La caduta dell’impero ottomano: le radici della politica di Erdogan
In molti suoi recenti discorsi, il presidente turco Recep Erdogan (che sembra avere momentaneamente accantonato l’idea di entrare nella UE, eventualità d’altra parte remota in quanto la Turchia non ha ancora risolto la questione di Cipro, la cui parte settentrionale è stata occupata nel 1973; quella armena, relativa al riconoscimento ufficiale della strage compiuta tra il 1915 e il 1918, e quella curda, relativa alla concessione di un’autonomia politica e non solo amministrativa) ha rispolverato l’idea di “ricostruire una nuova Turchia sulle basi ideologiche panturaniche”.
Ma di che cosa si tratta? E soprattutto, in che modo il ‘panturanismo’ (movimento culturale e politico asiatico dei primi decenni del XX secolo, che aspirava alla fusione di tutte le popolazioni turaniche, comprese quelle dell’Asia centrale), potrebbe incidere positivamente sul rilancio del Paese anatolico? Innanzitutto, facciamo luce sul termine, assai poco noto.
All’inizio del XX secolo, il panturanismo, inteso come ideologia nazionalista, venne abbracciato dal Movimento dei Giovani Turchi impegnato nell’opera di modernizzazione e rafforzamento dell’ormai traballante impero ottomano. L’intento dei Giovani Turchi e di altre sette nazionaliste ottomane era quello di ‘occidentalizzare’ e ridare compattezza etnico-religiosa e politica all’impero e – contrariamente a quanto era stato tentato dai sultani tra il XIV e il XVII secolo – di estenderne nuovamente i confini in parte ad ovest, cioè verso i Balcani e l’Europa, ma anche in direzione delle regioni centro-asiatiche del mitico Turan.
A questo proposito, lo scienziato della politica Samuel Huntington, nel suo noto libro, Lo scontro delle civiltà, avvalora e giustifica di fatto questa ambizione, indicando proprio nella Turchia “il possibile stato-guida del mondo islamico, soprattutto centro-asiatico”. Eventualità, questa, che se dovesse verificarsi, potrebbe allontanare l’Anatolia dal Vecchio Continente. Pur continuando a rivolgersi principalmente all’Europa, il presidente turco Recep Erdogan sembrerebbe intenzionato a giocare una difficile partita su due tavoli, per preservare gli interessi filo-occidentali di parte dell’élite di governo, per non scontentare il “ventre” islamico del Paese e per proiettare le proprie ambizioni in direzione di un Califfato turco interessato ad inglobare vaste aree centro asiatiche turcofone.
In buona sostanza, da una parte egli desidera, infatti, continuare a puntare su Bruxelles, mentre dall’altra egli lavora per trasformare il suo paese in un nuovo “impero panturanico” moderno (si consideri il sostegno da lui dato nel maggio 2007 alla candidatura presidenziale di un elemento legato all’ala religiosa governativa, l’allora ministro degli Esteri Abdullah Gul, fortemente avversato dai militari), ma al contempo sensibile nei confronti delle revanches del variegato mosaico islamico mediorientale.
Come ha bene illustrato il professore Alessandro Grossato, docente di Storia ed istituzioni dell’Asia Meridionale presso l’Università di Trieste e Gorizia, oggi come oggi, soprattutto in vista dei nuovi accordi internazionali per la creazione di grandi oleodotti che dovrebbero dirottare l’oro nero dall’Asia Centrale all’Anatolia, la Turchia sta da tempo accelerando, attraverso intese economiche e culturali, un processo di penetrazione ( in realtà politica e ideologica) in quest’area strategica, giocando magari sui disaccordi esistenti tra le altre potenze (Cina, Russia, Stati Uniti): ipotesi che, tuttavia, Erdogan – attualmente impegnato nel consolidamento della sua leadership – sembra essere intenzionato a ‘mimetizzare’.
Pur vantando origini relativamente antiche, il panturanismo rappresenta ancora oggi un fondamentale aspetto dell’ideologia del Milliyetçi Hareket Partisi (o MHP, Movimento di Azione Nazionale), e specialmente della fazione ultranazionalista dei Bozkurtlar (i Lupi Grigi. Acceso sostenitore dell’ideale panturanico è anche un altro gruppo ultranazionalista e xenofobo, il Nizami Alem (l’Ordine dell’Universo), noto per avere fornito sostegno in funzione anti-russa agli indipendentisti ceceni e per essere legato alle organizzazioni fondamentaliste islamiche libanesi.
Effettivamente, negli anni Novanta, il panturanismo ha giuocato un ruolo piuttosto significativo nell’ispirare i primi capi della ribellione cecena contro il governo centrale di Mosca, anche se in seguito questo movimento separatista ha preferito spostarsi su posizioni jihadiste, legandosi ad organizzazioni fondamentaliste più vicine ai talebani afghani e ad Al-Qaida.
In precedenza, negli anni Settanta, a scoprire e ad utilizzare in funzione antisovietica lo “spirito panturanico” erano stati gli USA, e nella fattispecie l’entourage del presidente statunitense Jimmy Carter che si fece promotore di una crociata sotterranea a favore della rinascita panturanica: scelta dichiaratamente antirussa, poi perseguita da tutti gli altri leader della Casa Bianca, fino ad arrivare a George Bush senior.
È ormai noto come tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso – in concomitanza con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e, successivamente, nel contesto della rivolta antimoscovita cecena – la CIA abbia appoggiato in maniera decisa sia i movimenti musulmani panturanici sia quelli jihadisti. E come successivamente la politica filoturanica del presidente George Bush abbia contribuito a rafforzare i legami di amicizia tra Washington e le repubbliche centro-asiatiche, sia in funzione antirussa, sia, questa volta, in funzione antifondamentalista islamica.
A questo proposito, gli americani avrebbero a quel tempo scelto la carta panturanica (e quindi filoturca) come mezzo per tentare di immunizzare una parte del mondo islamico dal “contagio” di Al-Qaida e dell’Isis, impegnate nella lotta armata contro l’Occidente e i governi musulmani apparentemente o realmente filo occidentali (come quelli di Arabia Saudita, Pakistan, Egitto e Turchia). L’intento di Washington era quello di porre un argine (anche attraverso una politica filo panturanica e filo panturchista) ad un fenomeno politico-religioso che nella sua dimensione in quanto transnazionale sembra ormai avviato verso un’evoluzione globalizzatrice, coinvolgendo non tanto le istituzioni governative, ma soprattutto le masse diseredate del multiforme pianeta islam.
Come ha giustamente annotato la studiosa Valeria Fiorani Piacentini. “Se si esamina il mondo musulmano nel nuovo contesto neo-fondamentalista, si può evincere che negli anni immediatamente successivi alla fine del bipolarismo USA-URSS la vera minaccia alla sicurezza dell’islam nasceva non tanto dall’esterno – ossia da una possibile aggressione dell’Occidente – quanto dall’interno, ossia dall’islam stesso. (…) Il fenomeno del colonialismo tradizionale si era concluso nel 1991 con la disintegrazione dell’impero sovietico e la nascita delle nuove entità statuali caucasiche e centro-asiatiche. Uno scenario che lasciava intravedere uno scontro a livello di concezioni di statualità fra loro incompatibili all’interno dello stesso pensiero politico-strategico dell’islam. Da un lato si schierarono gli establishment sostenuti da una o altra potenza occidentale; dall’altro, si poneva una fascia d’opposizione non compartecipe al potere ma compartecipe del sapere tecnologico e delle tecnologie più avanzate di questo potere. Nel mezzo, stavano le ondeggianti masse dei diseredati, degli illusi, dei miserabili aggrappati alle certezze del sapere tradizionale”.
L’ingresso nel nuovo millennio ha messo quindi le leadership dei paesi musulmani di fronte alla necessità, non più procrastinabile, di adeguare i propri sistemi di potere a fronte dell’incalzare dei modelli occidentali: una situazione che di fatto li ha però posti fra l’incudine e il martello. “L’incudine rappresentata da un islam risorgente e insorgente che ha accesso alle tecnologie del nuovo millennio e che gode del sostegno delle masse, e il martello rappresentato da un processo di modernizzazione secolarizzante imposto dall’esterno, si veda il “modello turco”. In questo contesto, il rischio è rappresentato da una serie di rivoluzioni fondamentaliste a catena. E il tutto nonostante l’esistenza, vedi la Turchia, di modelli istituzionali di stampo “occidentale”.
Tratto dal libro di Alberto Rosselli: “La caduta dell’impero ottomano”
Fonte: Alma News 24