SPECIALE AFRICA – Il lento declino del Sudafrica
Analisi Difesa ha sempre dedicato spazio e attenzione ai problemi della Difesa & Sicurezza in Africa. Con questo articolo diamo il via una serie di testi di approndimento su questo tema, uno Speciale Africa che si svilupperà con articoli di diversi autori nell’arco del mese di Giugno.
L’eopidemia di Covuid-19Non ha risparmiato neanche il Sudafrica il Covid-19. Il governo è dovuto correre ai ripari, schierando esercito, polizia e riservisti per far rispettare le misure di confinamento a una popolazione molto indisciplinata. Il crescendo è stato continuo, da fine marzo in poi. Il presidente Cyril Ramaphosa aveva autorizzato inizialmente un dispiegamento di 2.820 soldati per supportare le forze di polizia. Tempo stimato: 21 giorni di quarantena a decorrere dal 26 marzo e stato di emergenza sanitaria fino al 26 giugno. Con un obiettivo ben preciso: disciplinare i riottosi e far osservare le interdizioni decise la settimana precedente, fra cui la proibizione della vendita di alcolici. Siccome le forze armate regolari non navigano in buone acque, si è dovuto far ricorso ai riservisti.
I costi dell’Operazione Corona sono alti, intorno alla quarantina di milioni di Rand al mese (al tasso di cambio attuale un euro equivale a 20 Rand) ed eguaglieranno quelli del dispiegamento di 1.300 uomini nelle bidonville del Western Cape a fine 2019 per riprendere il territorio alle gang urbane, superiori per armamento alla polizia. Ramaphosa teme che il coronavirus si diffonda a tutta velocità nelle townships e nelle bidonville, aree di sovrappopolamento, insalubri e sprovviste di servizi sanitari e igienici, dove gli abitanti più poveri del paese vivono stipati senza acqua corrente e servizi.
Ad aprile il confinamento di tre settimane è stato ampliato a cinque settimane, estendendo il bando degli alcolici.
Fra la regione del Capo e quella di Johannesburg c’è oggi una mobilitazione in massa di soldati e poliziotti. La South African National Defence Forces (SANDF) vi ha proiettato otto unità di fanteria: il 21 SA Infantry Battalion (Gauteng), il 4 SAI Battalion (Mpumalanga), il 121 SAI (Free State), il 14 SAI (Eastern Cape), il 9 SAI (Western Cape), l’8 SAI (Northern Cape), il 10 SAI (North West) e il 2 SAI, tutti equipaggiati con blindati leggeri Mamba e Casspir. I militari hanno usato la mano pesante e il capo di Stato Maggiore, generale Solly Shoke, non ha lesinato gli elogi: “i cittadini meritano rispetto nel rispetto della disciplina”. Arringando i soldati del Tshawane Regiment ha precisato che “la vita umana è più importante dei diritti umani individuali”.
L’aspetto positivo è stato il crollo della criminalità. Secondo il ministro sudafricano della Polizia, Bheki Cele, dal 27 marzo al 4 aprile scorso, il numero degli omicidi è crollato da 326 a 94 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Quello degli stupri da 598 a 101, quello delle aggressioni da 2.673 a 456.
Una “rivoluzione” in un’Africa del Sud ultraviolenta, che lo stesso ministro Cele non aveva esitato a paragonare due anni fa a un “teatro di guerra”.
In maggio c’è stato un ulteriore inasprimento delle misure di sicurezza quando i contagiati hanno raggiunto le 12mila unità (al 2 giugno sono oltre 18.313 con 755 morti), di cui 4 fra i militari, e i primi moti sociali nelle bidonville, Ramaphosa ha deciso di schierare nelle strade delle nove province del paese altri 73.180 militari, attinti dalle forze regolari, dalla Riserva e dall’Auxiliary Force .
Più di 10mila uomini sono riservisti. La cifra, eccezionale per gli standard sudafricani, è stata confermata al Joint Standing Committee of Defence. I militari rimarranno a presidio delle frontiere e delle città almeno fino al 26 giugno. Bantu Holomisa, ex uomo forte dell’ex Transkei ha commentato, laconico: “ci avviamo verso lo stato d’emergenza’.
La verità è che la situazione del paese sta degenerando in diverse regioni, dove la popolazione rifiuta le consegne di confinamento. Ci sono stati scontri nella regione del Capo, a Khayelitsha, e in quella di Johannesburg, in cui sono stati coinvolti squatters e impiegati municipali. La missione delle forze armate è una tipica operazione di mantenimento dell’ordine e di presidio sociale.
Si tratta di far rispettare la profilassi sanitaria e prevenire le intemperanze colleriche che si moltiplicano negli slums più poveri dove la gente patisce la fame. In questo clima teso, il Sudafrica post-apartheid conosce un ritorno in auge anche della xenofobia.
Stagnazione economica e collasso sociale
La stagnazione economica e la povertà diffusa stanno favorendo le violenze sociali. Raid di matrice razzista avevano già colpito gli immigrati africani nella prima settimana di Settembre 2019, a Pretoria e Johannesburg, mietendo sette vittime, provocando 200 arresti e scatenando dure reazioni nelle città nigeriane, con ritorsioni economiche e diplomatiche.
Lagos ha richiamato il suo ambasciatore in Sudafrica e la popolazione autoctona ha inscenato proteste, attacchi e appelli al boicottaggio in rappresaglia. La Nigeria ha disdetto la partecipazione al forum economico sudafricano e Pretoria ha risposto chiudendo le proprie rappresentanze a Lagos e Abuja.
Nel paese che fu di Nelson Mandela, gente di colore massacra altri neri, immigrati, spesso da paesi che avevano sostenuto la lotta del Sudafrica contro il segregazionismo bianco. Non si tratta un fuoco di paglia. Era già successo in precedenza, più recentemente, nel 2016 e si è ripetuto oggi, un po’ dappertutto, nel Natal e nella regione di Johannesburg, dove malawiti, mozambicani, somali, zimbabwani, sudanesi o nigeriani sono stati i bersagli preferiti, linciati, bruciati vivi e colpiti nei loro miseri beni, saccheggiati da folle inferocite sfuggite al controllo poliziesco.
Se non è il naufragio del sogno di Mandela e della speranza di rinascita irenica poco ci manca. Nel Sudafrica di oggi manca la giustizia sociale.
Il reddito della parte più povera della popolazione nera è inferiore del 50% circa a quello che era sotto il regime bianco pre-1994. Diciassette milioni di neri vivono di sussidi sociali. Altri 14 milioni sopravvivono solo grazie all’allocazione del Social Grant, che assicura un minimo vitale.
Il tasso di disoccupazione reale è di quasi il 35%. Quello dei giovani fra i 15 e i 34 anni oscilla fra il 40 e il 50%. Stride con le ricchezze del sottosuolo il mix di penuria, corruzione e miseria sociale. La natura ha donato al Sudafrica enormi risorse, valorizzate con alti e bassi dai regimi che si sono succeduti negli ultimi quarant’anni. Ma il paese è oggi irriconoscibile. Sta attraversando una fase turbolenta della sua storia economica e militare. È ancora un gigante economico continentale, sebbene scalzato dalla Nigeria nel primato del PIL africano.
Conserva molti atout e un’industria militare efficiente. Un dato che contrasta fortemente con la povertà endemica e con un declino innegabile delle forze armate.
Il contesto politico ed economico
Negli anni ’80 le SADF erano le più efficienti e addestrate forze armate africane e la transizione fra il regime dell’apartheid, alla fine di quel decennio, e l’abolizione del sistema segregazionista, nel giugno 1991, non ebbe ripercussioni dolorose sui militari. Almeno nelle fasi iniziali.
Le SADF cambiarono denominazione in SANDF (South African National Defence Force), preservando inizialmente la coesione dei ranghi. Le cose hanno però cominciato a prendere una brutta piega con i mandati presidenziali dell’ultimo ventennio, da Thabo Mbeki (1999-2008) a Jacob Zuma (2009-febbraio 2018) per finire con il Cyril Ramaphosa.
A Pretoria i cambi di regime si assomigliano un po’ tutti, con colpi di stato interni all’African National Congress (ANC), creatura politica di Mandela bistrattata dai suoi successori. Nel febbraio 2018, il vice-presidente Ramaphosa ha defenestrato Zuma, proprio come quest’ultimo aveva fatto con Mbeki nel 2008. In pratica un membro dell’etnia Venda soppianta oggi uno Zulu, ma è difficile che la sedizione interna all’ANC modifichi il trend negativo di una classe politica inadeguata a garantire il rango del Sud Africa.
Cyril Ramaphosa (nella foto a lato) è un ex avvocato sindacalista che ha fatto fortuna nei consigli di amministrazione delle società minerarie sudafricane, un perno dell’economia nazionale. Il settore minerario è una vera manna dal cielo, fra i principali al mondo, con giacimenti di carbone, oro, platino, uranio, tantalio, cromo, manganese, nickel, diamanti e altri minerali preziosi.
La produzione africana di carbone è concentrata in Sud Africa mentre quantità molto più ridotte sono presenti soprattutto nello Zimbabwe e in misura ancora inferiore in Botswana, Tanzania, Swaziland, Congo Democratico, Zambia, Malawi e Mozambico. Il Sud Africa è al sesto posto a livello mondiale come quantità di riserve e rappresenta il 98% della produzione continentale (5,4% di quella mondiale). La Anglo American’s Anglo Coal (Anglo), la BHP Billington’s, Ingwe Coal (Ingwe), le sudafricane Eyesizwe Coal (Eyesizwe), Kumba Resources (Kumba), Sasol Mining (Sasol), e la svizzera Xstrata Coal South Africa (XCSA) gestiscono lo sfruttamento locale del carbone, esportato in parte in Germania, Spagna e Giappone.
I giganti del settore minerario hanno dovuto adeguarsi alla Black Economic Empowerment Initiative, per riequilibrare proprietà e management all’interno delle grandi aziende, in modo tale che tutte le componenti razziali abbiano una adeguata rappresentatività. Una ridistribuzione delle cariche “politicamente corretta” ma che non sempre ha prodotto buoni risultati gestionali.
Ombre e luci si alternano in tutti i settori economici. L’agricoltura è efficiente e diversificata, i servizi bancari sono performanti e l’industria è dinamica. Nonostante la recessione, il PIL sudafricano ammonta tuttora al 25% della ricchezza pan-africana e al 40% della produzione industriale. In Sud Africa si concentra metà del parco automobilistico continentale e il 40% delle infrastrutture stradali, affiancate da una rete ferroviaria moderna e interconnessa con un sistema di sei grandi porti, inseriti in un circuito di corridoi marittimi fra l’Europa, gli Usa, il Medioriente e l’Asia. É uno snodo cruciale dei commerci e dell’export dell’Africa australe.
Il tessuto regionale è integrato, tanto che il Sudafrica partecipa alla comunità di sviluppo SADC (South African Development Community) e a un’unione doganale australe. Ne trae molti benefici, proiettando la sua influenza oltreconfine. Il settore agricolo ne è l’epitome: «provengono infatti dal Sudafrica il 90% delle importazioni dello Swaziland e il 70% di quelle dello Zambia, dello Zimbabwe e del Malawi». Lo ricorda uno studio approfondito di François Lafargue.
Il Lesotho e lo Swaziland si intersecano quasi come enclave nel territorio sudafricano, da cui dipendono enormemente per l’economia. Le loro monete sono indicizzate sul rand sudafricano, non diversamente dalle valute della Namibia e del Botswana. Buona parte delle attività economiche di questi paesi è controllata da aziende sudafricane. A livello continentale, il Sudafrica è molto presente ovviamente nei settori minerario, come detto, delle telecomunicazioni, dei servizi bancari e del trasporto aereo. I suoi investimenti diretti all’estero ammontano al 5% del PIL.
L’inversione dell’Apartheid
Un quadro tutto sommato rassicurante, se non fosse che la classe media nera colta e preparata è quasi inesistente e la borghesia bianca è in fase di marginalizzazione crescente, in una sorta di apartheid inverso, nemesi storica deleteria. I quadri bianchi stanno espatriando perché il clima generale è loro ostile.
Un’emorragia che priva il paese di cervelli competenti. Fino alla crisi mondiale del 2008, Pretoria cresceva al ritmo del 5%, ma è entrata in recessione nel 2009 e non si è più risollevata registrando negli anni successivi margini di crescita non superiori al 3%. La sua economia è oggi una delle meno dinamiche dell’Africa. Cresce meno dell’1%, appena più performante delle ultime economie continentali, che sono quelle delle Comore, del Madagascar, del Sudan e dello Swaziland.
Da maggio 2017, il paese sta attraversando una nuova fase recessiva che lo allontana ulteriormente dagli obiettivi del millennio per lo sviluppo, come fantasticati dall’ONU nel 2000. Il primo di questi prevedeva la riduzione della povertà, raggiungibile con un minimo di crescita annua pluriennale del 7%.
Oggi ne siamo agli antipodi. Della disoccupazione abbiamo già detto. Il tasso collettivo di inoccupati riguarda un quarto della popolazione. A parte l’agricoltura, colpita da un recente provvedimento di natura razzista, con l’esproprio senza indennizzo dei proprietari terrieri bianchi, tutti i settori economici sudafricani sono in declino, a cominciare dalle industrie manifatturiere, tessili, di abbigliamento e scarpe, rese meno competitive dall’invasione di prodotti cinesi. I gioielli della meccanica, che foraggiavano quasi autarchicamente le industrie sudafricane d’ante-1994, sono moribondi.
Anche le miniere, che impiegano l’8% della popolazione attiva e rappresentano il 10% del PIL, soffrono, con perdite di produzione e di reddito, costi di sfruttamento in crescita costante, licenziamenti di 300.000 lavoratori e chiusura di pozzi secondari. Per mantenere i livelli produttivi bisognerebbe investire somme colossali, ma il clima sociale, la corruzione e l’insicurezza hanno scoraggiato gli investitori stranieri.
La manodopera nera chiede compensi non in linea con i desiderata degli imprenditori, che stanno delocalizzando. Come se non bastasse, l’industria mineraria è fortemente penalizzata dalle interruzioni continue delle forniture elettriche, perché la compagnia pubblica Eskom non ha fatto più investimenti nelle reti, saccheggiata dai dirigenti nominati dall’ANC.
Un effetto collaterale della Black Economic Emporwement, la politica di drenaggio del potere economico dai bianchi alla popolazione nera che, abbinata all’Affirmative Action, ha senz’altro permesso la nascita di una piccola borghesia nera, ma ha dilapidato l’expertise e le competenze dell’ex classe media bianca, motore della crescita impetuosa del paese. L’egemonia politica senza alternanza dell’ANC, che dura ininterrottamente da 25 anni, sta rovinando il Sudafrica.
Lo stato e le priorità della SANDF
Di questa situazione stanno risentendo anche le forze armate Nel 2020, la SANDF allinea 74.510 uomini e donne circa, di cui ben 7.389 per il solo servizio sanitario militare. La Reserve Force inquadra a sua volta circa 15.000 unità. Il budget per il 2019-2020 è sempre sotto l’1% del PIL, a 3,64 miliardi di dollari, in leggero incremento rispetto agli anni scorsi, ma decisamente inferiore agli standard dell’Africa australe e meridionale e al tasso d’inflazione reale.
Nel 2010, si attestava all’1,6 % del PIL. Nei prossimi tre anni non sono attesi miracoli. Il bilancio crescerà ad un ritmo blando, intorno al 2,5%, come previsto dal quadro di spesa a medio-termine o Medium-Term Expenditure Framework.
Lo sforzo reale è rosicchiato da un tasso d’inflazione che non scende più sotto il 5% e da una moneta fragile. Inoltre, nell’ultimo esercizio finanziario il 61,89% del bilancio della difesa se n’è andato in salari.
La recente South African Defence Review, risalente al 2015, aveva confermato lo stato di «declino critico» delle forze armate sudafricane, evocando un’improbabile inversione di tendenza nel prossimo decennio. Quattro miliardi di dollari di bilancio annuo non basterebbero ad arrestare il declino, soprattutto se non si arrivasse a sviluppare uno strumento limitato e sostenibile, imperniato sui classici parametri del 40-30-30 per le voci personale, esercizio e investimento, abbattendo la corruzione degli appalti, del procurement militare e dei servizi di manutenzione. In teoria, sarebbe previsto di ridurre gli effettivi a 69.609 uomini, esclusa la riserva, per poi aumentarli in seguito nell’ambito di un processo a cinque tappe dal 2015 al 2040.
Il rimpinguamento dei ranghi sarebbe previsto solo dal Milestone 4, a partire dal 2030, con 90.000 regolari e 82.000 riservisti.
Un obiettivo che appare oggi quanto meno chimerico, perché la SANDF è sfilacciata e sottoposta a troppe sollecitazioni. Oltre alla riduzione naturale degli effettivi, con 3.500 pensionamenti l’anno, l’unica soluzione plausibile sarebbe decurtare il servizio amministrativo in generale e il servizio sanitario militare in particolare, sproporzionato rispetto alle unità combat.
Ma per ora non se ne parla, anche se ci sono deficit di personale specializzato e un invecchiamento generalizzato delle classi di età. Molto è cambiato dai tempi d’oro degli anni ’80, a partire dagli orientamenti culturali, con il mutare dei nomi delle unità della Reserve Force, passando per la corrività prima impensabile con Cuba e la Russia, che ha lasciato interdetti molti veterani, uomini della SANDF ed esperti militari sudafricani.
La Russia è percepita dalla dirigenza sudafricana attuale come una soluzione possibile ai problemi dell’industria bellica locale e molti contatti sono in corso con Rostec e Kalashnikov, suggellati anche dalla visita dei bombardieri strategici di Mosca lo scorso autunno e dalle manovre navali trilaterali di novembre con Mosca e Pechino.
Le relazioni sono eccellenti anche con Teheran, ma non fino al punto da inimicarsi il mercato saudita, dove attua ottimi affari il colosso industriale Paramount, che ha siglato il 3 luglio scorso un accordo di collaborazione con le Saudi Arabian Military Industries (SAMI).
Il Regno saudita sarà un «centro d’interesse» per il gruppo nei prossimi anni, per cogliere tutte le opportunità del gigantesco progetto di Riad, Vision 2030. Quanto a Cuba, decine di medici e biologi latinoamericani sono in Sudafrica per la lotta alla pandemia.
Con l’Avana, è inoltre in itinere il Progetto Thusano, nell’ambito del quale un distaccamento di 93 tecnici e ingeneri cubani è distaccato in diverse basi del paese per offrire capacità manutentive e expertise agli organici sudafricani, rimettendo in sesto i veicoli leggeri MRAP della serie RG-31 e i camion da trasporto logistico Samil. Dal 2015 ne sono stati riparati circa 2.000, ma il costo del contratto solleva molti dubbi considerato che 14 milioni di dollari l’anno sembrano troppi rispetto al servizio fornito.
Troppi compiti e missioni
Continua intanto la proiezione internazionale della SANDF nell’ambito delle operazioni di peacekeeping a profitto dell’African Peace and Security Architecture (APSA), voluta da Jacob Zuma per garantire a Pretoria un ruolo preponderante nella sicurezza continentale.
Il Sudafrica è un perno tra i fondamentali della Forza africana in standby e della Capacità africana di risposta immediata alle crisi (CARIC), che raggruppa l’Algeria, l’Angola, il Benin, il Burkina Faso, il Ciad, l’Egitto, il Niger, il Ruanda, il Senegal e il Sudafrica, per un totale per ora teorico di più di 12.000 uomini, visto che lo status operativo è molto incerto.
Mentre l’African Stand-by Force non è ancora operativa, la CARIC è stata creata nel 2013, dopo la crisi maliana, per dare una forza d’intervento all’Africa, che sa molto di chiacchiere. In questa logica interventista, Pretoria è presente oggi in Repubblica democratica del Congo, con un contingente di 1.165 uomini assegnati alla brigata d’intervento della MONUSCO (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la stabilisation en République démocratique du Congo), e alla sua Force Intervention Brigade (FIB). Alcuni elementi operano inoltre nel ruolo di addestratori e formatori per 9.000 reclute delle forze armate della RDC (FARDC), nell’ambito dell’operazione Thebe.
Almeno quattro battaglioni della SANDF sono implicati a rotazione con la FIB, cui sono oggi assegnate le fanterie motorizzate del 5° battaglione, per un costo di circa 69,5 milioni di dollari annui, teoricamente rimborsati dal Dipartimento di peacekeeping delle Nazioni Unite (DPKO). C’è però del marcio nella missione sudafricana. Molte testimonianze raccolte sul posto dipingono i caschi blu sudafricani come i migliori clienti delle prostitute del Kivu.
Ombre che lasciano desumere un declino morale dei peacekeeper di Pretoria, poco brillanti anche in Centrafrica. Tre unità della SANDF si sono fregiate di allori per una battaglia a dire il vero ingloriosa, combattuta allora a Bangui fra il 22 e il 24 marzo 2013. Il 1 Parachute Battalion, il 5 Reconnaissance Regiment e il 7 Medical Battalion avevano proiettato in Repubblica Centrafricana quasi 200 uomini nell’ambito dell’operazione Vimbezela.
Durante la caduta di Bangui, questi soldati avevano tentato invano di opporsi all’avanzata dei ribelli musulmani della Séléka. Quindici di loro furono uccisi, altri due morirono per le ferite riportate dopo l’evacuazione in Sudafrica, molti altri si arresero ai ribelli. Non si capisce allora perché nelle bandiere dei corpi ci si fregi di ‘battle honours’ dopo questa battaglia mortale conclusasi con la resa dei loro uomini, certo coraggiosi ma pessimamente supportati e ancor peggio armati.
Per il sito sudafricano Defenceweb (fonte molto citata da Analisi Difesa), si tratta di un fatto assolutamente inedito, mai successo in precedenza. È acqua passata anche la missione in Darfur dell’8° battaglione di fanteria meccanizzato, che ha chiuso la missione UNAMID il 31 marzo 2016.
I tagli di bilancio e la carenza di mezzi adeguati hanno colpito anche la missione del 9th Seaborne in Mozambico, in supporto alle operazioni antipirateria (Op. Copper), cui Pretoria riesce a contribuire oggi con il solo rifornitore Drakensberg.
In effetti i pochi fondi disponibili devono essere spalmati su una miriade di assi prioritari, molto impegnativi: dalla sicurezza interna e frontaliera alla sicurezza marittima, senza dimenticare la cyberdifesa e i timori per gli sviluppi della situazione politica in Zimbabwe e in Lesotho, paese da cui Pretoria dipende per buona parte degli approvvigionamenti idrici, cosa che ha spinto la SADC a lanciare una missione preventiva il 2 dicembre 2017.
La Preventive Mission in Lesotho (SAPMIL) si compone attualmente di 269 uomini, provenienti non solo dal Sudafrica, ma anche da Angola, Malawi, Namibia, Tanzania, Zambia e Zimbabwe.
Dei 269 uomini, 207 sono soldati, 15 ufficiali di intelligence, 24 ufficiali di polizia e 12 esperti civili. Come se non bastasse, 2.700 uomini garantiscono in questo momento la protezione dell’enorme limes terrestre del Sudafrica, nell’ambito dell’operazione Corona.
Un compito immane, visto che la sicurezza delle frontiere grava tutta sulle spalle della SANDF e non della polizia. Lo spazio geografico da coprire è enorme, se solo si pensi all’estensione della linea di confine con il Botswana, lo stesso Lesotho, il Mozambico, lo Swaziland e lo Zimbabwe. I militari dell’operazione Corona provengono sia dai reparti regolari sia dalla riserva e devono dividersi fra la lotta all’immigrazione clandestina, il contrabbando di minerali, farmaci, medicamenti, sigarette e alcol, i traffici di vetture e l’abigeato.
Come se non bastasse, spetta alla SANDF collaborare alla lotta contro il bracconaggio, un crimine su vasta scala che insidia il patrimonio naturale del paese e genera insicurezza. Negli ultimi sei anni sono stati arrestati più di mille bracconieri e nel solo 2017 sono stati uccisi nel parco nazionale Kruger 30 elefanti e 662 rinoceronti. Parliamo di un’attività che nuoce all’economia turistica, essenziale e ancora in nuce in Sudafrica, visto che i visitatori sono potenziali vittime dei bracconieri, dal grilletto molto facile contro i ranger.
Senza dimenticare che l’avorio finanzia le reti del crimine organizzato. In fondo, per i militari della SANDF è più prossimo al loro mestiere combattere i bracconieri che assolvere a compiti di presidio delle frontiere, più tagliati sulle forze di polizia.
Le missioni di lotta anti-bracconaggio esigono dei fondamentali tattici che la SANDF padroneggia ampiamente, molto simili alle operazioni contro-insurrezionali sul terreno, basate sulla tattica delle piccole unità combat, l’aeromobilità e la capacità di inseguimento e caccia nella savana. Ecco perché il 1° Tactical Intelligence Regiment, invero un battaglione da ricognizione tattica, e il 6° South African Infantry Battalion, un’unità di fanteria aeromobile, integrano alla perfezione il dispositivo dell’Operazione Corona.
Ma non tutto quel che luccica è oro. Che Pretoria usi per questo compito di fanteria anche gli equipaggi dei carri del 1 South African Tank Regiment è abbastanza inedito, se non fosse che mancano effettivi e che ci sono errori del vertice, visto che la carenza di uomini è inasprita dalla missione ancora aperta in Congo e dall’insensato presidio delle frontiere. Missioni cui si aggiungono anche le operazioni di mantenimento dell’ordine interno, altro compito collaterale della SANDF, costretta a intervenire a Johannesburg, Cape Town e Bloemfontein, durante i moti xenofobi contro immigrati dello Zimbabwe e del Mozambico.
Stranezze che non annullano i dati critici, perché stanno crescendo sia le sedizioni urbane sia l’insicurezza rurale. L’anno scorso sono stati registrati più di 20.000 omicidi, di cui 55 durante 277 attacchi contro proprietà terriere.
Come si capirà, i militari non sono addestrati per svolgere questi compiti e la dottrina non è idonea, tanto più che la missione inciderebbe ancor più sul deficit di manpower, attribuendo ai soldati altri compiti ingrati, del tutto slegati dal mestiere delle armi, forieri di ulteriori colpi negativi sul morale della truppa, in un momento in cui si registra in Sudafrica una difficoltà di reclutamento.
Si colpirebbe inoltre la funzione addestrativa, già carente, soprattutto per il personale più specializzato. E invece la ministra della Difesa Nosiviwe Mapisa-Nqakula si sarebbe mostrata propensa ad assecondare le richieste della collega della Polizia, un dato sintomatico delle decisioni incoerenti e della scarsa preparazione militare dei vertici governativi, totalmente slegati dalla realtà, dal mondo e dalla cultura delle forze armate, come denunciato da molti osservatori e ufficiali della SANDF, almeno ufficiosamente.
Ultimo ma non meno importante è il rischio terroristico jihadista, negato all’inizio dalle autorità giudiziarie, ma inscritto nei nuovi provvedimenti di contrasto del fenomeno, in seno a una logica di sicurezza più globale.
È a questo proposito che abbiamo accennato alla tematica prioritaria della difesa cibernetica per l’APSA. Una strategia cyber è stata approvata nel 2016 ed è prevista entro quest’anno la capacità operativa iniziale di un centro di comando per la cyberdifesa, anche se ancora una volta il budget allocato a medio termine è inferiore di tanto alle necessità.
L’anno scorso ammontava a soli 5,1 milioni di dollari, pochini e contraddittori rispetto alla forza del paese in materia di intelligence elettronica su scala nazionale.
Struttura e mezzi dell’Esercito.
Nonostante tutte le difficoltà e gli impegni, il South African Army gode dei favori del magro bilancio della Difesa. È la meglio finanziata delle tre forze armate, visto che intercetta sugli 1,2 e gli 1,4 miliardi di dollari. Il vertice operativo della struttura è costituito dalla Joint Operations Division, da cui dipendono 4 brigate permanenti, di cui due composite. Gli effettivi attuali ammontano a 38.217 uomini, più 14.891 riservisti.
L’ordine di battaglia è articolato su 9 comandi interarma tattici, di livello operativo, ripartiti su unità regolari e riservisti.
I primi, regolari, contano due comandi di brigata, della 43a e 46a, un battaglione RECCE di intelligence tattica, una brigata paracadutista (44a), un battaglione speciale di assalto aviotrasportato meglio noto come 6 Infantry Battalion di Grahamstown, un battaglione blindato anticarro e da ricognizione (1st) su veicoli Rooikat, un battaglione di carri su MBT Olifant, un battaglione di fanteria motorizzata specializzato in missioni anfibie, meglio noto come 9th Seaborne, acquartierato a Città del Capo, 9 battaglioni di fanteria meccanizzata su camion Samil, e veicoli da trasporto truppe Casspir e Mamba, un battaglione di artiglieria, 2 battaglioni antiaerei, più le unità del genio, con una compagnia da ricognizione blindata, un battaglione genieri, un battaglione di supporto e un battaglione da costruzione.
La Reserve Force allinea a sua volta un battaglione parà, 2 di fanteria aeromobile, 4 battaglioni blindo da ricognizione, 3 battaglioni di carri, 5 di fanterie meccanizzate, uno di fanteria motorizzata a vocazione anfibia, 16 battaglioni di fanteria motorizzata, 2 battaglioni di artiglieria semovente su obici G6 da 155 mm, 4 battaglioni di artiglieria su pezzi G-5 da 155 mm, 1 battaglione di mortai da 120 mm, 3 battaglioni contraerei, un battaglione del genio paracadutista e 2 battaglioni del genio. Abbiamo fatto l’elenco intero per capire uno degli elementi chiave della dottrina d’impiego sudafricana.
A seconda dei bisogni operativi, lo stato maggiore può attingere infatti dalle unità regolari e dalla riserva per costituire dei dispositivi combat a livello operativo e tattico, imperniati sul sistema di comando Chaka C2, sviluppato da SAAB Systems South Africa.
Una modularità teorica d’ingaggio che lascia desumere capacità operative degradate, visto che Pretoria si troverebbe in enorme difficoltà a metter su rapidamente una grande unità a livello brigata, sebbene disponga ancora di una buona capacità di proiezione. La dottrina è imperniata sulla capacità di condurre operazioni meccanizzate, anche se nel 2018 solo una cinquantina di MBT Olifant Mk2, Mk1A e Mk1B era realmente operativa.
Obsoleto, l’Olifant (foto sopra e sotto) costituisce lo sviluppo del vecchio carro britannico Centurion. Tutti gli Olifant in grado di funzionare appartengono al 1° reggimento carri di stanza a Bloemfontein. Alcuni sono stati periodicamente aggiornati, sostituendo ad esempio i motori diesel da 12 cilindri Continental con motori da 950 cavalli, migliorando le protezioni passive stratificate degli Mk-2 e Mk-1B, adottando la torretta della Denel LIW con cannone da 120 mm anziché da 105 e un sistema per il controllo del tiro allo stato dell’arte.
Ma si tratta di palliativi, con la precisazione che mancano oggi minacce corazzate frontaliere degne di tale nome. La priorità di procurement non riguarda infatti gli MBT, ma gli IFV e il Badger, un 8×8 chiamato a rimpiazzare i Ratel nell’ambito del progetto Hoefyster. Nonostante i materiali stiano invecchiando rapidamente, il governo sudafricano nicchia.
Il Badger avrebbe dovuto essere già disponibile nel 2015, ma date le risorse scarse non se n’è fatto nulla nemmeno alla scadenza successiva di fine 2016. Confermato nel 2017, il programma prevederebbe ora 236 esemplari intorno al 2022.
Sebbene il trasferimento di tecnologia tra la Finlandia e il Sudafrica sia ormai completato, è molto improbabile che il requisito sia rispettato. L’ordine totale è stato già ridotto da 264 mezzi a 236, con consegne da ultimare entro il 2022. Vediamo allora di conoscere meglio il Badger (nella foto sotto), tanto atteso dal SAA. Parliamo di una versione customizzata del Patria AMV. Tutto è partito nel maggio 2007, quando Pretoria ha commissionato all’azienda locale Denel Land System lo sviluppo di una piattaforma migliorata dell’AMV.
Il contratto è stato firmato nel novembre 2013, per 242 esemplari al costo di 60 milioni di euro. Del mezzo sono previste nove versioni, di cui un IFV armato con cannone da 30 mm CamGun, mitragliera stabilizzata GI-30 e mitragliatrice coassiale in calibro MG 7,62, una versione da comando, una di appoggio di fuoco alla fanteria con mitragliera da 30 mm, mitragliatrice da 12,7 e portamortaio M-10 da 60 mm, una per la lotta anticarro con missili controcarro a guida laser Ingwe e una BAOS (Basic Artillery Observation Systems).
Direttamente importati dalla Finlandia, gli scafi si caratterizzano per una protezione rafforzata a 360°, facendone i mezzi più protetti fra quelli attualmente in servizio. Hanno anche una corazza aggiuntiva sotto il pavimento in funzione anti-mine/IED. Le torrette modulari LCT in diverse configurazioni e i sistemi d’arma sono prodotti localmente da BAE Systems Global Tactical Systems, incaricata di integrarli sullo chassis.
Anche il missile multiruolo controcarro ZT3 Ingwe (Leopardo, nella foto sotto)) che li arma è una specialità tutta locale, di grande successo. Fabbricato dall’azienda al 100% statale Denel Dynamics, l’Ingwe è armato con una doppia ogiva, capace di perforare fino a 1000 mm di blindatura omogenea laminata, oltre a uno strato di blindatura reattiva.
L’azienda descrive il missile da 28,5 kg come capace di auto-determinare la propria posizione nel fascio laser, mantenendo l’assetto sulla linea di mira. In effetti, l’Ingwe può esser sparato in tiro incrociato da piattaforme sinergiche e adiacenti, con un lancio a grande velocità da elicottero e da veicoli in movimento. Misura 1.750 mm in lunghezza e ha capacità a corta (250 m) e lunga portata (5 km).
La torretta armata ALRRT (Armed, Long-range, Reconnaissance Turret) può essere configurata in diversi modi, con quattro missili, oppure con due missili e cannone da 7,62 mm o altro ancora, e può essere integrata su una marea di veicoli, da quelli utilitari leggeri fino ai pesanti come gli IFV, mentre il sistema portatile di lancio permette al missile di esser esploso da treppiede.
Il SAA lo integra come detto su blindo Badger, non appena disponibili, e sui Ratel, ma hanno acquistato l’Ingwe anche l’aviazione algerina, la componente aerea dell’esercito iracheno, l’esercito malese, che ha voluto anche la torretta del Badger per i suoi AV-8, e sembra sia interessata anche l’Arabia Saudita, dopo la firma di un memorandum d’intesa fra Denel Dynamics e il gruppo saudita ITEAC, risalente a uno degli ultimi saloni Africa Aerospace and Defence.
Più che a sostituirli con nuovi mezzi, il governo sudafricano punta a svecchiare alcuni veicoli in uso nell’esercito. Entro il 2020 è previsto il refit dei blindati cacciacarri e da ricognizione della componente corazzata, i famosi Rooikat con cannone da 105 mm. In attesa dei Badger saranno aggiornati anche gli IFV Ratel. Interventi manutentivi sono previsti anche sulla linea degli APC 4×4 Mamba Mk 2/3, sugli MRAP 4×4 Casspir e sui veicoli tattici 8×8 Gecko utilizzati in primis dalle forze speciali e dai parà. Non più di primo pelo è la stessa artiglieria. La componente regolare è basata sul solo 4° Reggimento di Pochefstroom cui si aggiungono i 7 reggimenti della Reserve Force.
Il 4° ha una dotazione di 6 obici trainati da 155 mm G5, con 66 pezzi in riserva, e di 2 semoventi G6 da 155 mm (41 in riserva), più 24 lanciarazzi multipli e missili terra terra Bateleur Mk-2 e 6 Valkiri II da 127 mm (48 in riserva), oltre a 36 mortai pesanti M-5 da 120 mm. L’estate scorsa è stata lanciata una gara per l’acquisizione di nuovi lanciarazzi multipli Type 63. Venendo alla lotta anticarro, quest’ultima si basa oggi su un numero imprecisato di Milan e missili ZT-3 Swift, alcuni montati su Ratel. Le idee ci sarebbero, se non fosse per i fondi.
In aggiunta al rimpiazzo dei Ratel è prevista la modernizzazione dei 6 semoventi G6, avviata con molte remore nella primavera 2017. Oltre che con il SAA, il G6 è in servizio con l’esercito degli Emirati Arabi Uniti, che l’hanno impiegato in Yemen, e con l’Oman. Non è chiaro in che cosa consista l’upgrade dei G6 sudafricani, se non per la parte elettronica e la condotta del tiro. Il SAA prevede inoltre di acquistare nuovi camion per rimpiazzare almeno una parte dei vecchi Samil logistici, entrati in linea più di 30 anni fa.
Ha un requisito per veicoli da trasporto e logistici 4×4 e 6×6 e potrebbe guardare con interesse al dimostratore tecnologico Africa Truck, presentato nel 2016 da Denel Vehicle Systems, per ora un 6×6 per container standard, configurabile anche come 4×4 e 8×8.
E ci sarà da lanciare anche il procurement del programma Warrior, il soldato futuro sudafricano, a cui sta lavorando Denel, azienda molto attenta alle problematiche emergenti dell’intelligenza artificiale.
La dottrina d’impiego sudafricana conta molto sulle fanterie leggere, dopo le lezioni apprese negli anni ’70 e ’80, con combattimenti ardui nel deserto e nella savana, abbinati a rarità di mezzi d’appoggio e di supporto.
Una concezione rafforzatasi negli anni 2000. È questo il motivo principale per cui la SANDF ha un background prezioso nel combattimento con logistica ridotta, appoggi limitati o praticamente inesistenti. I soldati sudafricani sono preparati a rinunciare alle protezioni balistiche in cambio di più munizioni e di acqua. Il programma Warrior non farà che valorizzare questa capacità.
La forza aerea sudafricana fra luci e ombre
Non molto più idilliaca è la situazione della SAAF. Un tempo reputata come una delle forze aeree più efficienti d’Africa, nonostante l’iniziale obsolescenza dei materiali, la SAAF soffre oggi di diversi handicap. Ha solo la forza della storia e dei successi contro gli angolani e i cubani negli anni ’80. Oggi è l’ombra di quella gloriosa aereonautica e potrebbe perdere lo status di forza armata.
Conta poco più di 9.800 uomini e, a dispetto di sforzi costanti, si ritrova con tagli di budget pari al 10% e con un grave carenza di piloti, al punto da essere costretta a tenere in riserva metà circa dei suoi 26 JAS-39. Anche il numero di ore volate è ridottissimo, 14mila e poco più, spesso destinato al trasporto di personalità.
Per esempio, un C-130 e il suo equipaggio servono per trasportare da una base all’altra i bagagli del personale tecnico cubano del progetto Thusano, qualcosa che sottrae in media una cinquantina di ore di volo alle missioni della SAAF. Rimane tuttavia che in una regione del mondo caratterizzata dalla povertà, i pochi velivoli sudafricani permettono ancora al paese di rimanere nel rango delle potenze aeree regionali. All’inizio degli anni 2000, Pretoria è stata infatti il primo cliente export del Gripen di Saab, con 9 biposto e 17 monoposto comprati e consegnati fra il 2008 e il 2012. Tutti i velivoli saranno presto equipaggiati con il missile aria-aria a guida infrarossa e corto raggio A-Darter, prodotto da Denel Dynamics e dalla brasiliana Mectron.
Il missile è concepito per funzionare con il bus elettronico MIL-STD-1553 e con i lanciatori del tipo LAU-7. Oltre ai Gripen sudafricani (e brasiliani) equipaggerà anche gli addestratori Hawk Mk.120 (nella foto sotto), abbinato a un head-up diplay di Elbit Systems.
I sudafricani stanno studiando l’evoluzione dello scenario regionale. In un momento in cui l’Angola dispone già di un’aviazione in grado di mettere in linea caccia con capacità di combattimento Beyond Visual Range, l’Africa del Sud sta ancora sviluppando un missile BVR, il Marlin, già testato e abbastanza promettente ma il cui acquisto non è ancora stato confermato.
Il requisito esiste, viste le ambizioni di potenza di Pretoria, ma i pochi fondi disponibili potrebbero costringere la SAAF a un acquisto in lotti risicati, qualcosa che dispiacerebbe parecchio a Denel, già in difficoltà per la mancanza di commesse da parte della SANDF.
Il problema è il medesimo anche per il missile A-Darter, descritto poco fa e ormai maturo. Lasciando alle spalle i problemi, vediamo le luci. Il 2010 è stato un anno proficuo per la SAAF. Quell’anno, la francese Thales ha integrato sui caccia sudafricani i pod da ricognizione DJRP, subito impiegati per proteggere lo spazio aereo nazionale durante i mondiali di calcio, e utilissimi anche in RDC, nel 2013, nell’ambito dell’operazione Vimbezela, coincisa con il primo dispiegamento di un caccia sudafricano fuori dai confini nazionali dal lontano 1988.
Nonostante le ambizioni, il mandato di Jacob Zuma ha però sostanzialmente rovinato il blasone della SAAF, soprattutto nel settore dell’aviazione da trasporto, che avrebbe dovuto conoscere una seconda giovinezza e invece si ritrova punto e a capo.
Nel 2018, erano inventariati 6 C-130BZ, ma solo tre o quattro erano operativi simultaneamente con il 28° Squadron di stanza a Waterkloof (Pretoria). Un deficit di capacità di proiezione dalle conseguenze drammatiche, che ha inciso molto anche sulla disfatta del piccolo contingente sudafricano nella battaglia di Bangui, e che sta oggi inficiando le forniture regolari al personale in RDC.
Mentre l’acquisto di aerei cargo è un auspicio che tarda a realizzarsi (dopo la cancellazione nel 2009 dell’ordine per l’Airbus A-400M), i C-130BZ in servizio dal 1963 rimangono i soli mezzi di proiezione a lungo raggio della SANDF. Per la sorveglianza marittima, siamo lontani anni luce dall’efficienza reale. Il ruolo è ricoperto ancora da 3 C-47TP Dakota, appartenenti al 35° Squadrone di stanza a Ysterplaat (Città del Capo). Ma l’obsolescenza delle piattaforme è tale che per la sorveglianza oltre le 150 miglia ci sia affida al contributo dei C-130BZ.
Manca completamente in organico qualsiasi capacità di rifornimento in volo, un handicap che azzoppa le missioni a lungo raggio, soprattutto dei caccia, come ricorda l’episodio di Bangui. Migliore senza dubbio è la situazione dell’ala rotante.
La SAAF ha strutturato la componente in 6 squadroni, quattro dei quali (15° di Durban, 17° di Swartko, 19° di Hoedspruit e 22° di Ysterplaat) sono dedicati al trasporto e alla ricerca e salvataggio, uno all’addestramento (87° di Bloemspruit) e un altro al combattimento, ovvero il 16° Squadron di Bloemspruit su 11 elicotteri Rooivalk.
Sviluppato a partire dalla metà degli anni ’80, sulla base della catena dinamica dell’Oryx, la versione locale del Puma, il Rooivalk è il primo elicottero da combattimento sudafricano (Denel). Biposto in tandem relativamente pesante, con una massa massima al decollo di 8,75 t, questo elicottero è stato concepito soprattutto per contenerne al massimo l’impronta logistica. Come il Gripen è stato proiettato un periodo in RDC, con la componente air, con cui ha combattuto contro i ribelli del movimento M23 (https://www.africandefence.net/after-23-years-rooivalks-fire-first-shots-in-drc/).
Il Rooivalk ha un armamento di fattura locale, con 16 missili anticarro ZT-6 Mokopa, fino a quattro missili aria-aria V3C Darter o Mistral, 4 pod per 76 razzi e un cannone Armscor F2 da 20 mm, approvvigionato con 700 colpi. Le turbine sono due Turbomeca Malika 1K2 da 1.904 cavalli di potenza unitaria.
La SAAF utilizza queste macchine per compiti di ricognizione, con una coppia di serbatoi esterni, di scorta, di supporto aereo ravvicinato e nel ruolo controcarro. Completano la componente ad ala rotante le piattaforme da trasporto Oryx, 27 AW-109 e 8 BK-117. Gli AW-109, comprati nel 2005, sono impiegati soprattutto in compiti di search and rescue, evacuazione sanitaria e pattugliamento dei confini, ma hanno un alto tasso di indisponibilità.
Una Marina in difficoltà
La Marina sudafricana conta poco più di 6.800 uomini. Emblematica dello stato della flotta è la situazione della base principale, a Simon’s Town, che ospita le quattro fregate classe Valour (MEKO 200) e i tre sommergibili Type-209/1400. Il personale non è sufficiente e quello in servizio è poco preparato, come insegna la breve storia dei sommergibili più recenti. Il capoclasse, Manthatisi, è entrato in linea nel 2005, il Charlotte Makeke nel 2007 e il Queen Modadji nel 2008. L’opzione per una quarta unità è stata abbandonata per i costi insostenibili. Armati di 14 siluri, i Type-209/1400 sudafricani dovrebbero ricevere a termine missili antinave ed essere equipaggiati con un modulo di propulsione anaerobia.
Sebbene molto giovani e moderni, con un’autonomia di 50 giorni, patiscono la carenza di equipaggi preparati. Un effetto diretto del vuoto capacitivo seguito alla radiazione nel 2003 dei due ultimi sottomarini Daphné. Molte competenze sono andate perdute. Paradosso dei paradossi, una banale inversione di polarità sulle batterie del Manthatisi ne ha bruciato i sistemi, costringendo alla sostituzione delle batterie e a un’immobilità dell’unità per tre anni.
Resta tuttavia che i sommergibilisti sudafricani possono ancora far male. Nel 2007, durante un’esercitazione contro una task-force antisom della NATO, il Manthatisi ha ‘affondato’ una dopo l’altra le unità interalleate, senza mai esser individuato. Ciò nonostante le installazioni della flotta avrebbero urgente bisogno di esser riparate e ammodernate. Un memorandum d’intesa a tal fine è stato stipulato fra Denel Integrated Systems and Maritime e ThyssenKrupp Marine Systems.
TKMS aiuterà la marina nella manutenzione della flotta di superficie e subacquea. A parte le fregate, che sono le uniche navi di primo rango, il Sudafrica dispone di 6 pattugliatori, di cui 3 classe Warrior Reshef e altrettanti lasse Tobie, catamarani da 36 t.
I 3 cacciamine classe River e le due LCU classe Delta 80 completano la flotta di superficie. C’è un unico rifornitore in servizio, classe Drakensberg, e una sola nave idrografica, classe Protea, in servizio dal 1972, che sarà rimpiazzata a breve da un’unità più moderna nell’ambito del Programma Hotel.
Il budget previsto è di 127,7 milioni di dollari e il contratto è stato assegnato al cantiere autoctono South African Shipyards. Il taglio della lamiera è avvenuto a novembre 2018. Parliamo di un progetto di rilevanza strategica, almeno sul piano economico. Pretoria stima infatti a 13 miliardi di dollari i ricavi che potrebbero essere generati dallo sfruttamento delle risorse marine entro il 2033, nel quadro del progetto anti-povertà Pkahisa.
Per ora non ci siamo. La Marina è in sofferenza. Passa in mare 6mila ore appena, anziché le 12mila richieste per un addestramento idoneo, il budget allocato è la metà di quanto necessario e le prospettive sono nere.
Conclusioni
Dovendo fronteggiare un grave e annoso disinvestimento politico e finanziario, la SANDF si trovano oggi in una situazione delicata, antitetica rispetto alle brillanti capacità operative di fine anni ’80.
Nonostante tutto, Pretoria può contare ancora su alcuni margini di manovra, garantiti da volumi di materiali in riserva relativamente importanti, da un minimo di esperienza e know-how con punte di eccellenza in alcuni settori, e da un’industria della difesa performante e internazionalizzata, con un terzo dell’export assorbito dalle commesse saudite ed emiratine e interessanti prospettive di mercato in Iraq e in Egitto.
Foto: Denel. SADF, EPA, GCIS, AFP e Reuters