SPECIALE AFRICA – I flussi illeciti di armi leggere nel continente africano
A gennaio 2017 la 28esima sessione ordinaria dell’Assemblea della Commissione dell’Unione Africana adottava la ‘Master Roadmap for Silencing the Guns in Africa by the year 2020’, una sorta di vademecum di politiche e misure finalizzato a porre fine ai conflitti nel continente e a “silenziare” il potenziale distruttivo delle armi entro la fine di quest’anno.
In vista di questo ambizioso traguardo, insieme a Small Arms Survey la Commissione dell’UA ha intrapreso il primo studio mai realizzato sui flussi di armi illeciti sul continente ‘Weapons Compass, Mapping Illicit Small Arms Flows in Africa’, al fine di promuovere il controllo della proliferazione e circolazione delle armi leggere e di piccolo calibro.
Lo studio si basa oltre che su fonti aperte, tra cui i report dei gruppi di esperti delle Nazioni Unite dal 2011 al 2018, sui dati forniti da ben 21 paesi africani (l’UA è attualmente costituita da 54 stati, l’ultimo di cui – il Sud Sudan — vi è entrato a far parte un anno fa) che hanno risposto ad un questionario elaborato da Small Arms Survey. Ne risultano 6 principali fonti di traffici illeciti, che originano sia dal continente che da attori esterni.
Al contrario di quanto si possa immaginare, l’Africa ha intrapreso negli ultimi anni numerose azioni per allinearsi agli obblighi internazionali in materia di controllo degli armamenti. Nel 2016, delle 52 delle organizzazioni che lavoravano in qualche modo sul controllo delle armi leggere 22 erano localizzate in Africa. Tra queste vi sono la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD) e la Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC).
Anche se sono pochi gli stati che hanno finora messo in atto meccanismi per tracciare o controllare in qualche modo i flussi illeciti, un certo progresso si registra a livello regionale. Numerosi sono gli accordi multilaterali firmati nel continente che hanno come oggetto la limitazione e il controllo delle armi leggere: il Protocollo sulle armi da fuoco della Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale, il Protocollo di Nairobi per la prevenzione, il controllo e la riduzione delle armi leggere e di piccolo calibro nella regione dei Grandi Laghi e del Corno d’Africa, la Convenzione di Kinshasa per l’Africa centrale, e la piu’ innovativa, la Convenzione ECOWAS, che rappresenta un modello per gli altri stati sub-sahariani nel percorso verso il commercio di armi più trasparente e dagli effetti meno dannosi anticipando tra l’altro alcune delle disposizioni del più recente Trattato sul Commercio delle Armi.
I dati sul traffico di armi sono per ovvie ragioni scarsi e particolarmente difficili da reperire. Spesso i flussi sono impossibili da quantificare, perfino a livello approssimativo, a causa della natura molteplice e segreta di tali flussi. Ciò a cui si può ambire è quindi un macro quadro generale di questo commercio sotterraneo sulla base dei dati disponibili raccolti durante la ricerca.
Le informazioni stesse sulla produzione industriale autorizzata e sui trasferimenti d’armi leciti sono frammentarie. Pur in mancanza di dati completi riportati dagli stati, solitamente nel quadro degli obblighi derivanti dagli strumenti internazionali quali il Programma d’Azione delle Nazioni Unite, è noto che in almeno 11 stati africani vengono legalmente prodotte armi leggere, mentre in 18 vengono prodotte munizioni.
La maggior parte si trova in Africa orientale (Etiopia, Kenya, Tanzania, Uganda, Zimbabwe), ma significative capacità produttive esistono anche in nord Africa in Algeria, Egitto e Sudan. Impianti di produzione sono stati identificati anche in Nigeria, Repubblica Popolare del Congo, Sud Africa.
I trasferimenti interstatali d’armi tra paesi africani sono generalmente poco documentati: l’unica piattaforma globale pubblica è quella delle Nazioni Unite (UN Commodity Trade Statistics Database) nella quale vengono riportati i dati forniti dagli stati stessi, anche questi spesso incompleti. Dall’analisi, in ogni caso, emerge che le importazioni verso l’Africa sarebbero nel totale triplicate negli ultimi 20 anni.
Il Nord Africa resta la regione che importa più armi leggere in assoluto, con un totale di 62 milioni di dollari in media all’anno, seguita dall’Africa occidentale con 35 milioni e dall’Africa del sud con 27.
I dati sulla detenzione di armi, sia lecita che illecita, sono ugualmente scarsi. Le stime di Small Arms Survey indicano che i civili detengono più di 40 milioni di armi leggere sul continente, mentre le forze armate e le forze dell’ordine poco meno di 11 milioni. E’ pur vero che studi precedenti avevano fornito stime doppie, per un totale di 100 milioni. In numeri assoluti l’Africa occidentale ha il più alto numero di armi da fuoco detenute da civili sia legalmente che illegalmente (circa 11 milioni) seguita dall’Africa del Nord con 10 milioni e dall’Africa orientale (poco meno di 8 milioni). Ma appartiene all’Africa del Sud la percentuale di diffusione più alta: 9, 4 armi da fuoco ogni 100 abitanti.
Sorprendentemente, l’Africa sembra ospitare meno armi rispetto ad altri continenti: la media per i civili è di 3,2 armi ogni 100 persone rispetto alle 46,2 delle Americhe. In sostanza, vi si troverebbero meno del 5 per cento delle armi detenute dai civili di tutto il mondo.
Le armi illecite entrano nel continente africano ad ogni stadio del loro ciclo di vita. La principale fonte di armi da fuoco in circolazione continua ad essere quelle ereditate dai precedenti conflitti, in particolare le guerre civili della fine degli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio.
Tuttavia, la ricerca indica che vi sono altre fonti importanti come armi prodotte o importate recentemente da paesi terzi o dirottate dai flussi commerciali leciti. A conferma di ciò il sistema iTrace, sviluppato da Conflcit Armament Research, mostra che tra l’1 ed il 3 per cento e delle armi illecite e tra il 9 e il 17 per cento delle munizioni documentate in Somalia e Burkina Faso sono state fabbricate dopo il 2010.
I flussi transfrontalieri sono la principale fonte di armi illecite in tutta l’Africa. A volte si tratta di traffici su piccola scala condotti da piccoli gruppi di criminalità organizzata o da singoli individui in cerca di profitto che riescono ad attraversare i confini spesso in mancanza di controlli alle frontiere o di chiare linee di demarcazione, come accade nelle zone desertiche.
I ripetuti traffici transfrontalieri hanno creato però vere e propri ‘itinerari delle armi’ conosciuti alle popolazioni locali che cumulandosi risultano in volumi piuttosto significativi di armi che vengono poi trafficate nei più vicini teatri di conflitto. Molto conosciuti sono gli itinerari del triangolo confinario tra Chad, Sudan e Libia dove le rotte delle armi si mescolano a quelle dei caravan precoloniali e alle tradizionali rotte commerciali, dei migranti e della droga.
Le armi oggetto di traffico sono anche spesso dirottate dai depositi nazionali. E’ questo il secondo tipo più diffuso di contrabbando. L’esempio più significativo è quello dei flussi di armi che si sono generati dal collasso del governo libico nel 2011, armi che sono ancora oggi scambiate e riciclate in gran parte dell’Africa.
Dopo la caduta di Gheddafi risulta infatti che molte armi siano state saccheggiata dai depositi statali e finite nelle mani di contrabbandieri e milizie. Armi di origine libica sono state ritrovate in più di 10 paesi africani: in gran parte dei vicini del nord Africa/Sahel, ma anche in Somalia e nella Repubblica Centrafricana.
La messa in sicurezza degli stock è un problema per quasi tutti gli stati della regione del Sahara/Sahel. Armi provenienti dai magazzini nazionali della Costa d’Avorio ma anche dal Chad e dalla Repubblica Democratica del Congo sono stati recentemente ritrovati nella Repubblica Centroafricana. Casi di ‘fughe’ dagli stock si registrano praticamente in tutte le regioni, inclusi i paesi che non sono stati recentemente toccati da conflitti e che hanno politiche di gestione delle armi relativamente avanzate, come Madagascar e Sud Africa, come riportano regolarmente i giornali locali.
Gli attori del commercio illecito, transfrontaliero e non, sono tra i più vari e comprendono, altre ai gruppi armati, piccoli produttori locali, soldati che hanno servito nelle missioni di peacekeeping e funzionari statali corrotti disposti a vendere o rivendere le armi che possedevano quando erano in servizio.
Una dimensione più ‘locale’ ma diffusa è quella dei traffici tra comunità transfrontaliere che sono abituate da decenni a procurarsi armi – anche in quantità ingenti — per motivi di autoprotezione. E’ il caso per esempio dei gruppi pastorizi ai confini tra Kenya, Uganda e sud Sudan.
Possibilità maggiori di muovere le armi attraverso più confini le hanno ovviamente le organizzazioni terroristiche, come dimostrano i gruppi legati ad al-Qaeda in Africa occidentale. Ad esempio, la missione delle Nazioni Unite in Mali ha individuato che le armi da fuoco utilizzate negli attacchi del 2015 da parte del gruppo jihadista/criminale al-Murabitun sono state utilizzate in successivi attacchi di diversi gruppi legati ad al-Qaeda nello stesso Mali (Gao e Bamako), Burkina Faso e Costa d’Avorio.
Le armi trafficate in maniera illecita possono anche provenire da civili che se le erano verosimilmente procurate in maniera legale. Questo è un fenomeno particolarmente arduo da misurare dato che spesso mancano proprio le fonti. Un’ analisi fatta sulle notizie riportate dai media sudafricani indica che nel paese tra il 2015 e il 2017 venivano rubate in media 20 armi al giorno, di cui si sono poi perse le tracce. Questo può dare l’idea delle proporzioni del fenomeno.
Un aspetto molto poco conosciuto ma significativo è quello delle armi che spariscono (per perdita, furto o dirottamento) dalle operazioni di peacekeeping intraprese dalle Nazioni Unite o da altre organizzazioni. Solo nelle operazioni nel Sudan e Sudan del Sud i caschi blu inseriti in queste missioni hanno “perso” 500 armi e più di 750.000 proiettili. Si tratta di equipaggiamenti per la maggior parte prodotte fuori dall’Africa e che come effetto collaterale delle missioni di pace entrano in circolazione nel continente.
La proliferazione dei piccoli artigiani delle armi è una delle più grandi minacce che l’Africa si trova ad affrontare. Secondo la ricerca, capacità di produzione di armi artigianali esistono e sono ben sviluppate in quasi metà dei paesi africani, con l’eccezione dell’Africa del Nord. Le armi prodotte e messe in circolazione in questo modo sfuggono solitamente ad ogni controllo.
Questo tipo di produzione illegale appare concentrata in Africa occidentale, dove in almeno 12 paesi vengono prodotte armi fatte a man: Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Mali, Mauritania, Nigeria, Niger, Senegal, Sierra Leone e Togo.
In Ghana, la produzione artigianale ha assunto proporzioni preoccupanti e comprende anche la fabbricazione di munizioni. In Costa d’Avorio avviene quasi esclusivamente in maniera clandestina come suggerisce uno studio della stessa Commissione Nazionale sulle armi leggere. Spesso, parte del commercio transfrontaliero ha ad oggetto queste armi artigianali come avviene proprio tra Ghana e Costa d’Avorio.
Le armi prodotte variano da fucili da caccia rudimentali (come per esempio in Mauritania o in Africa del sud) ad armi da fuoco anche sofisticate: non è impossibile per esempio reperire buone copie dei fucili da assalto, soprattutto provenienti dalla Nigeria.
In molti paesi africani, il possesso di armi fatte a mano è piuttosto comune e associato ad una questione di status sociale e tradizioni locali. Spesso, però, sono queste ad essere le più usate per commettere dei crimini. Nel caso del Ghana, l’80 per cento dei crimini viene perpetrato con armi artigianali. In Nigeria, queste armi sono detenute dal 20 per cento dei possessori di armi nelle zone rurali. Il business delle armi “fatte a mano” è piuttosto fiorente anche se di minori proporzioni anche in tutta l’Africa orientale, in particolare in Kenya, Madagascar, Malawi, Mozambico, Sud Sudan, Tanzania e Zimbabwe.
Anche se la maggior parte di armi trafficate proviene dal continente stesso, le fonti esterne non mancano. Dirottamenti dei trasferimenti di armi convenzionali sono ben noti nel contesto degli embarghi. Il continente africano è sia destinatario che fonte di trasferimenti illeciti in violazione di questi ultimi. Da un lato, sono soprattutto stati del Medio Oriente ad aver violato le norme sul divieto di esportazione di armi verso i paesi sotto embargo in Africa, come nel caso della Libia, Sud Sudan, Somalia a Repubblica Centrafricana.
A partire dal 2011, oltre alle armi saccheggiate dai depositi di Gheddafi, sono confluiti in nord Africa ingenti carichi di armi anche da fonti esterne, in particolare dal Qatar attraverso campi rifugiati in Tunisia ma da altri paesi del Golfo tra cui gli Emirati Arabi Uniti. Dall’altro lato, i flussi illeciti di armi dalla Libia, in particolare prima del 2014, non erano diretti solamente verso altri paesi africani ma anche verso il Medio Oriente, in particolare Siria e Gaza. I trasferimenti illeciti in violazione degli embarghi provengono anche (seppur in misura molto minore) dal vecchio continente, soprattutto dall’Ucraina.
Trasferimenti verso la Somalia sono avvenuti, oltre che dalla Libia e da altri paesi africani (Sudan, Etiopia, Eritrea e Gibuti) anche dalla Corea del nord, Iran e Yemen. Numerosi sono anche i flussi bilaterali tra Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centrafricana, entrambe sottoposte a embargo.
Un fenomeno relativamente nuovo ma piuttosto dilagante è la proliferazione di armi da fuoco convertite.
Un traffico che permette la circolazione di armi ad un costo molto basso inizialmente documentato in Nord Africa, in Libia in particolare, per poi espandersi in vaste zone del continente africano. Massicce spedizioni di fucili prontamente convertibili inviati dalla Turchia sono state recentemente intercettate in rotta verso Egitto, Libia, Gibuti, Sudan e Somalia. Nel 2017, 25.000 pistole ‘imitate’ sono state sequestrate a Kisimayo in Somalia.
La partecipazione piuttosto limitata degli stati africani nelle piattaforme internazionali di scambio informazioni e dati non ha impedito lo sviluppo di pratiche lodevoli per il contenimento della proliferazione dei traffici illeciti d’armi, spesso di carattere transnazionale o transfrontaliero.
Ad esempio, una commissione transfrontaliera con mandato di sorveglianza dei traffici illeciti è stata stabilita tra Kenya e Etiopia, mentre tra Chad e Sudan vige un accordo di cooperazione interstatale in materia.
Anche le strategie di sicurezza macro-regionali come quella dell’Unione del fiume Mano contengono politiche volte ad affrontare a livello interstatale il problema. Ma sono le operazioni congiunte tra gli Stati e le organizzazioni internazionali ad aver avuto il maggior successo; è il caso di Trigger III, massiccia operazione di sequestro di armi illecite condotta nel 2017 da Interpol insieme all’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il Crimine e l’Organizzazione Mondiale delle Dogane in 9 paesi dell’Africa Occidentale che ha portato al recupero di 152 armi da fuoco illecite e all’arresto di 50 individui.
Con questo articolo si conclude lo SPECIALE AFRICA di Analisi Difesa che ha raccolte nel mese di Giugno numerosi articoli, notizie e approfondimenti di autori diversi dedicati ai tema della Difesa&Sicurezza africana.
Questi i testi pubblicati:
Il lento declino del Sudafrica di Francesco Palmas
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La morte di Droukdel e il punto sull’Operazione Barkhane di Francesco Palmas
Contractors contro jihadisti in Mozambico di Pietro Orizio
Londra prolunga la missione degli elicotteri Chinook in Mali
L’impatto del COVID-19 sulla sicurezza in Africa di Sigrid Lipott
I contractors sudafricani perdono un altro velivolo in Mozambico
Lo Stato Islamico si espande nel continente africano di Francesco Palmas
Lo studio di ICSA sul jihadismo in Africa ai tempi del Covid-19