Repubblica Centrafricana: dai processi contro i massacri ai nuovi scenari
“Ci ordinarono di pugnalarlo…. Ci è stato chiesto di pugnalarlo e di tagliargli l’orecchio … Quando il prigioniero era esausto scavavamo una fossa poco profonda, all’altezza di circa un ginocchio, lo mettevamo dentro e poi i capi tornavano e lo uccidevano…“: così si esprime un bambino-soldato, in una sofferta testimonianza che il procuratore Karim Khan ha riportato in una recente udienza davanti alla Corte penale internazionale.
Nelle aule dell’Aja sono iniziati gli attesi processi che riguardano crimini contro l’umanità, di cui si è forse persa la memoria. Si tratta delle più gravi violenze commesse nel teatro dei conflitti interetnici e interreligiosi del continente africano. I procedimenti appena iniziati dopo anni di istruttoria sono due: il primo ha come imputato Mahamat Said Abdel Kani, noto come “Mr Said”, comandante del gruppo dei Seleka; il secondo vede imputati Eugène Ngaïkosset e Alfred Yekatom, “comandante Rambo”, entrambi leader degli anti-Balaka. I fatti si riferiscono alla guerra civile scoppiata del 2013 e del 2014.
Prima del 2012, musulmani e cristiani vivevano insieme pacificamente nella Repubblica Centrafricana. Ancora una volta la ricostruzione dell’accusa del procuratore Karim Khan è essenziale: le due comunità convivevano senza conflittualità. “Sono cresciuti insieme, si sono sposati ed erano vicini, amici e membri delle stesse famiglie. La violenza cronica che aveva flagellato il paese per decenni non li aveva mai divisi lungo linee religiose. Ma tutto questo è cambiato alla fine del 2012”. Nel 2013, le milizie islamiste dei Seleka, (“coalizione”, in lingua sango) lanciano nel Nord del Paese un’offensiva contro il governo di François Bozizé Yangouvonda che riescono a spodestare.
Una volta al potere, i Seleka attuano una politica di aggressioni e di terrore, prendendo di mira i sostenitori di Bozize. Nei mesi successivi le diffuse atrocità spingono molte comunità, in particolare quelle cristiane, a difendere sé stesse contro il dominio dei Seleka. Si costituisce la coalizione degli anti-Balaka (“contro gli Ak-47”, l’arma russa usata dai seleka), composta soprattutto da combattenti cristiani del Sud. In loro prevale l’odio contro i seleka, ma anche un desiderio di vendetta contro la popolazione musulmana, accusata di sostenere le loro violenze.
La testimonianza di un ex combattente Anti-Balaka è eloquente: “Sotto il dominio Seleka, la gente si sentiva impotente e questo ha innescato la creazione dell’Anti-Balaka. Inizialmente, le persone si riunivano solo per proteggersi, quando i Seleka entrarono nei villaggi, uccisero uomini, donne e bambini. Alcuni giovani sono riusciti a fuggire e si sono organizzati per difendersi. Se prendi 100 Anti-Balaka, ognuno ha le sue ragioni per aver aderito al gruppo. Ciascuno può dirvi ciò che i Seleka hanno fatto loro per trasformarli nell’Anti-Balaka …”.
È una guerra civile senza regole, in cui il conflitto non si limita alle parti in lotta, come vorrebbe il II protocollo delle Convenzioni di Ginevra anche per i conflitti armati interni. I Seleka sono i primi ad aver commesso massacri contro la popolazione civile cristiana ma gli anti-Balaka reagiscono perpetrando altrettanto gravi atrocità contro i civili musulmani. Entrambi i gruppi terrorizzano il paese adoperando gravissime forme di tortura e violenze di ogni tipo, anche nei confronti di donne e bambini, e costringendo spesso le due comunità ad esodi forzati. Secondo il Global Conflict Tracker, dal 2013, circa 585.000 hanno dovuto lasciare le loro case per rifugiarsi in Camerun e nella Repubblica Democratica del Congo. La stima dei morti a causa del conflitto non è certa ma si parla di migliaia di persone.
Nelle prime udienze il procuratore Khan ha formulato le accuse più gravi nei confronti dell’Office Central de Répression du Banditisme (OCRB), e del centro di detenzione Comité Extraordinaire pour la Défense des Acquis Démocratiques (CEDAD), entrambi sotto la supervisione di Mahamat Said, il leader dei seleka.
I suoi aguzzini praticavano sistematicamente le percosse, le frustate, e martoriavano le vittime con pinze e strappando i lobi strappati. In particolare adoperavano l’odiosa forma di tortura dell’arbatachar: le mani sono legate dietro la schiena, insieme con caviglie e gomiti, per contorcere il corpo umano e provocarne un dolore crudele da cui derivano spesso la paralisi e la cancrena.
Le accuse riguardano anche il coinvolgimento in numerosi stupri e violenze sulle donne, fra cui quella ai danni di una ragazza di 12 anni. Nei confronti del comandante militare degli anti-balaka, Yekatom, l’accusa principale è quella di avere coinvolto i bambini-soldato.
La fase critica dei massacri si è interrotta nel 2014 con la missione Minusca delle Nazioni Unite, presente ancora oggi con 12.000 peace-keepers. Ma nonostante cambi di regime, insurrezioni e altri accordi di cessate-il-fuoco, il paese è ancora in un clima di tensioni, in cui si inserisce anche la presenza della controversa società militare privata russa Wagner.
Il Ministero degli esteri russo ha sostenuto che i suoi “istruttori” stanno operando legalmente su richiesta della Repubblica Centrafricana, dove hanno contribuito a un “significativo aumento della capacità bellica dell’esercito nazionale, come risulta evidente dalle numerose perdite inflitte ai gruppi armati”.
Esponenti del gruppo di lavoro sui mercenari del Consiglio per i diritti umani dell’Onu sostengono invece che i contractors russi e gli altri stranieri affiliati “sono coinvolti in violazioni dei diritti umani e forse in crimini di guerra”. La stampa internazionale e diversi analisti parlano di un loro coinvolgimento in interessi poco chiari nel controllo delle miniere d’oro e di diamanti. E si sostiene che i leaders centrafricani, nel rinunciare alla tutela francese, di fatto sono ostaggio del gruppo Wagner, da cui dipendono per mantenere la sicurezza e il potere.
Ad ottobre il Presidente Faustin Touaderà ha annunciato una tregua unilaterale, per favorire la conciliazione tra i nuovi gruppi in lotta, dove sono riemerse le conflittualità anche legate al possesso della terra e dell’acqua, in una situazione economica e sanitaria già d’emergenza, ora aggravata dalla pandemia.
L’ultima strage è avvenuta il 16 novembre, quando, il gruppo ribelle 3R, Return, Reclamation, Rehabilitation, al mercato settimanale della domenica a Mann, nel nord del paese, ha causato la morte di 11 civili, 9 uomini e 2 donne, e ferito altre 8 persone.
La storia della Repubblica Centrafricana, al secondo posto delle nazioni meno sviluppate al mondo nonostante gli aiuti umanitari, i diamanti, l’oro, gli idrocarburi e ora i “minerali rari”, è ancora storia di miseria, terrore e massacri per i suoi 4, 8 milioni di abitanti.
Foto Minusca e Twitter