Quando la guerra non fa rumore: la Cina abitua il mondo all’idea di colpire Taiwan
Negli ultimi anni la pressione militare esercitata dalla Repubblica Popolare Cinese attorno a Taiwan ha assunto una dimensione strutturale e permanente. Non si tratta più di episodi isolati o di dimostrazioni simboliche, ma di una strategia coerente che mira a trasformare lo Stretto in uno spazio operativo costantemente conteso, nel quale la presenza militare cinese diventa elemento ordinario del paesaggio strategico regionale.
L’aumento delle attività militari non è solo quantitativo ma qualitativo. Le esercitazioni sono sempre più complesse, interforze e realistiche, con simulazioni che includono blocchi navali, interdizione aerea, pressione missilistica e coordinamento multidominio. Non si tratta di semplici segnali politici, ma di un processo di adattamento operativo che consente alle forze armate cinesi di testare tempi, reazioni e soglie di tolleranza regionali e internazionali.
In questo quadro assume particolare rilievo quanto affermato nel novembre scorso dal rappresentante di Taiwan in Italia, Vincent Y. C. Tsai, secondo cui “le attività militari cinesi attorno a Taiwan sono aumentate del 300% in un solo anno”. Un dato che, al di là del suo impatto numerico, fotografa un cambiamento: la pressione è sistemica.
La conseguenza più rilevante è che la possibilità di un passaggio alle vie di fatto non è più legata a una crisi improvvisa o a un evento scatenante riconoscibile. Al contrario, può materializzarsi in qualsiasi momento, proprio perché l’ambiente strategico è stato progressivamente modellato per renderla “normale”, prevedibile, quasi inevitabile.
La costruzione della pressione militare permanente
Le recenti esercitazioni cinesi attorno a Taiwan, annunciate dal comando del teatro orientale dell’Esercito Popolare di Liberazione, rientrano pienamente in questa logica. L’operazione, denominata “Missione Giustizia 2025” (Justice Mission 2025), ha coinvolto lo spazio marittimo e aereo circostante l’isola, con l’obiettivo dichiarato di contrastare presunte “forze separatiste” e “interferenze esterne”.
Al di là della narrativa ufficiale, il messaggio strategico è chiaro. La Cina intende dimostrare di poter esercitare una pressione continua, multidimensionale e scalabile, mantenendo l’iniziativa e riducendo progressivamente i margini di manovra politica e militare di Taipei. In questo quadro, ogni esercitazione non è un evento isolato, ma un tassello di un processo più ampio di normalizzazione della coercizione.

L’effetto più pericoloso non è tanto l’immediata escalation, quanto l’assuefazione. Quando la presenza militare diventa quotidiana, il rischio non viene più percepito come eccezionale, ma come parte della normalità strategica. È in questo spazio grigio che si consuma la vera erosione della deterrenza.
La questione centrale: perché non anticipare lo scontro?
Se, come affermano apertamente le autorità cinesi, le forze armate devono essere pronte entro il 2027 all’uso della forza contro Taiwan, e se parallelamente gli Stati Uniti stanno accelerando la propria preparazione militare nella regione indo-pacifica, sorge una domanda inevitabile: cosa impedisce oggi a Pechino di anticipare i tempi?
La risposta non risiede in una improvvisa moderazione politica né in un reale rispetto dell’ordine internazionale. Il vero fattore di contenimento è di natura strategica. Anticipare lo scontro significherebbe rinunciare al vantaggio del tempo, costringendo le democrazie – pur frammentate, polarizzate e spesso esitanti – a ricompattarsi di fronte a una minaccia manifesta.
Nella retorica ufficiale cinese, l’Occidente viene spesso descritto come “corrotto” e “decadente”. Tuttavia, la storia dimostra che anche sistemi percepiti come fragili possono reagire con decisione quando vengono superate determinate soglie. Un conflitto aperto trasformerebbe una competizione asimmetrica in uno scontro diretto, con costi e incognite che Pechino continua a valutare con estrema cautela.
Per questo la strategia dominante è stata quella dell’erosione progressiva: logorare, intimidire, abituare, rendere la pressione costante, la crisi permanente, la soglia del conflitto sempre più sfumata.
La posizione della rappresentanza di Taiwan in Italia
L’Ufficio di Rappresentanza di Taipei in Italia, in una nota ufficiale datata 29 dicembre 2025, ha condannato con fermezza le nuove manovre militari cinesi attorno all’isola.
Nel documento si afferma che l’esercitazione annunciata dal comando del teatro orientale dell’Esercito Popolare di Liberazione, prevista tra il 29 e il 30 dicembre, rappresenta una grave minaccia alla pace e alla stabilità dello Stretto di Taiwan e dell’intera regione indo-pacifica. Secondo la rappresentanza, tali attività violano i principi fondamentali del diritto internazionale e compromettono l’ordine basato sulle regole.
La nota sottolinea inoltre come la Cina continui a ricorrere a esercitazioni militari, incursioni aeree e operazioni navali come strumenti di pressione politica e militare, mettendo a rischio la sicurezza regionale e la libertà di navigazione, con potenziali ricadute sull’economia globale.
Taiwan ribadisce il proprio impegno a mantenere la pace e la stabilità nello Stretto, presentandosi come attore responsabile della comunità internazionale, ma invita al tempo stesso la comunità internazionale a non sottovalutare la portata delle azioni cinesi e a riconoscere che la sicurezza dell’Indo-Pacifico è un interesse condiviso.
In un contesto in cui la minaccia non si manifesta più con l’immediatezza della guerra, ma con la continuità della pressione, il rischio maggiore non è l’escalation improvvisa, bensì l’assuefazione al pericolo. Ed è proprio questa normalizzazione della tensione a rappresentare oggi la vera sfida per l’isola – come definita da Pechino – “ribelle”.
L’articolo Quando la guerra non fa rumore: la Cina abitua il mondo all’idea di colpire Taiwan proviene da Difesa Online.
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