Il Soldato del futuro: chi è davvero pronto alla guerra moderna?
Tre soldati ventenni, tre nazioni, tre filosofie completamente diverse. Mentre il mondo si interroga sugli equilibri militari globali, abbiamo analizzato chi tra un soldato russo, cinese e italiano sarebbe davvero pronto ad affrontare un conflitto del XXI secolo. Le risposte potrebbero sorprendervi.
Immaginate una cena impossibile: tre ragazzi di vent’anni in uniforme, uno russo reduce dall’Ucraina, uno cinese che non ha mai visto una battaglia, uno italiano addestrato secondo i più alti standard NATO. Chi tra loro ha davvero le competenze per sopravvivere e vincere in una guerra moderna? La domanda non è accademica: in un’epoca in cui le tensioni geopolitiche ridisegnano l’ordine mondiale, capire come si formano i soldati rivela molto più di semplici statistiche militari.
La scuola brutale del fuoco: Il soldato russo
Parliamoci chiaro: il soldato russo ventenne del 2025 ha qualcosa che nessuna simulazione al mondo può dare. Ha visto la guerra vera.
Dal febbraio 2022, centinaia di migliaia di russi hanno combattuto in quella che gli storici militari già definiscono la prima grande guerra convenzionale europea del secolo. Non esercitazioni, non peacekeeping: guerra ad alta intensità, con artiglieria che devasta interi quartieri, droni che inseguono ogni movimento, e trincee che ricordano scenari che credevamo sepolti nel 1918.
L’addestramento russo oggi è radicalmente cambiato. I soldati praticano scenari che tre anni fa nessun manuale contemplava: come muoversi quando un drone FPV può trovarti in qualsiasi momento, come assaltare una posizione fortificata sotto il fuoco dell’artiglieria di precisione, come evacuare feriti mentre i sensori termici nemici scandagliano ogni metro quadrato. Non teoria da manuale, bensì lezioni scritte col sangue sul campo ucraino.
Ma c’è un prezzo terribile
La fretta di rimpiazzare le perdite ha abbassato drammaticamente gli standard. Alcune reclute ricevono appena un mese di addestramento prima di essere spedite al fronte. Ufficiali juniores vengono formati in corsi accelerati di due mesi che una volta duravano anni. L’equipaggiamento è spesso inadeguato, arrangiato, obsoleto.
E poi c’è il sistema, quella rigidità gerarchica sovietica che soffoca l’iniziativa individuale, che punisce chi pensa con la propria testa, che trasforma soldati potenzialmente capaci in ingranaggi di una macchina che non perdona errori ma nemmeno premia l’intelligenza tattica.
Il verdetto? Il soldato russo medio ha un vantaggio invalutabile: sa cosa significa combattere davvero. Ma è anche possibile che sia stato addestrato male, equipaggiato peggio, e inserito in un sistema che lo tratta come materiale sacrificabile.
Il gigante senza cicatrici: Il soldato cinese
Ecco il paradosso che tiene svegli gli strateghi occidentali: l’Esercito Popolare di Liberazione cinese è gigantesco, tecnologicamente avanzatissimo, in costante modernizzazione. E completamente inesperto.
L’ultima guerra combattuta dalla Cina? Il 1979. Quarantasei anni fa
I leader militari cinesi lo sanno bene. Tanto che internamente hanno coniato un’espressione brutalmente onesta: “malattia della pace”. Il PLA non sa cosa significhi combattere nel XXI secolo perché non l’ha mai fatto. Nessun veterano che possa dire “ecco cosa accade davvero quando le bombe cadono”. Nessuna lezione imparata sotto il fuoco. Solo simulazioni, per quanto sofisticate.
La modernizzazione è impressionante. Xi Jinping ha investito miliardi nell’addestramento tecnologico, nelle esercitazioni realistiche, nelle capacità di operazioni congiunte. I soldati cinesi si allenano duramente, molto duramente. Nelle competizioni internazionali spesso dominano le prove fisiche e tecniche.
Ma i problemi sono strutturali e profondi
Rapporti interni del PLA ammettono apertamente che molti comandanti soffrono dei “cinque incapaci”: incapaci di valutare situazioni complesse, di comprendere rapidamente gli ordini superiori, di prendere decisioni operative autonome, di schierare forze efficacemente, di gestire imprevisti. Nella guerra moderna, queste carenze sono letali.
E poi c’è l’elefante nella stanza: l’educazione politica. I soldati cinesi devono dedicare tempo considerevole allo studio della propaganda del Partito Comunista, al “pensiero di Xi Jinping”, all’indottrinamento ideologico. Tempo che non si passa a imparare tattiche, strategie, competenze operative.
Il sistema privilegia l’obbedienza sulla creatività, la conformità sull’iniziativa. I sottufficiali – quella spina dorsale cruciale di ogni esercito moderno – sono deboli, poco autonomi. La corruzione, nonostante le purghe, rimane un problema persistente.
Il verdetto? Il soldato cinese opera in un esercito tecnologicamente formidabile ma mai testato. È come avere una Ferrari nuova di zecca senza mai averla guidata oltre i 50 km/h nel parcheggio. Funzionerà in pista? Forse. O forse no.
L’eccellenza silenziosa: Il soldato italiano
Ora parliamo di casa nostra, e parliamone con onestà intellettuale.
L’Esercito Italiano è piccolo. Dopo la fine della leva obbligatoria, può contare su numeri che impallidiscono di fronte ai giganti russo e cinese. Ma c’è una differenza fondamentale: ogni singolo soldato italiano è un professionista che ha scelto quella carriera.
Non coscritti trascinati dalle campagne, non reclute forzate. Volontari motivati, selezionati, formati con standard che fanno invidia a metà mondo.
Il ciclo di addestramento italiano è sostanzioso: dodici settimane di base seguite da specializzazioni continue. Ma la vera differenza non è nella durata, è nella filosofia. L’approccio italiano privilegia la qualità assoluta sulla quantità, l’intelligenza tattica sulla massa, la capacità di pensare autonomamente sull’obbedienza cieca.
E poi c’è la NATO
Questa sigla significa molto più di un’alleanza sulla carta. Significa operare costantemente con i migliori eserciti del mondo, significa standard condivisi testati in decenni di operazioni, significa addestramento continuo in scenari multinazionali complessi che nessun altro può replicare.
Nel 2024, il NATO Rapid Deployable Corps Italy è stato certificato come quartier generale della Allied Reaction Force dopo un’esercitazione che ha testato capacità di comando in ambienti multi-minaccia di complessità estrema. Non erano giochini: erano simulazioni di scenari che farebbero sudare freddo qualsiasi comandante.
Mare Aperto 2024: 9.500 militari, 22 nazioni, oltre 100 assetti navali e aerei coordinati dall’Italia. Non partecipazione passiva ma comando operativo.
La brigata Pinerolo in Bulgaria ha dimostrato la capacità di coordinare tre gruppi tattici multinazionali in operazioni simultanee di fuoco vivo su aree distanti 140 chilometri. Questo livello di coordinamento, logistica e comando è roba da far girare la testa agli strateghi.
Le missioni internazionali hanno forgiato competenze uniche
Afghanistan, Iraq, Libano, Kosovo, Somalia: i soldati italiani hanno operato in ogni tipo di ambiente ostile immaginabile. Hanno mediato tra fazioni in guerra, hanno protetto popolazioni civili, hanno gestito crisi umanitarie mentre qualcuno gli sparava addosso. Hanno sviluppato quella che gli esperti chiamano “intelligenza culturale”: la capacità di capire contesti complessi e operare efficacemente senza far esplodere situazioni delicate.
Ma c’è un elefante nella stanza, e dobbiamo parlarne onestamente
L’Italia, come quasi tutti gli eserciti occidentali, non ha esperienza recente in conflitti convenzionali ad alta intensità tra Stati. Niente che assomigli a quanto sta accadendo in Ucraina: guerre di trincea, duelli di artiglieria, battaglie di carri armati, scontri su larga scala tra forze regolari.
Le missioni in Afghanistan erano controinsurrezione, non guerra convenzionale. Il Libano è peacekeeping, non combattimento simmetrico. Sono competenze preziosissime, ma diverse da quelle necessarie per fermare un’offensiva corazzata o coordinare un contrattacco di divisione.
Cosa rende davvero forte un esercito?
Qui arriviamo al cuore della questione, al punto che troppi analisti evitano perché scomodo.
L’esperienza di combattimento vale oro. Il soldato russo che ha visto esplodere un deposito di munizioni a 200 metri, che ha sentito il sibilo dell’artiglieria in arrivo, che ha perso compagni e sopravvissuto, ha un vantaggio psicologico e tattico enorme. Sa cosa funziona davvero e cosa sono solo belle teorie da manuale. Sa gestire la paura, il caos, l’imprevisto letale.
Ma l’esperienza senza qualità è inutile. Un soldato che sopravvive per pura fortuna, che non ha ricevuto addestramento adeguato, che opera in un sistema disfunzionale, potrebbe aver visto la guerra ma non aver imparato le lezioni giuste. Anzi, potrebbe aver imparato abitudini che in un contesto diverso lo ucciderebbero.
La tecnologia è cruciale ma non decisiva. La Cina ha droni all’avanguardia, sistemi di comando digitalizzati, equipaggiamenti moderni. Tutto ottimo sulla carta. Ma la storia militare è piena di eserciti tecnologicamente superiori sconfitti da avversari più esperti, motivati, flessibili. La tecnologia amplifica le capacità umane, non le sostituisce.
La qualità dell’addestramento è fondamentale. Qui l’Italia brilla. Quando ogni soldato è un professionista motivato, quando i sottufficiali hanno autonomia decisionale, quando gli ufficiali sono formati a pensare non a obbedire ciecamente, si costruisce un esercito che vale molto più della somma delle sue parti.
L’interoperabilità è un moltiplicatore di forza. La capacità italiana di operare senza problemi con americani, britannici, francesi, tedeschi non è un dettaglio tecnico. Significa poter chiamare supporto aereo alleato, condividere intelligence in tempo reale, coordinare logistica complessa. Nella guerra moderna, combatti con l’alleanza, non da solo.
Il verdetto finale: Chi vincerebbe?
La domanda è sbagliata. O meglio: dipende totalmente dal contesto.
In una guerra di trincea ad alta intensità, oggi, domani? Il soldato russo parte avvantaggiato. Ha l’esperienza, conosce le tattiche, sa cosa aspettarsi. Ma se è una recluta affrettata, l’esperienza conta zero.
In una guerra tecnologica del futuro, tra cinque-dieci anni? Se la Cina risolve i suoi problemi strutturali e acquisisce esperienza operativa, potrebbe dominare. Ma se rimane intrappolata nella “malattia della pace” e nei vincoli ideologici, tutta la tecnologia del mondo non basterà.
In un conflitto NATO che richiede operazioni complesse, coordinate, multinazionali? Il soldato italiano è nel suo elemento. Standard elevati, addestramento superiore, capacità di operare in contesti alleati complessi. Ma i numeri contano, e l’Italia è piccola.
La vera lezione per l’Italia
Ecco cosa dovremmo capire da questa analisi.
Primo: abbiamo un esercito di qualità eccezionale. Non è retorica patriottica, è un fatto riconosciuto dagli alleati. Il modello italiano funziona.
Secondo: la qualità ha un prezzo. Richiede investimenti continui in addestramento, tecnologia, equipaggiamento. Ogni taglio al bilancio della difesa è un taglio alla nostra sicurezza reale.
Terzo: manca l’esperienza di combattimento ad alta intensità, ed è una lacuna seria. Le esercitazioni NATO devono diventare sempre più realistiche, complesse, stressanti. Simulare la guerra moderna nel modo più fedele possibile.
Quarto: i numeri contano. Un esercito piccolo, per quanto eccellente, ha limiti fisici. Servono investimenti strategici per massimizzare l’efficacia con le risorse disponibili.
Quinto: l’interoperabilità NATO è la nostra assicurazione sulla vita. Investire nell’alleanza non è sottomissione, è intelligenza strategica. Nessuno vince guerre moderne da solo.
Conclusione: guardare la realtà negli occhi
La guerra non è un videogioco e gli eserciti non sono collezioni di statistiche su un foglio Excel. Sono persone. Ventenni che devono fare scelte impossibili in condizioni estreme.
Il soldato russo ha visto cose che nessuno dovrebbe vedere. Ha pagato con traumi e perdite un’esperienza che lo rende pericoloso ma lo lascia anche profondamente segnato, spesso mal equipaggiato, inserito in un sistema che lo consuma.
Il soldato cinese si allena duramente in un esercito che diventa sempre più formidabile ma resta un punto interrogativo gigante. Ha tutto tranne la cosa che conta di più: sapere come si vince davvero una guerra.
Il soldato italiano rappresenta un modello diverso: professionalità, qualità, intelligenza tattica, interoperabilità. Un esercito piccolo ma eccellente, che non ha nulla da invidiare a nessuno in termini di preparazione. Con una lacuna onesta da riconoscere: l’esperienza in conflitti ad alta intensità che nessuno si augura di dover acquisire.
In un mondo ideale, nessuno di questi ragazzi dovrebbe mai combattere. Ma il mondo non è ideale, e capire come si formano i soldati ci aiuta a capire gli equilibri di potere che determineranno il nostro futuro.
La risposta che l’Italia deve darsi
Sì, dobbiamo investire nella nostra difesa. E dobbiamo farlo con intelligenza, non solo con più soldi.
L’analisi ci dice che abbiamo costruito un modello vincente: qualità, professionalità, interoperabilità. Non servono 500.000 soldati mal addestrati. Serve mantenere e potenziare quello che funziona già ottimamente.
Cosa significa concretamente?
Significa continuare a selezionare i migliori, addestrarli meglio di chiunque altro, equipaggiarli con tecnologie all’avanguardia. Significa investire in simulazioni sempre più realistiche che compensino la mancanza di esperienza bellica. Significa rafforzare l’interoperabilità NATO che moltiplica la nostra efficacia.
Significa anche accettare che la sicurezza ha un costo, ma che questo costo è infinitamente inferiore a quello di trovarsi impreparati quando la storia bussa alla porta. Il soldato russo ha pagato con il sangue l’esperienza che ha. Il soldato cinese rischia di scoprire troppo tardi che la tecnologia senza esperienza non basta.
Il soldato italiano deve rimanere quello che è: un professionista eccellente, parte di un’alleanza solida, preparato non per conquistare ma per difendere.
Non serve imitare nessuno. Serve credere nel nostro modello e investirci con continuità. Perché in un mondo dove i giganti si confrontano, l’eccellenza può valere più della massa.
La guerra moderna non premia chi ha più soldati, ma chi ha soldati migliori. E su questo, l’Italia ha dimostrato di saper fare scuola.
(Analisi basata su fonti aperte, rapporti di osservatori militari internazionali, documentazione NATO e valutazioni di esperti del settore difesa, dicembre 2024-2025.)
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