La farsa della ricostruzione: senza vittoria, senza pace, senza piani
Nessuno me ne voglia, ma la conferenza per Kiev, senza molta malizia, restituisce tante istantanee che delineano prospettive poco ideali ma molto concrete. Intanto, per mettere un sigillo valido ma impolitico alla guerra, sarebbe necessario che gli europei indebolissero l’industria bellica di Mosca, rafforzando le difese aeree ucraine con sistemi multistrato e consentendo attacchi in profondità nell’entroterra russo.
Di fatto, Zelensky è un uomo solo; lo è così tanto da essere ancora costretto a sostenere evidenti necessità militari, a profondersi in ringraziamenti di circostanza a cui non si è mai accompagnata, né mai accadrà, alcuna apertura russa a negoziati di pace. Un’Europa politicamente più presente costringerebbe Trump a non escludere il vecchio continente dagli abboccamenti con Putin; il problema purtroppo sta nell’avverbio, ed è sostanziale. La politica europea è una contraddizione in termini. Mentre l’Occidente singhiozza e si indigna, Lavrov invoca smilitarizzazione e denazificazione ucraine.
Il sostegno a Kiev non ha nessuna strategia dietro, non è parte di nessun piano capace di porre fine alla guerra con un accordo plausibile; è solo un sistema per tenere attaccato alle macchine un Paese in coma, aggredito e costretto a tornare all’età della pietra.
Ah, la politica. Avercela, magari anche solo accettabile, visto che il buono appartiene a dimensioni inarrivabili. La pace è molto distante e l’unica soluzione percorribile è quella coreana, un armistizio senza trattati che consegna la Crimea a Mosca.
Pragmaticamente, si è messa in moto l’ennesima cohalition of willings, volenterosi sì ma anche pratici in quanto a rapporti di potenza internazionale, pronti a sostituirsi ai giochi americani, alle sceneggiate da studio ovale. Alla luce di queste premesse, separare la conferenza di Roma dalle iniziative dei volenterosi sarebbe poco saggio: l’impossibilità di fermare la guerra fa sì che le due imprese si integrino, il che porta ad accettare sia il prolungamento della guerra, sia la necessità di rendere l’economia ucraina più pronta e tenace, un disegno che gli europei dovranno sostenere da soli, pronti a confrontarsi con un regime che non soffre di risibili angosce esistenziali come quelle che affliggono l’ovest. Insomma, guerra ed economia devono rimanere interdipendenti.
L’Italia, per quanto ha potuto, ha fatto e fa la sua parte; quel che a molti riesce impossibile comprendere è che la storia non si cancella con un colpo di spugna, e che il respingimento, tra gli altri, di un ministro della Repubblica da parte di entità politiche più o meno riconosciute, non è bega da cortile, ma questione nazionale da affrontare in modo bipartisan. Del resto, disapprovare le politiche di sostegno a Kiev e criticare l’assenza fisica alle riunioni dei volenterosi, indica una schizofrenia politica che avvalora, roda o no, i dubbi altrui su coerenza e costanza.
A Roma ha presenziato anche Joseph Keith Kellogg Jr., l’inviato speciale americano, il che sta a testimoniare un possibile segnale di mutamento di posizione di Washington, che non a caso ha fatto partecipare il suo rappresentante anche ai convegni dei volenterosi. Non è escluso che anche Trump cominci ad averne abbastanza delle giravolte del Cremlino.
A Roma l’intento è stato quello di riesumare gli intenti del piano Marshall. Che detto così sembra facile. Difesa, gas, export, sono solo alcuni dei temi oggetto dei circa 200 accordi stipulati alla Conferenza, per un valore di circa 10 miliardi di euro; altri investimenti equivalenti saranno (forse) sbloccati grazie alle garanzie previste dallo European Flagship Fund for the Reconstruction of Ukraine. Insomma, tantissime iniziative in ogni campo, ed anche di livello, con molteplici possibili sinergie, auspicabilmente produttive. Il problema, alla fin fine, non è stato determinato dall’assenza di Macron e Starmer, impegnati nella bilaterale di Londra ma, tra gli altri, dai dubbi sul sostegno militare, finanziario ed economico italiano, dovuto sia per i vincoli di bilancio, sia per le posizioni dell’opinione pubblica, tra le più restie in Europa al sostegno a Kiev. La retorica adottata da Londra e Parigi lascia immaginare che si desideri giungere ad una nuova-vecchia relazione speciale per cui, a fronte dei revisionismi, gli anglo-francesi si assumano una responsabilità peculiare per la sicurezza continentale, come dichiarato da Macron; del resto è stata l’incostanza americana ed il suo atteggiamento mercantile verso gli alleati ad obbligare gli inglesi a riconsiderare il rapporto con l’Europa post Brexit. Insomma, Francia e Inghilterra sono obbligate a muoversi in armonia se vogliono riuscire a fronteggiare contemporaneamente Putin e Trump, provando a sfilare a Mosca una vittoria data per certa.
Argomento spinosissimo: ma quanto denaro serve? Tanto, per la Banca Mondiale oltre 600 miliardi di dollari, un volume così imponente che non si può e non si deve deve escludere l’investimento privato visto che la piattaforma per le donazioni è rimasta priva di leadership politica e di spirito imprenditoriale. L’anno scorso, a Berlino, sono stati raccolti appena 16,5 miliardi di euro: una goccia nel mare, che evapora ulteriormente dopo una serie di notti tra le più pesanti tra quelle vissute in Ucraina, con droni e missili giunti fino al confine polacco, ed in previsione di una nuova offensiva a sud, su Zaporizhzhia e Kherson.
Il problema è che l’Europa rischia di rimetterci senza ottenere molto, visto che USA, Turchia e qualche BRICS sono già pronti all’incasso, non l’Italia che ha saputo depotenziare da sé il suo nucleo produttivo, e che il mitico Green Deal, che tutti invidiano, non serve assolutamente a niente per la ricostruzione. Volendo immaginare un ritorno alla produzione di grano viene difficile immaginare, negli immensi campi ucraini, trattori e macchine elettrici, in fila alle colonnine, posto che si riesca a sminare il paese. Insomma, attenzione, perché è assolutamente possibile che non si guadagni quel che si spera, perché gli americani stanno già parlando con gli ucraini da tempo, e perché la guerra, malgrado tutto, gli oligarchi non li ammazza, come è sempre stato.
Roma, dovrà dimostrare che le conferenze sono comunque utili, visto che le precedenti a Lugano, Londra e Berlino hanno confezionato il vuoto ripieno di nulla, cosa difficile, visto che una strategia economica è stata finora assente e che gli investimenti privati sono rimasti ai margini. Che un organismo di controllo e coordinamento sia necessario è evidente, come farlo funzionare un po’ meno, visto che non potrebbe comunque eludere i meccanismi istituzionali delle singole nazioni. Non impossibile, ma molto difficile, visto che poi qualcuno dovrebbe pur comandarlo, cassa e contratti compresi.
A proposito di soldi, rimane sul tappeto il problema dei beni statali russi sospesi nel sistema finanziario internazionale, circa 300 miliardi di dollari, di cui 50 utilizzati come garanzia per un prestito targato G7. Visto che, eccetto UK e Canada, tutti sono restii all’uso di quel denaro, la situazione, al di là dei bei discorsi, rimane bloccata. Il problema è che, secondo natura, il capitale è vigliacco, e va dove non ci sono rischi.
Riusciremo almeno a giungere (non concludere, per carità), ad una conferenza di pace? Difficile; come tante altre cose, magari anche più gradevoli, si fa in due, e se uno dei due non vuole, o se le condizioni sono ampiamente inaccettabili per logica e per diritto, tutto il resto è fuffa; in molti casi, visto che anche di possibili mediatori validi non ce ne sono, bisogna prendere atto che il 1938 non ha insegnato niente, e che si è pronti alla svendita di una nuova Cecoslovacchia, purché si faccia presto; affari loro, sperando non diventino mai affari nostri. Tanto per rimanere nel comico, si è anche sollevata l’eccezione della decadenza del mandato presidenziale ucraino; il che è vero, ma pensare che si sarebbero potute tenere regolari consultazioni sotto i bombardamenti rievoca il clown Pennywise di IT quando Stephen King gli fa promettere palloncini. Il che in effetti non fa ridere un granché.
Il problema potrebbe rinvenirsi, molto antipaticamente, nell’appartenenza o meno al club dei sostenitori di Kiev; diciamo la verità, si tratta di un tentativo poco polite, ma del tutto comprensibile. E se risultasse non del tutto inclusivo ma funzionante? Gli affari sono affari; sui termini, più o meno lunghi, ci si può anche lavorare.
Roma ha lasciato da riflettere sulla portata di simboli e concretezza, ambedue presenti nelle relazioni internazionali. Se è vero che la ricostruzione può sicuramente apparire prematura, non è nemmeno accettabile lasciare Kiev nella percezione politica del definitivo abbandono. Attenzione poi ai facili moralismi, visto che tutti i maggiori produttori internazionali stanno guardando con attenzione all’evoluzione dei fatti, a meno che non si desideri continuare a rinverdire la vittimistica tradizione nazionale delle fregature postume. Non sembra azzardato pensare che si possa trattare dell’ennesima occasione per dimostrare l’appartenenza ad un preciso campo senza ondeggiamenti, che poi magari è proprio quello che gli altri attori attendono di vedere.
Di fatto, la retorica della coesione a chiacchiere non ha portato a nulla, visto che peraltro è gratuita o che ha formulato affermazioni insensate: ma che significano un cessate il fuoco giusto, o il ricorso al multilateralismo? L’UE non è da meno; mentre a Roma si discute di ricostruzione, la Slovacchia fa ostruzionismo sulle sanzioni alla Russia ed il segretario di Stato USA incontra Lavrov.
Marshall ha lavorato da vincitore a guerra finita, qui non si sa ancora.
Foto: presidenza del consiglio dei ministri
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