La nuova Strategia di Sicurezza USA: Europa marginale, mondo diviso e una corsa verso l’inevitabile
La nuova Strategia di Sicurezza Nazionale pubblicata dall’amministrazione Trump nel novembre 2025 traccia un quadro del mondo contemporaneo che non lascia margini di ambiguità. Gli Stati Uniti intendono riaffermare la propria centralità economica, militare e tecnologica, rompendo con oltre trent’anni di dottrina interventista e globalista.
La premessa dell’intero documento poggia su un concetto semplice: la sicurezza nazionale non nasce soltanto dalla potenza militare, ma dal rafforzamento interno della nazione, dalla ricostruzione del suo apparato industriale, dalla difesa dei confini, dalla salvaguardia dell’identità culturale e dalla protezione delle tecnologie critiche. In questo quadro, contenere la Cina e ridefinire i rapporti con l’Europa diventano i pilastri di una strategia che mira a rimettere in ordine le priorità americane, abbandonando l’idea che Washington debba sostenere da sola il peso dell’ordine internazionale.
Il passaggio dedicato all’Europa è probabilmente il più sorprendente dell’intero documento. Non vi è traccia del linguaggio tradizionale che descrive l’alleanza transatlantica come un legame quasi sacrale. Prevale, invece, un tono di disincanto, quando non di aperta critica.
Washington considera oggi il continente europeo come un’area strategicamente importante ma profondamente indebolita da fattori interni: declino demografico, stagnazione economica, eccesso di regolazioni che soffocano l’industria, crescente instabilità politica, divisioni interne e una gestione della migrazione percepita come disordinata e potenzialmente destabilizzante.
La guerra in Ucraina, anziché rafforzare la coesione europea, viene descritta come un ulteriore acceleratore di dipendenze, crisi politiche e fragilità economiche. La strategia statunitense spinge per un rapido ritorno alla stabilità, sia sul piano regionale sia nel rapporto tra Europa e Russia, e per una sostanziale riorganizzazione della NATO, il cui futuro non deve più essere definito dall’espansione continua, bensì dalla capacità europea di assumersi responsabilità e costi molto maggiori. In questo senso, l’obiettivo del cinque per cento del PIL destinato alla difesa non è soltanto una richiesta tecnica, ma una dichiarazione di metodo, l’Europa deve contribuire in modo proporzionato al proprio destino strategico.
L’Europa rimane, agli occhi di Washington, un partner utile, soprattutto sul piano commerciale e tecnologico, ma non più il cuore della strategia globale americana. La centralità si sposta altrove, nell’Indo-Pacifico, dove la Cina appare come la vera sfida del ventunesimo secolo.
La parte del documento dedicata a Pechino è dominata da un senso di urgenza: la Cina non è più considerata un attore con cui trovare equilibri stabili, ma un competitor sistemico deciso a mettere in discussione la supremazia americana.
Secondo la strategia, decenni di apertura economica non hanno avvicinato Pechino all’ordine internazionale liberale; al contrario, ne hanno accelerato l’ascesa. Le supply chain globali sono state ristrutturate in modo da garantire alla Cina un controllo crescente sui mercati emergenti e sulle materie prime critiche. La capacità industriale cinese, abbinata a investimenti massicci in tecnologie come l’intelligenza artificiale, il quantistico, la robotica e lo spazio, costituisce oggi il cuore della competizione.
Washington riconosce apertamente di avere perso terreno e annuncia una controffensiva economica e tecnologica su larga scala. La ricostruzione dell’industria nazionale diventa un obiettivo strategico, così come la riduzione delle dipendenze critiche dalle filiere cinesi.
Contemporaneamente, gli Stati Uniti mirano a costruire una rete di alleanze in Asia basata non solo sulla sicurezza, ma su un modello economico alternativo a quello di Pechino.
L’obiettivo è impedire che la Cina raggiunga una supremazia economica e tecnologica tale da rendere inevitabile la sua leadership globale.
Sul piano militare, la strategia appare ancora più esplicita. La priorità è contenere la Cina lungo la Prima Catena di Isole e impedire qualsiasi tentativo di alterare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan. Gli Stati Uniti considerano indispensabile mantenere un vantaggio qualitativo nelle piattaforme navali, negli assetti spaziali, nelle tecnologie autonome e nei missili di nuova generazione.
La competizione non è più circoscritta alle forze armate, ma investe l’intero sistema industriale-militare: produzione, innovazione, logistica, resilienza economica. Il documento non contempla scenari concilianti e il confronto tra le due potenze si desume come inevitabile, continuo e strutturale.
Le affermazioni formali di Washington, che ribadiscono di non desiderare un conflitto e di voler mantenere la pace attraverso la deterrenza, ricordano da vicino quelle pronunciate da Vladimir Putin nelle settimane che precedettero l’attacco all’Ucraina. Allora come oggi, la retorica della non aggressione coesisteva con una mobilitazione totale di risorse militari, industriali e politiche.
La Cina e gli Stati Uniti stanno riorganizzando le rispettive economie, ridefinendo le alleanze, militarizzando le tecnologie critiche e predisponendo le società all’idea che la competizione non sarà né breve né incruenta. Entrambe le potenze, al di là delle dichiarazioni ufficiali, agiscono come se il grande appuntamento strategico fosse inevitabile.
Il rischio è che la guerra arrivi non perché la si vuole, ma perché ci si sarà indebitati così a fondo da renderla l’unico esito possibile per evitare catastrofiche crisi finanziarie. Quel giorno si dirà nuovamente “nessuno poteva immaginarlo”?
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