Il prezzo della pace: oggi il Donbass, domani le Hawaii?
Esiste una regola non scritta della storia militare che si ripresenta con inquietante regolarità: chi sa di dover affrontare uno scontro decisivo non può permettersi di attendere di essere battuto. È la logica che attraversa i secoli, da Tucidide in poi, e che governa ogni fase di transizione tra potenze dominanti e potenze emergenti. Non è una profezia, ma una costante strutturale dei rapporti di forza.
È in questa cornice che va letta la competizione strategica tra Stati Uniti e Cina. Non come una crisi contingente, né come una semplice rivalità economica o tecnologica, ma come una dinamica sistemica che si avvicina progressivamente a una soglia critica.
Il recente Annual Report to Congress on Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China, pubblicato dal Dipartimento della Difesa statunitense alla vigilia di Natale, lo conferma con chiarezza. Il documento descrive una Repubblica Popolare impegnata in una modernizzazione militare rapida, metodica e multidimensionale, con l’obiettivo dichiarato di disporre, entro il 2027, di capacità credibili per un confronto ad alta intensità, in particolare nello scenario di Taiwan.
Ma il dato più rilevante non è soltanto ciò che il rapporto afferma ma ciò che implicitamente rivela: l’asimmetria informativa è ormai strutturale. L’Occidente osserva, analizza, discute pubblicamente e spesso si divide. Pechino prepara, sperimenta, occulta. La trasparenza, valore fondante delle democrazie liberali, rischia così di trasformarsi in vulnerabilità strategica quando si confronta con un sistema che considera l’opacità una leva di potere.
La storia insegna che all’inizio di ogni grande conflitto nessuno immagina davvero quali capacità emergeranno sul campo dopo pochi mesi. Nel 1914 non si intuiva la guerra nelle sue inedite dimensioni industriali (aerei, mitragliatrici, gas..), sociali (i servizi tedeschi agevolarono la Rivoluzione in Russia per chiudere un intero fronte), e temporali (4 anni per un conflitto che sarebbe dovuto durare pochi mesi). Nel 1939 si sottovalutava la portata della guerra meccanizzata e aerea, fino a un epilogo nucleare. Nel 2022 si dava per scontato il rapido collasso ucraino… La sorpresa strategica non è dunque eccezione, è regola.
Oggi il rischio è amplificato da tecnologie che comprimono i tempi decisionali e moltiplicano gli effetti: intelligenza artificiale, dominio spaziale, cyberwarfare, integrazione civile-militare. Quando Pechino rivelerà le proprie reali capacità, l’impatto sarà destabilizzante non solo per il sistema internazionale, ma soprattutto per gli Stati Uniti.
Da qui discende una conclusione tanto scomoda quanto razionale: se Washington intende conservare una reale possibilità di vittoria in un confronto diretto, la finestra temporale si sta rapidamente chiudendo. Ogni anno che passa riduce il margine tecnologico, industriale e strategico accumulato nel secondo dopoguerra. Attendere non significa guadagnare tempo, ma cederlo.
A questo quadro si aggiunge un ulteriore elemento, raramente affrontato con onestà. Nel tentativo di contenere la Cina, l’Occidente sta cercando – sempre più affannosamente – di spezzare l’asse tra Pechino e Mosca. Ma farlo oggi, dopo aver isolato, sanzionato e delegittimato la Russia fino a renderla strutturalmente dipendente dalla Cina, appare un’operazione tardiva e contraddittoria. Peggio ancora, rischia di essere percepita come opportunistica e strumentale.
Il tentativo trumpiano di “recuperare” Mosca sacrificando credibilità, coerenza e alleanze potrebbe poi rivelarsi un errore strategico di lungo periodo. Gli alleati osservano. E memorizzano… Chi oggi viene spinto a combattere fino all’ultimo uomo, salvo poi essere invitato a cedere territori in nome della stabilità, domani potrebbe ricordare molto bene chi lo ha lasciato solo.
Ed è qui che il ragionamento diventa più scomodo. Se Trump oggi desidera che la pace possa passare attraverso una resa imposta, domani potrebbe trovarsi isolato quando chiederà solidarietà. Non è difficile immaginare uno scenario in cui, di fronte a una crisi esistenziale per gli Stati Uniti, alcuni partner scelgano di restare a guardare, invitando Washington a fare esattamente ciò che oggi viene suggerito a Kyiv, ovvero accettare l’inaccettabile, per evitare il peggio. In quel momento, forse, comprenderà tardivamente la posizione di Volodymyr Zelensky.
Quando inizieranno a circolare proposte che prevedono la rinuncia a territori considerati intoccabili, quando qualcuno suggerirà che cedere le Hawaii sia un prezzo ragionevole per evitare una guerra più ampia, il concetto stesso di pace apparirà per ciò che rischia di diventare: non scelta morale ma mera resa, seppur formalmente “negoziata”.
Allora, come spesso accade nella storia, il conto tornerà. Con gli interessi.
L’articolo Il prezzo della pace: oggi il Donbass, domani le Hawaii? proviene da Difesa Online.
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