Masiello e il nuovo Esercito: fine delle rendite, inizio della guerra culturale
Il recente intervento augurale del capo di stato maggiore dell’Esercito, generale Carmine Masiello, merita di essere trattato per ciò che realmente è stato. Non una cerimonia festiva, ma una piattaforma strategica di trasformazione. Il generale ha abolito la liturgia del videomessaggio accanto all’albero di Natale e ha scelto di parlare dal vivo all’intera forza armata, in presenza e collegamento, con un linguaggio organizzativo moderno.
Ha spiegato, in apertura, il senso stesso di questa scelta. Non rivolgersi come capo, ma come amministratore e garante di una comunità professionale che egli considera “investitori” dell’esercito, protagonisti e non spettatori della sua evoluzione. È un cambio di paradigma culturale: l’Esercito non è un organismo impersonale, ma il risultato del contributo umano di chi lo compone.
L’analisi di Masiello parte da una constatazione immediata: il mondo nel quale l’Esercito è cresciuto non esiste più. L’Italia ha costruito per trent’anni una forza armata plasmata su scenari di stabilizzazione e missioni a bassa intensità. Questo modello si è dissolto il giorno in cui la guerra è tornata nel continente europeo.
Il riferimento all’invasione dell’Ucraina e ai conflitti nel Mediterraneo allargato rende evidente che lo scenario internazionale non è un paesaggio remoto. È un terreno incendiato e vicino, in cui l’Italia dovrà operare con mezzi e mentalità adeguate alla guerra moderna.
Il generale ha sottolineato come la società italiana viva ancora nell’illusione che la sicurezza sia un diritto permanente e non un dovere nazionale. Ha richiamato i dati di un’indagine che mostrano una cultura della difesa in crollo verticale: gran parte dei giovani non si direbbe oggi disponibile a difendere il paese. Su questo punto, il suo intervento ha assunto un tono quasi antropologico. Come abbiamo potuto, in appena un secolo, dissolvere quella coscienza nazionale che fece andare in trincea generazioni di ventenni italiani nella Grande Guerra? Da questa domanda deriva un obiettivo politico–militare chiaro: ricostruire una cultura della difesa nel paese, rafforzare il valore della patria e il senso di appartenenza.
L’elemento centrale del discorso riguarda però l’interno della forza armata. Masiello ha spiegato che la trasformazione dell’esercito non è solo tecnologica o organizzativa, ma culturale. Ogni cambiamento strutturale – dalla nuova architettura divisionale alla modernizzazione dei mezzi – rimarrebbe incompiuto se non accompagnato da un salto mentale.
In questo quadro si inserisce la denuncia più forte del suo intervento: l’esistenza di una fascia interna che blocca il rinnovamento. Il generale ha individuato una stagnazione nella catena di comando intermedia, quella generazione di colonnelli, generali di brigata e marescialli anziani entrata nella zona grigia della carriera. È un segmento che vive talvolta di rendita, che non studia più, non si aggiorna, rifiuta la tecnologia e tende a schiacciare le spinte dei giovani. Questo fenomeno, spiegato con chiarezza, non è un’invenzione. È rilevato anche dagli studi di sociologia organizzativa. La conseguenza è devastante: se si blocca la generazione intermedia, si soffoca quella giovane, cioè il futuro dell’esercito.
La trasformazione proposta da Masiello consiste quindi nel rompere questa inerzia, eliminare la logica dell’autoreferenzialità e introdurre criteri di meritocrazia reale. Per farlo ha ricostruito la struttura di comando in quattro pilastri funzionali: operativo, logistico, territoriale e formativo. Ha decentrato i comandi per migliorare la qualità della vita e la produttività del personale. Spostare reparti fuori da Roma è un gesto concreto di attenzione verso l’uomo, non solo verso la tabella organica. Ha introdotto sistemi di valutazione a obiettivi annuali per gli uffici dello stato maggiore, evidenziando che senza misurazione non esiste responsabilità.
Il progetto comprende anche un salto tecnologico evidente. Sono stati introdotti nuovi mezzi da combattimento, veicoli di nuova generazione, sistemi antiaerei moderni, munizionamento circuitante, droni con formazione di massa, stampa 3D per la produzione autonoma di componenti, digitalizzazione amministrativa, app per la gestione del personale e un fucile d’assalto sviluppato insieme alle forze speciali. Non è un elenco futuristico, ma una realtà in corso.
Il discorso affronta persino il tema più complesso della guerra contemporanea: l’intelligenza artificiale nel combattimento terrestre. Masiello ha chiarito che l’Italia sta costruendo sistemi autonomi, ma non intende affidare a un algoritmo decisioni di morte. Questa posizione apre un problema reale. La nostra etica potrebbe renderci più lenti nella velocità del fuoco digitale rispetto a paesi che non hanno gli stessi scrupoli morali. L’esercito è consapevole di questa futura asimmetria e sta studiando come affrontarla.
Accanto alla tecnologia il generale ha mostrato un impegno profondo per la formazione intellettuale. Ha difeso la presenza della filosofia negli istituti militari e l’educazione al pensiero critico. L’esercito del futuro dovrà essere popolato da personale che pensa, non da esecutori passivi.
Infine, Masiello ha richiamato il valore del giuramento militare. L’esercito non si tiene insieme per struttura gerarchica, ma per valori. La fedeltà alla Repubblica, l’etica del sacrificio, la lealtà e il senso di comunità sono stati presentati come pilastro del combattimento reale. In una società che relativizza tutto, il generale ha avvertito che senza valori non esiste coesione e senza coesione un esercito si scioglie al primo impatto del fuoco, come accaduto in Afghanistan con reparti addestrati per anni ma privi di identità.
Il discorso di Masiello consegna quindi l’immagine di un esercito che sta entrando in una fase di mobilitazione culturale. Non si sta modernizzando solo la struttura, ma l’identità stessa della forza armata.
Alcune considerazioni personali
Il generale sta combattendo una battaglia interna contro il middle management della forza armata, una fascia di età e grado che spesso non ha più interesse a crescere, né competenze per capire la rivoluzione tecnologica. Se Masiello non riceverà sostegno politico e culturale, questa resistenza rischia di soffocare la spinta riformatrice. Chi sabota oggi internamente questa dinamica?
La questione dell’asimmetria etica è oggi vista come un limite morale. Domani, quando ci piegheremo nuovamente a regimi che non dovranno nemmeno più corrompere la nostra classe politica, rivaluteremo la guerra nelle forme più efficaci, anche se “poco cavalleresche”?
Le riforme annunciate dal ministro della difesa saranno decisive solo se costruite ascoltando comandanti come Masiello, non burocrati.
La difesa deve essere progettata da chi addestra soldati e comanda reparti, non da chi occupa opportunisticamente cariche in tempi di “reggenza democratica” (tale deve essere la definizione quando vota a malapena il 40% degli italiani).
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