immobili a suo tempo acquistati, viste perdite ed insolvenze.
Dulcis in fundo, Vanke, l’incubo degli sviluppatori immobiliari che, in quanto a bolle, rimpiazza i timori sulla IA; altro che stabilizzazione, qui torna il mantra del default con le obbligazioni della strasicura Vanke4 che hanno perso oltre il 30% del valore e con il Partito che finora ha evitato salvataggi diretti. Se China Vanke Co. collassa, collassa definitivamente il sistema immobiliare, di fatto un buco nero sistemico capace di minare la fiducia nel governo, di aprire falle nelle obbligazioni anche dei solventi, di instillare il terrore del contagio viste le previsioni all’ulteriore ribasso di Fitch e UBS che sanciscono la fine del principio del too big to fail; Vanke non è dunque diversa dagli altri, con S&P Global Ratings che ha avvertito che i suoi impegni finanziari sono insostenibili. Mentre Evergrande è stata uccisa dalla speculazione, Vanke se l’è portata via un difetto genetico/sistemico, un intero modello di sviluppo nato per fallire alla distanza.
Secondo Moody’s il 2026 segnerà il momento dell’emersione delle faglie geopolitiche e fiscali, del raggiungimento della strutturalità degli effetti degli attriti commerciali e dell’aumento delle spese belliche, con crisi di bilancio nei paesi che hanno fruito di tassi di interesse agevolati e apparente stabilità politica: ritornerà prepotente una competitività che reclamerà la stabilizzazione del debito. È evidente come un default di Vanke sia una nota stonata eppure presente su uno spartito impeccabile solo quando eseguito a Zhongnanhai.
Come ovunque, il pensiero corre agli obbligazionisti, a chi non ha trovato con chi spartire in due e più una poltrona e contenere i danni. Dispiace dirlo, ma stavolta i balconi rimarranno vuoti.
1 Operazione con cui un’azienda usa la propria liquidità per ricomprare le sue stesse azioni per sostenere il prezzo del titolo (più la domanda aumenta più lievita il prezzo e per aumentare l’utile per azione.
2 Lo Stato è assimilabile a un compratore di ultima istanza che prevede l’acquisto di unità immobiliari invendute per trasformarle in case popolari; la rimozione del limite inferiore sui tassi di interesse sui mutui individuali per la prima e la seconda casa; la diminuzione della caparra.
3 Non è un caso che circoli il termine nèijuǎn, involuzione, ovvero il fenomeno in cui la competizione estremizzata porta a rendimenti decrescenti sfiancando l’economia.
4 Bloomberg: Vanke ha chiesto il posticipo del pagamento del capitale su un titolo da 2 miliardi di yuan (ca 283 milioni di dollari) in scadenza il 15 dicembre. Il bond in dollari con scadenza 2027 è crollato ai minimi storici (circa 23 centesimi sul dollaro).
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