2026: l’anno dell’instabilità permanente
Puntuale come una cambiale in protesto, e come la poesia del nipotino lacrimoso, lo spigoloso momento dei bilanci consuntivi è arrivato, accompagnato dall’ancor più temuta entrata in scena di quelli previsionali, mediamente lastricati di buone intenzioni, che sappiamo dove vanno a finire.
Come per tanti anni, anche a questo, nato fallato e bagnato da prosecco di scarsa qualità, il successo non ha arriso; del resto non poteva essere altrimenti, considerati i legati lasciati in eredità dal 2024.
Il 2025 ha la stessa espressione di chi, mollata la brutta notizia, con gli occhi a terra e le mani scrollanti, ansioso di fuggire da tedio e mala sorte, sta con un piede sul pianerottolo pronto allo scatto liberatorio verso un portone affacciato su strade di fuoco attraversate da ogni tipo di artificio pirotecnico destinato a stroncare le speranze di quello scatto, alla Willy il Coyote.
Comprensibile che il 2026 nasca preoccupato. Anche quest’anno la democrazia è rimasta sospesa tra percorsi ipotetici, in un dualismo intriso di slanci e regressioni, di vaghi auspici e di erosione delle sue basi fondanti. La pratica porta a chiedersi se le elezioni programmate riusciranno a controbilanciare le spinte di ulteriori momenti politico-economici disfunzionali.
Il 2025 è stato segnato dal ritorno di Trump che non ha esitato a dare uno scossone alle relazioni internazionali su diversi fronti, con il multilateralismo di COP e G20 nell’angolo, l’euroatlantismo in crisi e mediazioni rivelatesi molto più complesse di quelle prospettate in campagna elettorale.
Il 2025 è stato l’anno dell’ascesa di nuovi leader: Sanae Takaichi, prima donna a guidare il Giappone della deterrenza multilateralizzata, e Robert Francis Prevost, primo Leone statunitense, novità inedite e di pregio in un mondo fatto di dazi ed ex qaedisti in barba e grisaglia.
Bei coup de théâtre nel momento del ritorno del realismo politico statunitense, non c’è che dire, specie alla luce della patente inadeguatezza europea alla creazione di un contesto politico e difensivo che si scopre sempre più impalpabile e inane di fronte a organizzazioni come la SCO.
Bisogna prendere atto che il mondo sarà anche multipolare, ma comunque oggetto di geometrie variabili; talmente variabili che l’incertezza in MO continua a regnare così sovrana sia da aver contemplato il sanguinoso proseguimento dello scontro tra Hamas e Israele, sia da aver assistito alla proiezione del conflitto sui cieli di Teheran, con il plurimo riconoscimento dello stato palestinese da un lato e la risposta di Tel Aviv con il riconoscimento del Somaliland, entità politica in posizione geograficamente molto interessante.
E la Generazione Z? Dagli Appennini alle Ande i giovani nati tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, in paesi a basso reddito, hanno dato la stura a richieste sociali pressanti, interpreti di un gioco orizzontale che non vede leader riconosciuti né strutture di partito, seguendo i percorsi tracciati su una mappa di mobilitazione intercontinentale.
In Europa, dal punto di vista di Varsavia, i paesi che hanno mietuto più risultati sono stati l’Ucraina, che ha sostenuto e ridotto la pressione russa sul territorio NATO, e l’Ungheria, abile nell’uso di veti e ritardi procedurali nel sostegno a Kiev sia nell’attuazione delle sanzioni contra Rutheniam, a dimostrazione di quanto la leva istituzionale, in ambito europeo, sia utile nei rallentamenti collettivi.
Anche il Qatar ha superato il proprio peso politico grazie alla sua azione diplomatica tra Golfo, MENA e Gaza, malgrado gli attacchi israeliani prima e iraniani poi, un insieme di elementi che hanno reso il MO un punto di instabilità visto il ruolo israeliano di testa di ponte unipolare contrapposta all’Iran.
Anno difficile anche per il Cremlino, con un’economia depressa, inflazionata e sanzionata eppure con una verve che trascende il reale peso politico russo e che consente di pressare l’Europa con operazioni non convenzionali appena sotto una conclamata soglia bellica.
Intanto, per il 2026, è previsto un crollo delle entrate petrolifere con una consistente diminuzione del gettito fiscale; per un governo che vive di petro-rubli il tempismo è stato pessimo, con una situazione peggiorata dal rafforzamento valutario, che ha ridotto il valore degli incassi dall’export.
In sintesi: prezzi bassi, valuta più forte, sconti sul greggio ed ampi sgravi fiscali per Gazprom, con contorno di flotte ombra e pipeline europee in ghiaccio. Il problema russo sta proprio nel valore della valuta, visto che il petrolio viene venduto in dollari ma tasse e spese statali sono pagate in rubli; se il rublo si rafforza ogni dollaro incassato vale meno rubli.
Anche l’Australia ha evidenziato capacità insospettate, relazionandosi come interprete di potenziale peso nel contesto indopacifico. Se la Germania ha invertito la sua politica accantonando l’ortodossia del suo rigido dogma fiscale e puntando ad un riarmo percepito come necessario a fronte del revanscismo russo, Israele ha dimostrato capacità di generare risultati militari e politici inattesi da uno Stato con profondità strategica limitata, un’agguerrita opposizione internazionale e che è riuscito a preservare la posizione di leader tecnologico globale.
Insomma, il 2026 sarà ancora lontano dalle sicurezze unipolari post guerra fredda; l’ordine disegnato tra 1989 e 1991 è percorso da faglie in cui le crisi geopolitiche sono organiche al sistema internazionale e dove parte del mondo continua a tentare di realizzare una fase multipolare al netto di egemonie occidentali.
Il 2026 non porterà stabilizzazione geopolitica lineare ma un’accelerazione delle tensioni. In tutto ciò, gli USA hanno formulato una nuova versione internazionalista con caratteristiche trumpiane, certamente poco liberal; The Donald non cerca la fine della leadership ma una sua reingegnerizzazione che tenga conto della deterrenza anti-Pechino, che dovrà invece rafforzare la domanda interna aprendosi agli investimenti.
Nel caos generale si è dibattuta, forse non abbastanza, l’ONU, tirata per la giacchetta sia dagli occidentali, che la vorrebbero concentrata sul perseguimento della stabilità internazionale, sia dagli altri Paesi che temono una perdita di mordente sugli aspetti economici. Vista la postura di Washington e soprattutto l’assenza di altri in grado di supplire ai mancati versamenti americani, sarà probabilmente necessario attendere, con il 2027, la nomina del nuovo Segretario Generale, visto che il cedente dovrà portare a compimento il processo di riforma interno sperando di cavarsela durante quello che altro non è che un momento di transizione.
Con il 2026 potrebbe tornare l’incubo delle bolle finanziarie e su quando potrebbero esplodere; bolle create da investitori eccessivamente entusiasti per dinamiche che, spesso, si dimostrano portatrici sane del virus della frode da schema Ponzi.
Il 2026 ha tutte le stigmate dell’annus horribilis, visto che rimangono intatti i rischi di mercati laterali, fragilità occulte e l’incombere di un cigno nero che possa far saltare il banco mettendo a nudo la debolezza del sistema.
L’economia si sta adattando a visioni plasmate da nuove istanze politiche con un ambiente instabile e fattori temporanei destinati all’evanescenza: incertezze, protezionismo, shock da offerta di lavoro potrebbero ridurre la crescita specie in paesi dall’inverno demografico precoce, privi di forza lavoro competente o dove la pressione sull’indipendenza delle istituzioni monetarie potrebbe compromettere la qualità delle decisioni a fronte della necessità di preservare la solidità macroeconomica.
Probabilmente è proprio l’indipendenza della FED l’elemento intrinseco più pregiato del dollaro. Il 2026 sarà un anno sensibile alla gestione dei tassi, specie se dovesse ripetersi l’isteresi creata dallo shutdown americano, causa della penuria di dati macro su cui lavorare visto anche il rischio inflazione, cosa che fa presumere una pausa in gennaio ed una ripresa degli allentamenti nei mesi successivi.
Il nuovo anno non porterà a tassi prossimi allo zero, ma consoliderà una nuova configurazione monetaria, con il dollaro in vantaggio sull’euro. La variabile da tenere in considerazione è la struttura temporale del debito pubblico americano, concentrata su scadenze estese tra il 2026 ed il 2028.
Ad ogni modo, la trasformazione del mercato fa sì che gli investitori continuino a vedere nell’oro un bene rifugio alternativo in presenza di instabilità geopolitica. In sintesi se l’oro, nel 2026 a 5000 usd l’oncia, rappresenta lo scudo del capitale, petrolio e gas sono l’incarnazione del potere economico-politico specie se, come l’Europa, ci si sia affidati ad un unico provider; il 2026 sarà quindi l’anno delle commodity strategiche, posto che si dovrà decidere se tornare alla stabilità o optare per una volatilità permanente e che oro ed energia rimarranno non sempre considerati offrendo margini allettanti per gli investitori di più ampio respiro.
Ma il 2026 sarà anche l’anno di debito pubblico, calo dei consumi e frammentazione geopolitica, dunque l’anno della possibile crisi economico-finanziaria a carattere sistemico capace di ridefinire gli interessi geoeconomici occidentali, una recessione accompagnata dal crollo dei prezzi delle materie prime.
La grande crisi economica e finanziaria del 2026, intesa in termini strutturali, nascerebbe da squilibri accumulati nei consumi e nella finanza; le sue conseguenze potrebbero colpire in particolare Russia e Cina, evidenziando le tare delle strutture di potere. Non possiamo avere certezze, stiamo giocando, ma sarebbe davvero interessante, n’est pas?
Da questo nuovo anno non c’è dunque da aspettarsi un granché, vista anche l’onda lunga del populismo e la difficile fattibilità del perseguimento di molte delle proposte avanzate, anche perché le premesse storiche sono molto più incerte e rischiose di quanto si possa riconoscere, data la rivalità tra grandi potenze e tecnologie alla Stranamore sempre più avanzate.
Insomma, nel 2026 poca cooperazione e tramonto delle pie illusioni, con assenza di multilateralismo ma forti frammentazioni e multipolarità; realisticamente vige un crudo ma sincero ognuno per sé e con, in dissolvenza, norme ormai non più condivise.
In testa alla hit parade ci sono gli USA, che pretendono vantaggi immediati, certo non la riprogettazione ed il mantenimento di un difficile e costoso ordine internazionale ormai d’altri tempi. Ecco dunque che si rimarca sotto quest’ottica la necessità di una politica estera selettiva che trovi a chi delegare le responsabilità, con Pechino che non accetterà alcun vincolo, pur alla luce delle difficoltà macroeconomiche; la sfida cinese del 2026 consisterà nella gestione della sovrapproduzione interna, quella americana nell’esito delle elezioni di midterm.
Il nuovo anno conserverà una globalizzazione dalle direzioni imprevedibili con la geopolitica variabile centrale. Sarà dunque necessario scegliere, cosa che implica un obbligo negletto: responsabilità.
Le regole della competizione sono chiare: è la forza che crea il diritto, visto che le alleanze non saranno più fisse, ma basate su accordi e interessi immediati; non è eludibile il fatto che l’instabilità continuerà ad imprimere il suo sigillo, sia asimmetricamente che con scontri diretti, magari tra proxy e non ancora, forse, tra egemoni.
È nell’essenza del realismo la presentazione oggettiva della realtà che per il 2026 appare asperrima. Le criticità, purtroppo, non sono finite ed il 2026 si preannuncia con la chiusura della produzione del bourbon Jim Beam: anche bere per dimenticare pare che per l’anno entrante non sia possibile. Peccato.
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