Quando l’Italia bloccò la jihad mahdista verso il Mar Rosso
Il ruolo italiano nella Guerra Mahdista e le inquietanti analogie con la crisi odierna nel Corno d’Africa
21 dicembre 1893: la battaglia che segnò la prima vittoria europea sui rivoluzionari sudanesi. Centotrentadue anni dopo, la stessa regione torna in fiamme
Nel panorama delle campagne coloniali italiane di fine Ottocento, la Seconda Battaglia di Agordat rappresenta uno di quegli episodi bellici che, pur avendo avuto un’importanza strategica considerevole, è stato progressivamente eclissato dalla successiva tragedia di Adua. Eppure, quel 21 dicembre 1893, nella piana bruciata dal sole dell’Eritrea occidentale, si consumò quello che gli storici britannici avrebbero poi definito “la prima vittoria decisiva mai ottenuta dagli europei contro i rivoluzionari sudanesi”.
Il contesto: la Mahdiyya e l’espansione verso il Mar Rosso
Per comprendere gli eventi di Agordat occorre risalire di oltre un decennio. Nel giugno 1881, Muhammad Ahmad ibn as-Sayyid Abd Allah, un predicatore sufi originario del Sudan settentrionale, si era proclamato Mahdi, il “Guidato da Dio” atteso dalla tradizione islamica. La sua predicazione, che mescolava aspirazioni di rinnovamento religioso a un profondo risentimento contro l’amministrazione turco-egiziana, trovò terreno fertile tra le popolazioni sudanesi esasperate da decenni di tassazione oppressiva, coscrizioni forzate e ingerenze straniere.
Il movimento mahdista crebbe con rapidità impressionante. Nel 1883, l’armata egiziana del colonnello britannico William Hicks, oltre 8.000 uomini con artiglieria e mitragliatrici, venne annientata a El Obeid. Due anni dopo, il 26 gennaio 1885, Khartum cadeva nelle mani degli Ansar, i “seguaci” del Mahdi, e il generale Charles George Gordon veniva ucciso sugli scalini del palazzo del governatore. Il Sudan era ormai uno stato teocratico-militare, governato dopo la morte del Mahdi (giugno 1885) dal Khalifa Abdallahi ibn Muhammad.
L’espansionismo mahdista non si fermò ai confini del vecchio Sudan turco-egiziano. Verso nord, i dervisci minacciavano l’Egitto stesso. Verso est, l’obiettivo era raggiungere il Mar Rosso, passando attraverso i territori che l’Italia stava consolidando come propria colonia.
L’Eritrea italiana: una colonia sulla linea del fuoco
L’avventura coloniale italiana nel Corno d’Africa era iniziata nel 1882 con l’acquisto della baia di Assab, ma fu lo sbarco a Massaua nel febbraio 1885, poche settimane dopo la caduta di Khartum, a segnare l’inizio della presenza militare italiana nella regione. Nel 1890, con la proclamazione formale della Colonia Eritrea, Roma si trovò a gestire un territorio che confinava direttamente con lo stato mahdista.
I primi scontri non tardarono ad arrivare. Il 27 giugno 1890, presso i pozzi di Agordat, due compagnie di ascari, i soldati eritrei inquadrati nel Regio Corpo Truppe Coloniali, respinsero una razzia di circa mille dervisci provenienti da Cassala. Nel giugno 1892, a Serobeti, il capitano Stefano Hidalgo con appena 300 uomini sbaragliò una forza nemica tripla, comandata dall’emiro Ibrahim Massamil.
Queste vittorie, per quanto significative, non avevano scoraggiato i mahdisti. Al contrario, l’emiro Ahmed Ali, signore del Ghedaref, aveva maturato un piano ben più ambizioso: non più semplici razzie di confine, ma una vera campagna di conquista. L’obiettivo finale era Massaua stessa.
I preparativi: l’emiro e il colonnello
Ahmed Ali era un comandante esperto. A differenza di precedenti incursioni, organizzate con l’improvvisazione tipica delle operazioni mahdiste, questa volta la pianificazione fu meticolosa. Nel novembre 1893, l’emiro concentrò a Cassala una forza imponente: tra i 10.000 e i 12.000 combattenti, alcune centinaia di cavalieri e, particolare significativo, alcune mitragliatrici catturate agli egiziani nella disfatta di Hicks.
Il piano prevedeva di cogliere gli italiani di sorpresa. Il generale Oreste Baratieri, governatore della colonia, si trovava in quel momento in Italia. La difesa dell’Eritrea era affidata al colonnello Giuseppe Arimondi, un ufficiale dei bersaglieri originario di Savigliano che aveva maturato una notevole esperienza sul terreno africano fin dal 1887.
Arimondi non era tipo da farsi cogliere impreparato. L’11 dicembre, informato dal tenente Antonio Miani dell’imminente offensiva nemica, predispose immediatamente le contromisure. Ordinò la concentrazione di tutte le truppe disponibili: le compagnie di stanza a Cheren, due compagnie da Asmara, un distaccamento da Az Teclesan. In meno di tre giorni, riuscì a radunare ad Agordat sette compagnie di fanteria indigena, due squadroni di cavalleria, due batterie da montagna e tre bande irregolari del Barca, in tutto circa 2.400 uomini.
La battaglia del 21 dicembre
L’armata di Ahmed Ali impiegò cinque giorni di marcia per raggiungere Agordat da Cassala. Il colonnello italiano ebbe quindi il tempo di scegliere il terreno e predisporre le difese. La mattina del 21 dicembre, quando i dervisci attaccarono, li attendeva una sorpresa.
I mahdisti erano abituati ad affrontare il quadrato britannico, una formazione difensiva statica che permetteva di concentrare lo sforzo su un punto debole. Arimondi scelse invece uno schieramento in linea, che sfruttava la potenza di fuoco delle armi moderne su un fronte più ampio. Fu una decisione tattica che si rivelò determinante.
Lo scontro durò circa tre ore. Gli ascari, guidati dai loro ufficiali italiani, mantennero una disciplina di fuoco eccellente. Un ruolo cruciale lo giocarono i battaglioni del maggiore Giuseppe Galliano, che sotto la pressione della carica nemica ordinò prima un ripiegamento controllato, poi una violenta controffensiva alla baionetta. L’artiglieria da montagna completò l’opera, seminando lo scompiglio tra le file dei dervisci.
Al termine della giornata, il campo di battaglia presentava uno spettacolo impressionante. Oltre mille mahdisti giacevano morti, tra cui lo stesso emiro Ahmed Ali, il cui corpo crivellato di proiettili venne deposto ai piedi di Arimondi quasi fosse un trofeo di caccia. Tra i trofei catturati figuravano 72 bandiere, 700 fucili, una mitragliatrice inglese (quella sottratta all’armata di Hicks, che i dervisci non avevano mai imparato a usare), numerose cotte di maglia medievali, la tenda rossa appartenuta al defunto Negus Giovanni d’Etiopia, e persino due cammelli carichi di catene, evidentemente destinati ai prigionieri italiani che non ci sarebbero mai stati.
Le perdite italiane furono contenute: tre ufficiali caduti (il capitano Forno, i tenenti Gino Pennazzi e Colmia), due ufficiali feriti, un sottufficiale nazionale morto e uno ferito, 104 ascari caduti e 121 feriti.
Le conseguenze: da Agordat a Cassala
La vittoria di Agordat ebbe ripercussioni immediate. Arimondi venne promosso maggior generale per merito di guerra, Galliano ottenne il grado di maggiore e la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Furono assegnati dodici cavalierati, trentanove medaglie d’argento e quarantadue di bronzo.
Ma soprattutto, la battaglia segnò un punto di svolta strategico. Baratieri, rientrato precipitosamente in Eritrea, decise di passare all’offensiva. Nel luglio 1894, sfruttando la piena del fiume Atbara che impediva ai mahdisti di ricevere rinforzi da Khartum, guidò personalmente una colonna di 2.600 uomini contro Cassala. La città cadde il 17 luglio, consolidando il controllo italiano sul confine occidentale.
L’occupazione italiana di Cassala durò fino al dicembre 1897, quando la piazzaforte venne ceduta al Regno Unito nell’ambito di un accordo che garantiva il riconoscimento internazionale della sovranità italiana sull’Eritrea. Fu un baratto diplomatico che avrebbe avuto conseguenze di lungo periodo: un anno dopo, nel settembre 1898, le forze anglo-egiziane di Kitchener avrebbero annientato definitivamente lo stato mahdista nella battaglia di Omdurman.
I protagonisti di Agordat avrebbero conosciuto destini diversi. Arimondi e Galliano caddero entrambi ad Adua, il 1° marzo 1896, in quella che resta la più grave sconfitta militare del colonialismo italiano. La tattica offensiva che aveva funzionato contro i dervisci si rivelò fatale contro le armate del Negus Menelik II, numericamente schiaccianti e tutt’altro che prive di armi moderne.
Gli ascari, quei soldati eritrei che ad Agordat avevano dimostrato di poter tenere testa ai temuti combattenti mahdisti, continuarono a costituire la spina dorsale delle forze coloniali italiane per oltre mezzo secolo. La loro storia,fatta di fedeltà militare ma anche di strumentalizzazione coloniale, resta uno dei capitoli più complessi dell’esperienza italiana in Africa.
Quanto ai dervisci, la sconfitta di Agordat segnò l’inizio della fine per le ambizioni espansionistiche dello stato mahdista verso oriente. Il sogno di raggiungere il Mar Rosso e di portare la jihad fino alle sponde dell’Arabia si infranse in quella piana eritrea, due anni prima che la débâcle italiana ad Adua aprisse nuove speranze, presto vanificate dall’inarrestabile avanzata britannica da nord.
La Guerra Mahdista, che tra il 1881 e il 1899 aveva sconvolto l’intera regione nilodiana causando secondo alcune stime la morte di metà della popolazione sudanese, si concludeva lasciando sul terreno le fondamenta del Sudan coloniale anglo-egiziano. In questo grande dramma storico, la Seconda Battaglia di Agordat resta un episodio minore ma significativo: il momento in cui l’Italia, per una volta, si trovò dalla parte dei vincitori.
Dal 1893 al 2025: quando la storia si ripete sul confine eritreo-sudanese
Centotrentadue anni dopo la battaglia di Agordat, la regione compresa tra Eritrea, Sudan ed Etiopia torna ad essere uno dei punti di frattura più instabili del continente africano. Le dinamiche sono mutate, gli attori hanno cambiato nome, ma le linee di faglia geopolitiche mostrano una continuità inquietante.
Dall’aprile 2023, il Sudan è dilaniato da un conflitto che ha già provocato, secondo le stime più conservative, oltre 150.000 morti e circa 12 milioni di sfollati. Lo scontro oppone le Forze Armate Sudanesi (SAF), guidate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, alle Rapid Support Forces (RSF) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti. Una guerra che, come quella mahdista di fine Ottocento, ha rapidamente assunto i caratteri di un conflitto regionale per procura.
La geografia del conflitto ricalca in modo sorprendente quella di centotrenta anni fa. Le RSF controllano gran parte del Darfur e del Sudan meridionale; le SAF mantengono il controllo dell’est del Paese, inclusi gli stati di Kassala e Gedaref, esattamente la stessa area che nel 1893-1894 fu teatro degli scontri tra italiani e dervisci. E proprio come allora, il confine con l’Eritrea è diventato una linea rossa che nessuno può permettersi di oltrepassare.
L’Eritrea: da colonia italiana a potenza regionale
L’Eritrea del presidente Isaias Afwerki, al potere dal 1993, ha assunto un ruolo sempre più assertivo nella crisi sudanese. Asmara ha schierato circa 5.000 soldati nei pressi dei ponti strategici sul fiume Atbara e a supporto delle operazioni SAF negli stati di Kassala e Gedaref. Il presidente Afwerki ha dichiarato esplicitamente che l’Eritrea interverrà militarmente qualora le RSF dovessero avanzare verso i quattro stati orientali: Gedaref, Kassala, Mar Rosso e Nilo Blu.
La ragione è duplice. Da un lato, Asmara teme che un’avanzata delle RSF possa destabilizzare le comunità transfrontaliere, i Beni Amer, gli Hadendoa, gli Habab, che vivono a cavallo del confine e condividono lingua, tradizioni e appartenenza alla confraternita sufi Khatmiyya. Dall’altro, il regime eritreo vede nel caos sudanese un’opportunità per neutralizzare i gruppi di opposizione eritrei storicamente basati nel Sudan orientale.
È un capovolgimento storico significativo. Nel 1893, erano le truppe italiane di stanza in Eritrea a difendere il confine dalle incursioni provenienti dal Sudan. Oggi è l’Eritrea indipendente a proiettare forza militare in territorio sudanese, mentre armi iraniane, turche e russe transitano attraverso i porti di Massaua e l’aeroporto di Asmara dirette a Port Sudan.
L’Etiopia e la questione esistenziale del Mar Rosso
A complicare ulteriormente il quadro interviene l’Etiopia del primo ministro Abiy Ahmed. Nell’ottobre 2023, Addis Abeba ha dichiarato l’accesso diretto al Mar Rosso una “questione esistenziale”, rivendicando implicitamente diritti sul porto eritreo di Assab, lo stesso porto che nel 1882 segnò l’inizio dell’avventura coloniale italiana nel Corno d’Africa.
Le relazioni tra Etiopia ed Eritrea, brevemente distese dopo l’accordo di pace del 2018 che valse ad Abiy il Nobel, sono precipitate. Nell’ottobre 2024, Addis Abeba ha notificato al Segretario Generale delle Nazioni Unite che l’Eritrea stava “attivamente preparandosi alla guerra”. In risposta, Afwerki ha accusato l’Etiopia di “atti di sovversione palesi e occulti”. Il Global Peace Index 2025 ha identificato la coppia Etiopia-Eritrea come una delle quattro diadi globali a più alto rischio di escalation rapida e severa.
Nel frattempo, si è formato un asse Egitto-Eritrea-Somalia, formalizzato in un vertice trilaterale ad Asmara nell’ottobre 2024, con l’obiettivo dichiarato di contenere le ambizioni etiopiche. L’Egitto, già in rotta con Addis Abeba per la Grande Diga del Rinascimento sul Nilo, vede con allarme la prospettiva di una presenza navale etiopica nel Mar Rosso. Gli Emirati Arabi Uniti sostengono invece l’Etiopia, mentre Iran e Russia forniscono droni e supporto diplomatico alle SAF sudanesi.
Parallelismi storici: cosa è cambiato e cosa no
Il confronto tra il 1893 e il 2025 rivela continuità strutturali sorprendenti:
La centralità del corridoio Kassala-Agordat-Massaua. Allora come oggi, questa direttrice rappresenta la chiave per controllare l’accesso al Mar Rosso dall’entroterra africano. I dervisci puntavano a Massaua; le RSF, se mai raggiungessero l’est del Sudan, minaccerebbero Port Sudan, oggi capitale de facto del governo Burhan. La posta in gioco strategica è rimasta identica.
Il ruolo delle potenze esterne. Nel 1893, Italia e Gran Bretagna combattevano separatamente lo stesso nemico mahdista, con un coordinamento più formale che sostanziale. Oggi, una costellazione di potenze regionali e globali, Emirati, Arabia Saudita, Egitto, Turchia, Iran, Russia, alimenta il conflitto sudanese con armi, finanziamenti e supporto diplomatico, trasformandolo in un campo di battaglia per procura non dissimile dalle “guerre per corrispondenza” dell’era coloniale.
Le comunità di confine come risorsa e come vittima. I Beni Amer che nel 1893 erano sotto “protezione” italiana e fornivano irregolari alle bande del Barca sono oggi divisi tra due stati, ma continuano a costituire un bacino di reclutamento per milizie su entrambi i lati del confine. La militarizzazione delle identità etniche, che Asmara sta attivamente perseguendo armando gruppi tribali filo-SAF, rischia di trasformare il conflitto sudanese in una guerra etnico-territoriale di lunga durata.
L’instabilità sudanese come minaccia esistenziale per i vicini. Così come lo stato mahdista del Khalifa rappresentava una minaccia ideologica e militare per l’Eritrea italiana, l’Etiopia di Menelik e l’Egitto britannico, oggi il collasso del Sudan centrale proietta instabilità in tutte le direzioni: verso l’Eritrea, l’Etiopia, il Ciad, l’Egitto, la Libia.
Ma ci sono anche differenze cruciali:
L’inversione dei rapporti di forza. Nel 1893, l’Eritrea era una giovane colonia la cui esistenza dipendeva dalla capacità di respingere minacce esterne. Oggi è uno stato autoritario ma consolidato, dotato di forze armate temibili e di una proiezione regionale che i colonizzatori italiani non avrebbero mai immaginato. L’Eritrea non subisce più la storia: la fa.
La frammentazione degli attori. La guerra mahdista opponeva essenzialmente due campi: lo stato del Khalifa da un lato, le potenze coloniali e l’Etiopia dall’altro. Il conflitto odierno coinvolge decine di gruppi armati, le SAF, le RSF, i movimenti ribelli del Darfur (SLM, JEM), le milizie popolari, i gruppi etnici armati, in un caleidoscopio di alleanze mutevoli che rende qualsiasi soluzione negoziata estremamente difficile.
La tecnologia della guerra. Ad Agordat, la superiorità italiana derivava dai fucili a retrocarica e dall’artiglieria da montagna. Oggi, droni iraniani Mohajer-6 e turchi Bayraktar TB2 colpiscono obiettivi a centinaia di chilometri di distanza, mentre attacchi con droni suicidi raggiungono Port Sudan e Kassala. La guerra si combatte anche nello spazio informativo, con propaganda sui social media e campagne di disinformazione che il colonnello Arimondi non avrebbe potuto nemmeno concepire.
La storia non si ripete, ma spesso rima, come avrebbe detto Mark Twain. Il triangolo Eritrea-Sudan-Etiopia resta, a centotrenta anni dalla seconda battaglia di Agordat, una delle aree più instabili del pianeta. I confini tracciati dalle potenze coloniali, quello tra Eritrea italiana e Sudan anglo-egiziano, quello tra Eritrea ed Etiopia, continuano a essere linee di frattura lungo le quali si scaricano tensioni etniche, religiose, economiche e geopolitiche mai risolte.
La differenza fondamentale è che oggi non esiste più una potenza egemone in grado di imporre un ordine, per quanto iniquo. Il sistema internazionale è frammentato, le potenze regionali perseguono agende contrastanti, le organizzazioni multilaterali sono paralizzate. Il Sudan del 2025, con le sue centinaia di migliaia di morti e i suoi milioni di sfollati, è l’immagine speculare e amplificata del Sudan del 1885-1899: uno stato fallito, una popolazione decimata, una regione in fiamme.
Per gli analisti di difesa e sicurezza, la lezione è chiara: il Corno d’Africa e il bacino del Mar Rosso rimarranno per il prossimo futuro un teatro di competizione strategica ad alta intensità. Le stesse rotte marittime che nel 1893 l’emiro Ahmed Ali sperava di raggiungere conquistando Massaua sono oggi minacciate dagli attacchi Houthi dallo Yemen. Il 12% del commercio marittimo mondiale transita per queste acque, rendendo qualsiasi escalation una questione di rilevanza globale.
Agordat, oggi una sonnolenta cittadina eritrea con qualche migliaio di abitanti, conserva ancora il forte italiano e il monumento ai caduti delle battaglie del 1890 e 1893. Pochi turisti lo visitano; i più ignorano persino la sua esistenza. Ma la storia che quei luoghi raccontano, una storia di imperi in espansione, di confini contestati, di popolazioni travolte da conflitti più grandi di loro, è tragicamente attuale.
Riferimenti bibliografici
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- Human Rights Watch (2024), Sudan: Atrocities by Rapid Support Forces in Darfur.
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- Mohamoda, Dahilon Yassin (2025), “Red Sea Reckonings: Ethiopia, Eritrea, and the Unraveling of Pretoria”, Ethiopia Insight, July 2025.
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