Quel legame tra terrorismo e sport da combattimento
All’indomani dell’annuncio del suo ritiro dalle arti marziali miste (MMA), il campione dei pesi leggeri UFC, Khabib Nurmagomedov è tornato a far parlare di sé con un post estremistico contro il presidente francese Macron.
Qualche giorno prima era emerso che Abdoullakh Anzorov, il ceceno che a Parigi ha decapitato il professor Samuel Paty per le vignette su Maometto, si era allenato in una palestra di lotta sospettata di radicalizzazione.
Per non parlare di Stefano Costantini, pugile professionista svizzero con passaporto italiano e foreign fighter di al-Qaeda preso in custodia dalle nostre forze dell’ordine in Turchia, in questi giorni.
Un legame, quello tra arti marziali, sport da combattimento, radicalizzazione e terrorismo che riemerge con gli ultimi di una lunga serie di episodi che mettono in relazione l’11 Settembre 2001, la maratona di Boston, il fenomeno dei foreign fighters e retunees, il movimento Antifa e neonazisti ad alcune discipline sportive popolari.
La casistica non manca, però di annoverare anche casi eroici e a lieto fine che, ahimè, sono passati decisamente più in sordina: da Usman Raja, cittadino britannico che de-radicalizza facendo combattere sul ring o nella gabbia, ai due atleti di MMA che a Vienna, durante l’attacco del 2 novembre, non hanno esitato a rischiare la propria vita per salvare delle persone.
Spesso ci si affretta a stigmatizzare gli sport da combattimento, generalizzando su fatti negativi che hanno visto implicati loro praticanti, tuttavia, non si prende mai in considerazione l’efficace ruolo che possono giocare nella prevenzione della radicalizzazione e del terrorismo. Questo, a fronte di numerosi limiti mostrati da altri modelli di de-radicalizzazione più “convenzionali”.
Khabib “The Eagle” Nurmagomedov
“Possa l’Onnipotente sfigurare il volto di questa creatura e di tutti i suoi seguaci che, sotto lo slogan della libertà di parola, insultano i sentimenti di più di un miliardo e mezzo di credenti musulmani. Possa l’Onnipotente umiliarli in questa vita e nella prossima. Allah è rapido nei calcoli e lo vedrete. Siamo musulmani, amiamo il nostro profeta Maometto (che Allah lo benedica) più delle nostre madri, padri, figli, mogli e tutte le altre persone vicine al nostro cuore. Credetemi, queste provocazioni ritorneranno a loro, la fine è sempre per i timorati di Dio”.
Questo il post su Instagram con cui il campione imbattuto dei pesi leggeri UFC, il daghestano Khabib “The Eagle” Nurmagomedov è tornato a far parlare di sé dopo l’annuncio del suo ritiro dalle MMA. L’attacco, che ha suscitato grande scalpore, è stato rivolto al presidente francese Emmanuel Macron reo, secondo il fighter caucasico, di aver mancato di rispetto all’Islam e ai musulmani nel suo discorso dopo l’attacco terroristico del 29 ottobre a Nizza.
Nato nel 1988 a Sildi, Daghestan Khabib Nurmagomedov ha iniziato a praticare le arti marziali fin da piccolo, allenato dal padre che voleva indirizzarlo verso un percorso alternativo all’estremismo islamico tanto diffuso nella regione. Attualmente è il secondo atleta musulmano più famoso al mondo, nonché il cittadino russo più seguito su Instagram con più di 26 milioni di followers.
Un’influenza, questa spesso utilizzata per promuovere il suo pensiero radicale ed ultraconservatore. Nel 2018, ad esempio, ha proposto la chiusura di tutti i locali notturni del Daghestan – definiti un business inutile – dopo che un poliziotto fuori servizio vi era rimasto ucciso in un conflitto a fuoco, oppure le critiche mosse al concerto del duo rap azero Aliyev e Bakirov, tenutosi nella capitale Makhackala.
Il clima intimidatorio generato dalla sua presa di posizione ha portato, il mese successivo, il rapper Egor Kreed a cancellare il suo tour nella regione per le minacce ricevute. Ancora, nel 2019 ha aspramente contestato una commedia in cui una donna in lingerie seduceva un uomo.
Il campione UFC ha definito la scena “sporca”, ha chiesto un’indagine governativa sull’accaduto e preteso un mea culpa pubblico degli organizzatori; il produttore ha ricevuto anche una valanga di minacce sui social. Nurmagomedov, la cui moglie appare raramente in pubblico ed immancabilmente velata, ha espresso, infine commenti sessisti sulle atlete UFC: “Per le donne, ho un consiglio molto buono, siate fighters a casa vostra.”
Per questi episodi e per l’eccesiva reazione al discorso di Macron, in cui l’inquilino dell’Eliseo difendeva nient’altro che le libertà di culto e di espressione, “The Eagle” è stato accusato di censura, estremismo ed incitamento alla violenza per motivi religiosi.
La grande popolarità degli sport da combattimento nella cultura caucasica consente a Khabib Nurmagomedov e ad altri atleti di esercitare una forte influenza sul panorama socio-politico della regione. Questo, grazie ad appassionati del calibro dell’autoritario presidente della vicina Cecenia, Ramzan Kadyrov che ha fatto delle MMA un punto cardine della sua politica o ai milioni di fans pronti a scagliarsi contro i destinatari delle critiche del campione.
Tra di essi un’irrequieta diaspora ceceno-daghestana che, organizzatasi attorno a palestre di sport da combattimento ed arti marziali in tutta Europa, annovera centinaia di volontari tra le fila dell’ISIS, nonché numerosi omicidi politici soprattutto in Francia e Germania.
Anche alla luce delle velleità non ancora abbandonate di un Emirato Islamico del Caucaso, già costate una sanguinosa guerra civile, ogni dichiarazione o presa di posizione di un fighter così influente dovrebbe essere maggiormente ponderata.
Palestre francesi a forte rischio
Il sito web estremista azzam.com, chiuso dopo l’11 Settembre, aveva dato ampio risalto all’importanza delle arti marziali per la guerra santa, diffondendo un manuale che indicava come prepararsi all’azione. “E’ fondamentale iscriversi in una palestra di arti marziali per l’addestramento alla jihad,” elogiandone anche i vantaggi in termini di autodisciplina. “Quando siete ai corsi…” prosegue il manuale “…tenete per voi le vostre opinioni, non condividetele o non discutetene con nessuno. Dovete andarci per addestrarvi al jihad e non per richiamare gente all’Islam.”
E ancora: “In alcuni Paesi vi sono palestre di arti marziali gestite da istruttori musulmani, in mancanza, ci si può iscrivere anche in altri posti.”
Gli investigatori francesi hanno così riscontrato che, ormai da anni, molte palestre di judo, MMA, kickboxing ed altre arti marziali o sport da combattimento vengono frequentate sia da aspiranti terroristi per prepararsi al combattimento o potenziali tali, che da reclutatori per rinfoltire i propri ranghi.
Nel luglio 2015 il Servizio Centrale d’Informazione Territoriale francese ha redatto un rapporto dal titolo “Lo sport amatoriale veicola settarismo e radicalizzazione”, mentre nel 2016 Médéric Chapitaux, ex gendarme, sociologo e direttore tecnico della federazione di arti marziali FFKMDA ha pubblicato il libro “Lo sport, una falla nella sicurezza dello Stato”. Entrambe le pubblicazioni mettono in guardia sulla radicalizzazione e proselitismo negli sport amatoriali, in particolare nelle palestre di sport da combattimento ed arti marziali delle banlieu e quartieri periferici; non solo di città francesi come Parigi, Marsiglia e Lione, ma anche europee – soprattutto tedesche – ed altre in tutto il mondo. Ha fatto loro eco l’allora ministro dello sport, Patrick Kanner ribadendo come la Francia abbia completamente sottostimato tali rischi.
In molte palestre i fondamentalisti prendono di mira quei giovani vulnerabili che nella pratica delle arti marziali e sport da combattimento trovano un rifugio da situazioni di disagio famigliare e scolastico.
Questi ragazzi iniziano così a coprire sempre più morbosamente il loro corpo, sia durante le attività che sotto la doccia, rifiutano di allenarsi con persone del sesso opposto o di fare sparring con correligionari, utilizzano tappeti di preghiera prima e dopo gli allenamenti, nonché spogliatoi e locali vari come luoghi di culto. Indicatori di potenziali processi di radicalizzazione in corso o conclusi che, spesso, chi insegna o allena nelle palestre non comprende, non percepisce come tali, lascia correre per non essere tacciato di razzismo o, addirittura, incentiva per conto di gruppi radicali o terroristici.
Ed è proprio in questo contesto che, aggiunge Chapiteaux, la possibilità di “influenzare mente e corpo” degli atleti rende le figure di istruttori, allenatori e maestri quanto mai sensibili.
E’ questo il caso di Said Itaev, campione internazionale di lotta di origini cecene, sottoposto all’obbligo di dimora e di firma perché sospettato di reclutare giovani da inviare in Siria. Restrizioni allentate dopo un mese per permettergli di prendere parte al campionato francese di lotta, con la squadra di cui era allenatore.
E ancora, Frederic-Jean Salvi che ha radicalizzato Pierre Choulet e Yassine Salhi. Choulet, teenager convertitosi all’islam dopo aver incontrato Salvi in palestra, si è immolato alla guida di un cambion-bomba nel febbraio 2015 in Iraq. Salhi, invece era iscritto in una palestra di arti marziali di Besançon e nel giugno 2015 ha decapitato Herve Cornara, proprietario di una società di Lione per cui aveva lavorato. Salvi è attualmente istruttore di sport da combattimento a Leicester, Regno Unito.
Abdoullakh Anzorov, il diciottenne di origini cecene che ha decapitato a Parigi il professore Samuel Paty (nella foto a lato, il carnefice a sinistra e la vittima a destra) per aver mostrato ai suoi alunni le vignette su Maometto, invece aveva frequentato un corso di lotta a Tolosa tra il 2018-2019, in una palestra sospettata di radicalizzazione. Tale club era già finito nel mirino di France Télévisions nel marzo 2018, con un reportage che raccoglieva la testimonianza di una giovane atleta.
Invece della t-shirt ufficiale della Federazione di Lotta o degli shorts, su richiesta dei responsabili della palestra, la ragazza doveva indossare maglie a maniche lunghe e pantaloni che coprissero braccia e gambe. Inoltre, il numero di donne nella palestra era diminuito da 10 ad 1 in poco tempo e solo a bambini e a non musulmani era permesso di allenarsi con lei.
Nella casistica francese non sono mancati, però dei falsi positivi. Quando l’atleta di MMA di origini cecene Magomed Guekhaiev aveva esultato per una vittoria nel 20016, oltre ad un contestato “Allahu Akbar” (“Dio è il più grande”), qualcuno l’avrebbe sentito dedicare la vittoria anche a Salah Abdeslam e Mohamed Merah; terroristi che avevano rispettivamente colpito la Francia in occasione delle stragi di Parigi del 2015 e della scuola ebraica di Tolosa, il 19 marzo 2012. In realtà, Guekhaiev non ha mai pronunciato quei nomi, bensì il celebre saluto arabo “As-salamu alaykum” (la pace sia con voi).
L’11 Settembre 2001
Il dirottamento dei quattro aerei schiantatisi contro le Torri Gemelle, Pentagono ed in Pennsylvania è avvenuto, sostanzialmente, con dei taglierini e la minaccia di utilizzo di esplosivi. Situazioni tanto estreme quanto ravvicinate, in cui padroneggiare le tecniche di un’arte marziale o sport da combattimento, costituiva una skill assolutamente non indifferente.
Mamdouh Habib, cittadino egiziano/australiano ha confessato di essere stato l’istruttore di arti marziali degli attentatori dell’11 Settembre ed al corrente dell’intera operazione.
Tuttavia, non è mai stato formalmente imputato dagli Stati Uniti per alcun reato, in quanto avrebbe confessato sotto tortura in Egitto ed Afghanistan, nell’ambito del programma Extraordinary Renditions; salvo poi ritrattare. Le accuse sarebbero, inoltre state ritenute infondate: Habib era solamente una cintura gialla di karate e quindi non in grado di addestrare al combattimento.
Nel cestino dei rifiuti di una delle stanze del The Panther Motel di Deerfield Beach, Florida dove almeno 7 degli attentatori dell’11 Settembre avrebbero soggiornato, sono stati ritrovati manuali di pilotaggio del Boeing 757, mappe ed anche un manuale di arti marziali.
E’ emerso inoltre che Bert Rodriguez, esperto di arti marziali, ha impartito lezioni di autodifesa al dirottatore Ziyad Jarrah, presso la palestra di Dania Beach, Florida. Zacarias Moussaoui poi, il cosiddetto “ventesimo attentatore” ed unico ad essere arrestato, aveva programmato di seguire un corso di arti marziali in vista dell’attacco.
Infine, prima di diventare uno dei più grandi manager della UFC, Ali Abdelaziz faceva parte di un’organizzazione estremistica di nome Jammat al-Fuqra – conosciuta anche come Muslims of the Americas (MOA) – ai cui membri insegnava arti marziali. Dopo essere stato arrestato due volte (la prima per ingresso negli USA con un passaporto falso e la seconda per reati collegati ad al- Fuqra), Abdelaziz è diventato per qualche anno un informatore del Dipartimento di Polizia di New York e dell’FBI.
Temendo un doppiogioco, tra il 2008 e il 2010 le autorità hanno smesso di collaborare con lui. La sua storia è stata utilizzata dall’atleta UFC, Conor McGregor per attaccare il manager del suo avversario, Khabib Nurmagomedov durante una conferenza stampa nel 2018. McGregor ha definito Abdelaziz un “ratto, spia e terrorista” che “è stato prelevato da un volo Il Cairo-New York l’11 Settembre 2001” ed “è stato trovato in possesso di 5 passaporti”.
In realtà, il manager di origini egiziane aveva prenotato un biglietto – con il falso nome di Robert Britton – dal Cairo a New York l’11 Settembre 2001, poi cancellato a causa degli attacchi. Nonostante non siano emerse prove di collegamenti diretti tra Abdelazziz ed al-Qaeda, nella storia del manager UFC permangono misteri e coincidenze inquietanti, oltre ad essere, assieme al suo entourage, sotto costante “sorveglianza” per rapporti con estremisti, criminali e leader autoritari caucasici.
I fratelli Tsarnaev
I fratelli ceceni responsabili delle bombe alla Maratona di Boston del 15 aprile 2013, Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, erano atleti di sport da combattimento. Tamerlan, rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia quattro giorni dopo l’attacco, era un pugile, mentre Dzokhar, arrestato dopo una grossa caccia all’uomo, era nella squadra di lotta del liceo.
Il sogno di Tamerlan Tsarnaev era quello di rappresentare gli Stati Uniti alle Olimpiadi. Sebbene fosse – a detta del proprietario della palestra in cui si allenava – “uno dei top boxers del New England”, Tamerlan si è visto precludere l’accesso alla selezione per le Olimpiadi per ben due anni consecutivi: il primo nel 2009, a causa della vittoria assegnata all’avversario, nonostante un match completamente dominato e la seconda nel 2010 quando, pur avendo vinto il Golden Gloves del New England, è stata introdotta una clausola d’esclusione per i non cittadini americani. Per Tamerlan è stato un colpo durissimo: ha lasciato completamente il pugilato, la musica e le amicizie.
Nell’ultima sua visita alla palestra, due giorni prima delle bombe alla maratona di Boston, appariva profondamente cambiato: arrogante, aggressivo, maleducato, camminava sul tatami con le scarpe ed usava materiale altrui senza chiedere il permesso. Si era inoltre tagliato la folta barba fatta crescere durante l’isolamento in cui era sprofondato a causa del fallimento sportivo.
Altri Paesi, altri casi
Il 3 febbraio 2015 Alan Chekranov, campione di MMA tagiko è stato ucciso da un drone nei pressi di Kirkuk, Iraq. Il fighter 21enne ha vinto per tre volte i campionati nazionali nella categoria dei 54 kg di peso.
Stessa sorte è toccata a Reyaad Khan, 20enne di Cardiff, Galles ucciso da un drone britannico in Siria il 21 agosto 2015. Prima di trasferirsi nello Stato Islamico, attraverso duri allenamenti di MMA, Khan si è rimesso in forma e preparato a combattere.
L’ex atleta di MMA e rapper tedesco Deso Dogg è apparso in diversi video propagandistici e di decapitazioni dell’ISIS. Incaricato di reclutare cittadini di lingua tedesca, è stato listato come terrorista internazionale dagli Stati Uniti.
Molti video di reclutamento dell’ISIS mostrano, inoltre esibizioni in una gabbia di MMA, lasciando tuttavia trasparire un livello tecnico dei fighters molto scarso.
Nel 2016 la KSW, organizzazione polacca di MMA ha espulso Aziz Karaoglu (nella foto a lato) da una competizione per il suo ingresso sul ring, infliggendogli anche una multa di 189.000 euro.
L’atleta tedesco di origini turche aveva, infatti deciso di salire sul ring sulle note di Na’am Qaatil, inno di gruppi islamici radicali come Daesh e al-Qaeda. Karaoglu si è difeso definendo l’accaduto un errore degli organizzatori dell’evento.
Zelim Imadaev e Albert Duraev, due fighters ceceni di MMA hanno sostenuto su Instagram la decapitazione del prof. Samuel Paty, definendo il suo assassino “un eroe” e accusando la Francia di provocazione.
Italia: il Kick boxer dell’ISIS ed il pugile di al-Qaeda
A fine aprile 2016 Abderrahim Moutaharrik (nella foto sotto), kickboxer 28 enne residente a Lecco, è stato arrestato assieme alla moglie e altre due persone per aver pianificato un attentato contro il Vaticano e l’ambasciata israeliana di Roma. Secondo i piani avrebbe dovuto trasferirsi in Siria con la moglie e i due figli, per poi tornare e colpire nella Città Eterna. Moutaharrik, italo-marocchino con un passato da sbandato e riabilitatosi grazie alla kickboxing che praticava in una palestra di Lugano, è stato campione svizzero dei pesi welter nel 2013 e 2014.
Pochi giorno dopo il suo arresto, avrebbe dovuto combattere nella Notte dei campioni di Seregno. Emblematica la sua tenuta per salire sul ring: keffiyeh e maglia nera raffigurante la bandiera dell’Isis. Condannato a sei anni di reclusione per associazione con finalità di terrorismo, per la prima volta dall’entrata in vigore del Decreto Sicurezza, nell’agosto 2018 è stata applicata nei suoi confronti la revoca della cittadinanza italiana che aveva ottenuto nel 2015. Alla fine della sua pena, nel 2022, sarà espulso così come recentemente accaduto alla moglie, rimpatriata in Marocco.
In questi giorni agenti della Direzione centrale della Polizia di prevenzione e della Digos di Pescara si sono recati ad Hatay, Turchia per prendere in custodia Stefano Costantini, pugile professionista con passaporto italiano. Nato in Svizzera nel 1996 da una famiglia di origini abruzzesi e residente a San Gallo, aveva disputato 4 match di pugilato tra il 2011 e il 2013 nella Swiss Boxing; federazione elvetica che gli ha conferito anche due onorificenze per meriti sportivi.
Dopo essersi convertito all’Islam ed aver intrapreso un rapido percorso di radicalizzazione, nel 2014 Costantini è partito per Idlib, Siria per combattere a fianco dei qaedisti di Jabhat al-Nusra. Sebbene abbia cercato di difendersi dichiarandosi pentito e limitando il suo ruolo a quello di maestro di matematica ed inglese per gli orfani, secondo gli investigatori esistono prove del reale sostegno dell’ex pugile alle fazioni terroristiche ed il pericolo che possa compiere attentati; Costantini è stato pertanto tradotto nel carcere di Teramo. In Siria, lascia la moglie tedesca di origini turche, sposata poco prima di partire e 4 figli di 2, 4, 5 e 10 anni; quest’ultimo avuto dalla moglie in una precedente relazione.
Skinhead Vs Antifa
Le arti marziali non vengono strumentalizzate solo in ambito jihadista; esse trovano un’ampia popolarità anche tra formazioni di estrema destra e sinistra. La pratica delle arti marziali è particolarmente radicata nell’ultradestra che sta così “allenando e professionalizzando la propria violenza.” L’allarme è stato lanciato recentemente dai servizi d’intelligence di diversi Paesi tra cui Germania, Repubblica Ceca e Svizzera.
Neonazisti e suprematisti bianchi si allenano in diversi sport da combattimento per poter prevalere sugli Antifa e forze dell’ordine durante le proteste. In rete è, infatti circolato il video di una manifestazione dell’agosto 2018 a Chemnitz, Germania in cui un estremista di destra ha atterrato un poliziotto con una doppia presa alle gambe – double leg takedown – tipica della lotta o della MMA.
I gruppi di estrema destra britannici Britain First e National Action si sono rivolti ad istruttori di MMA per allenare i propri militanti in appositi training camp. In Francia il gruppo Génération Identitaire ha aperto Agogé, una palestra di pugilato per permettere ai propri “patrioti” di imparare a difendersi dai crimini dei migranti.
Nei casi più estremi vengono allestite delle vere e proprie palestre per allenarsi a future guerre di razza. Il Rise Above Movement o RAM, gruppo suprematista bianco californiano si è addirittura fregiato del titolo de “la più importante palestra di MMA della destra estrema.”
E’ stata dimostrata, inoltre l’esistenza di un network internazionale di gruppi neonazisti che collega le due sponde dall’Atlantico ed organizza tornei di MMA; il più famoso dei quali è “la Battaglia dei Nibelunghi.”
Tenutosi clandestinamente a partire dal 2013 a Ostritz, Sassonia l’evento, che prevede incontri di K1, kickboxing, pugilato e MMA, nel 2018 ha visto la partecipazione di 850 persone, tra pubblico e atleti, provenienti da tutta Europa ed anche dagli USA. Un’occasione, oltre che economica e d’intrattenimento, per promuovere ideologie, soprattutto tra i giovanissimi; una manifestazione da cui tutte le federazioni ed associazioni di sport da combattimento tedesche hanno preso le distanze.
I legami con gruppi neonazisti hanno precluso l’esordio in UFC di Benjamin Brinsa, peso welter tedesco nel 2013 e, a luglio di quest’anno, al suo allievo Timo Feuch. A poche ora dal suo match, Feuch è stato sostituito per dei fatti in cui era stato coinvolto nel 2016: fermato per gli scontri ad una manifestazione contro l’immigrazione a Lipsia a gennaio ed arrestato per possesso illegale di armi a settembre.
Attraverso le MMA e palestre di sporta da combattimento, estremisti di destra sono stati reclutati anche per la Guerra del Donbass, inquadrati nel battaglione Azov dell’Esercito ucraino (nella foto sotto)
Sull’altro versante troviamo, invece gruppi antifascisti violenti che seguono allenamenti di arti marziali con l’obiettivo di prepararsi a manifestazioni, proteste e scontri con i propri antagonisti di destra e forze dell’ordine in vari Paesi. Una preparazione ritenuta talmente utile per creare spazi “discrimination-free” da essere pubblicizzata addirittura su volantini e materiale propagandistico, da mettere a disposizione dei giovani in appositi camp antifascisti disseminati in diversi Paesi: Russia, Ucraina, Repubblica Ceca, Grecia, Spagna e Italia.
Anche in questo caso possiamo parlare dell’esistenza di un network di militanti di sinistra che, nato inizialmente in maniera spontanea per difendersi dalle aggressioni di gruppi di destra, oggi è estremamente coordinato, organizzando anche eventi sportivi internazionali. L’obiettivo principale, però resta comunque quello di vincere per strada; non sul ring.
Emblematica in tal senso la White Tiger Muay Thai Camp, palestra antifascista di Atene. Il fondatore ed istruttore principale, Ilias Lamprou è stato una figura di spicco del movimento anarchico, attivo in Grecia, Palestina, Libano e Italia. Attraverso la sua palestra egli intende insegnare a difendersi dalla polizia e dagli estremisti di Alba Dorata. Nella sua concezione, non è possibile separare l’atletismo dalla politica e palestre come la White Tiger permettono di negare il monopolio di certe discipline a razzisti e fascisti; i quali non meritano nemmeno il rispetto sportivo concesso agli avversari.
Gli eroi degli sport da combattimento
Sebbene passati decisamente più in sordina, diversi sono stati gli attacchi in cui praticanti di sport da combattimento si sono distinti per eroismo e sprezzo del pericolo.
Tra i passeggeri del Volo 93 della United Airlines che l’11 Settembre hanno deciso di ribellarsi ai dirottatori e ricatturare l’aereo vi era Jeremy Glick, ex agonista e campione di judo. Il suo intervento e quello di altri, ha spinto i dirottatori a far schiantare il Boeing 757 al suolo in Pennsylvania, risparmiando presunti obiettivi ben più prestigiosi come la Casa Bianca o il Campidoglio.
Il 21 agosto 2015, su di un treno in viaggio da Amsterdam a Parigi, tre cittadini americani – 2 militari ed un civile – ed un britannico hanno fermato l’azione di un terrorista. Dopo i primi spari, l’aviere di prima classe Spencer Stone, praticante di jiu jitsu, si è avventato sull’attentatore e l’ha immobilizzato con una presa di strangolamento. Prima di perdere i sensi colpito dall’altro militare americano, l’attentatore è comunque riuscito a ferire Stone con un coltello. I tre americani sono stati insigniti della Legione d’onore, la più alta onorificenza francese.
La sera del 3 giugno 2017 Geoff Ho (nella foto sotto), giornalista del Sunday Express, nonché appassionato e praticante di arti marziali – kung fu, kickboxing e difesa personale – era nel centro di Londra per il consueto aperitivo post-lavoro con amici.
Dopo essere intervenuto in difesa di un passante importunato da due ubriachi, è entrato in un ristorante. Poco dopo, vi hanno fatto irruzione i tre terroristi dell’attacco al ponte di Londra, armati di coltello. Rifiutatosi di sdraiarsi a terra con gli altri avventori, Geoff Ho ha ingaggiato una feroce colluttazione con i tre malintenzionati, nella quale ha riportato una grave ferita al collo. I terroristi se ne sono andati senza fare del male a nessun altro.
Il 2 novembre 2020 Recep Tayyip Gultekin e Mikail Ozen, atleti di MMA di origini turche hanno messo a repentaglio la propria vita per prestare soccorso ai feriti dell’attacco terroristico di Vienna. I due hanno affrontato il fuoco del terrorista per mettere al riparo un’anziana ferita e per trascinare fino ad un’ambulanza un agente di polizia colpito e privo di sensi.
Conclusa l’azione, in cui tra l’altro Gultekin è rimasto ferito ad un polpaccio, i due si sono presentati alle forze dell’ordine per fornire dettagli sul terrorista in fuga. Per il loro comportamento, i due fighters hanno ottenuto un riconoscimento dall’ambasciatore turco in Austria ed una telefonata di congratulazioni da Erdogan.
De-radicalizzare sul ring
Un metodo di de-radicalizzazione tanto insolito quanto efficace è quello elaborato da Usman Raja (nelle foto sotto), ex lottatore professionista e allenatore di origini pakistane, con cui l’autore di questo articolo ha avuto un lungo colloquio telefonico.
Residente nel difficile quartiere di East London, con la sua palestra di MMA Raja aiuta radicalizzati e giovani a rischio ad abbandonare la violenza e a reintegrarsi nella società. Dopo aver iniziato a salire sul ring a metà degli anni 90, quando molti suoi coetanei e correligionari partivano per combattere a fianco dei musulmani di Bosnia, anche Raja aveva abbracciato una visione radicale.
Tuttavia, grazie agli insegnamenti di un imam tollerante, si è convinto a mettere la testa a posto. Ma non solo; quando nuovi volontari hanno iniziato a partire per Afghanistan ed Iraq, Raja ha deciso di avviare il suo programma di recupero. Nel 2009, assieme alla moglie e ad un gruppo di volontari, ha fondato The Unity Initiative, associazione per la de-radicalizzazione e promozione del pluralismo nel Regno Unito. Con la decapitazione del soldato Lee Rigby nel 2013 a Londra, il suo lavoro è aumentato esponenzialmente.
Si è fatto, così sempre più carico di alcuni tra i più irriducibili casi del Regno Unito, con un alto livello di successo. In una decina di anni è riuscito a de-radicalizzare più di 50 ex detenuti per terrorismo e 180 giovani musulmani che avevano intrapreso un percorso di radicalizzazione. Più recentemente, la sua attività si è concentrata sui returnees di Siria e Iraq, trattandone almeno 30. L’efficacia del suo metodo si aggira attorno al 9 per cento e nessuno è stato riarrestato per recidiva.
Mentre i convenzionali programmi cercano di convincere i radicalizzati ad abbandonare la loro ideologia, Raja mira a connettersi con loro. In questo le MMA sono fondamentali: vanno di moda, permettono di mettere in discussione la propria idea di sé stessi, di aprire la mente e di creare delle forti relazioni personali. A partire dal carcere si conquista la fiducia dei radicalizzati e si gettano le basi per un rapporto che si consoliderà successivamente, allenandosi anche tutti i giorni, 5-8 ore a settimana o combattendo in gabbia. Si sviluppano così anche motivazione, autodisciplina ed un senso civico con cui si cerca di disinnescare le argomentazioni religiose ed ideologiche. Raja preferisce parlare di “re-radicalizzazione,” in quanto non si cerca di ridurre la loro devozione, ma di trasmettere una visione pacifica e tollerante dell’Islam.
A supporto della buona riuscita dell’approccio la legittimità di un Islam predicato sulla base degli insegnamenti del mentore di Raja, l’autorevole religioso malese Shaykh Ali Abdul Qadir al-Tahiri il cui lignaggio verrebbe fatto risalire addirittura al Profeta.
Tra i casi di successo più significativi, quello di Ali Beheshti, ex numero due del gruppo britannico pro-al Qaeda e poi ISIS al-Muhajiroun. Beheshti è stato condannato a 4 anni e mezzo di carcere per un attacco incendiario all’abitazione dell’editore di A’isha, l’amata di Maometto: romanzo sulla moglie bambina del Profeta, ritenuto blasfemo.
Quello di Jordan Horner che, appartenente ad una “pattuglia Musulmana” che cercava di imporre la Sharia in alcune zone di Londra, è stato condannato per aver accoltellato degli uomini che bevano alcolici per strada. Il metodo di Raja ha attirato l’attenzione di Quilliam, think tank londinese contro l’estremismo islamico che gli ha affidato la gestione di programmi di sensibilizzazione. Dopo due anni però, nel 2008 ha lasciato l’incarico perché ritenuto troppo lontano dalle strade e dai suoi obiettivi.
Il successo di Raja dipende, infatti anche dall’essere un “prodotto” dello stesso ambiente difficile dei radicalizzati e soggetti a rischio, di parlarne lo stesso linguaggio e di godere, così di un rispetto ed autorevolezza che non vengono riconosciuti ad altri.
Essi restano impressionati dal suo passato nelle MMA, dal fatto che non riceva finanziamenti pubblici e dalla sua sincera volontà di aiutarli. Anche i servizi segreti di Sua Maestà, il Dipartimento di Polizia di Los Angeles ed il centro antiterrorismo di West Point hanno mostrato interesse per la sua attività. Il tutto non si riduce, infatti ad un seppur importante lavoro di de-radicalizzazione, ma anche far acquisire a soldati, poliziotti e guardie carcerarie una maggior comprensione del fenomeno che stanno affrontando.
Altra iniziativa quella della Not in God’s Name (NIGN), ideata dal politologo Alexander Karakas e dal Thai boxer Karim Mabrouk nel 2015. Situata in una palestra di arti marziali di Vienna, l’ONG si basa sul contatto diretto con adolescenti, gran parte dei quali musulmani e migranti. Dopo aver riscontrato tra i giovani sportivi una diffusa simpatia per idee radicali ed estremistiche, si è pensato di utilizzare figure di riferimento dello sport come testimonials contro violenza e radicalizzazione.
Sono stati così accuratamente selezionati atleti di arti marziali ed elaborati specifici programmi per guidare i ragazzi nella giusta direzione, confutando i messaggi divulgati dai reclutatori dell’ISIS ed altri gruppi radicali.
Un approccio simile è anche quello adottato da alcune palestre di pugilato del nostro Paese che, più che alla radicalizzazione, si rivolgono alla prevenzione e contrasto di criminalità minorile e baby-gangs; le cause alla radice, infatti sono le stesse o cambiano di poco. In realtà come la Napoliboxe, dal 1995 si tolgono dalla strada i ragazzi a rischio: viene fatto fare loro un match ogni 15-20 giorni, tenendoli impegnati e lasciandoli andare solo con la forza sufficiente per tornare a casa. Si insegna loro che nella boxe, così come nella vita, non esistono strade alternative e bisogna, quindi allenarsi e fare sacrifici.
Alcune considerazioni
Arti marziali e sport da combattimento presentano delle caratteristiche che li rendono particolarmente attrattivi e vulnerabili a radicalizzazione e terrorismo. Prevedono una preparazione al combattimento corpo a corpo, sono economici da praticare, sempre più di moda e piuttosto diffusi in contesti sensibili, tra giovani con determinate problematiche famigliari ed economiche.
I più vulnerabili si trovano ad affrontare, spesso da soli, crisi di identità, d’appartenenza, motivazionali e relazionali. Condizioni che, opportunamente strumentalizzate, sia direttamente che indirettamente, posso innescare un processo di radicalizzazione; cognitiva prima, violenta o, addirittura, terrorismo poi.
Allo stesso tempo, però queste discipline sportive si caratterizzano per un potenziale di prevenzione, contrasto e de-radicalizzazione molto elevato, preso solo parzialmente in considerazione.
Per quanto riguarda la prevenzione, arti marziali e sport da combattimento conferiscono ai giovani quella fiducia, autostima e ricerca costante di miglioramento che consente loro di lavorare in squadra, superare i pregiudizi, cogliere opportunità ed assumere un proprio ruolo attivo ed inclusivo nella società.
Il tutto coltivando relazioni positive, in un ambiente – la palestra –contraddistinto da lealtà e correttezza. Fondamentale in questo approcciò è il ruolo di istruttori, allenatori e maestri in grado di far emergere i lati positivi dei propri atleti, sia come sportivi che come uomini o donne.
In fatto di contrasto, proprio per le relazioni strette che vengono a crearsi, un istruttore, allenatore o maestro può individuare rapidamente quelle situazioni atipiche e sintomatiche di un processo di radicalizzazione concluso o in corso.
Senza pretendere che si sostituiscano alle forze dell’ordine, ma nemmeno che siano totalmente impreparati al riguardo, a chi lavora in palestra dovrebbe essere fornita un’opportuna sensibilizzazione e chiavi di lettura per situazioni che potrebbero incontrare con i propri allievi, al netto di possibili e frequenti falsi positivi: come comportarsi davanti al rifiuto di allenarsi o relazionarsi con persone del sesso opposto, inasprimento di discorsi, il velo o un particolare abbigliamento indossato anche durante la pratica sportiva, il far crescere la barba ecc.
Funzionare, insomma come sensori passivi ed ausiliari della sicurezza comune; un ruolo che con il terrorismo molecolare nessuno stakeholder della società civile può esimersi di assumere.
Negli ultimi tre anni abbiamo assistito al fallimento di alcuni programmi di de-radicalizzazione. Si pensi al tentativo francese di creare degli appositi centri naufragato in soli 5 mesi nel 2017, ad Usman Khan che fino al novembre 2019, prima di uccidere due persone ed essere a sua volta ucciso a Londra, era considerato caso di successo del programma britannico, oppure a Kujtim Fejzulai, l’attentatore di Vienna che è riuscito a colpire non appena uscito dal programma di de-radicalizzazione a cui era stato sottoposto.
Il modello di de-radicalizzazione di Usman Raja, almeno per il momento, invece ha avuto un successo molto alto; tale da pensare di adottarlo su scala nazionale ed internazionale per fare realmente la differenza. Questo perché, attraverso gli sport da combattimento, si potrebbe intervenire considerevolmente e rapidamente anche su quelle situazioni di esclusione sociale e risentimento alla base di radicalizzazione e terrorismo. Tutto ciò con un minimo investimento economico da parte delle autorità, ma con un forte impegno e determinazione da parte dei principali attori coinvolti.