14 luglio 1943: le stragi di Canicattì e Biscari
La data del 14 luglio 1943, nel pieno della campagna di Sicilia, segna uno dei momenti più oscuri dell’avanzata alleata nel Mediterraneo. Quel giorno, due episodi distinti ma collegati – la strage di Canicattì e il massacro di Biscari – portarono alla morte di oltre cento persone, tra civili inermi e prigionieri di guerra disarmati. Crimini commessi non da nazisti o fascisti, ma da reparti dell’esercito degli Stati Uniti d’America. Una pagina tragica, a lungo rimossa dalla narrazione ufficiale della liberazione, che merita di essere ricordata con lucidità e onestà storica.
Canicattì: fuoco sui civili
Nel tardo pomeriggio del 14 luglio, a Canicattì (Agrigento), pochi giorni dopo l’arrivo delle truppe statunitensi, un gruppo di civili – in cerca di beni di prima necessità – entrò nella fabbrica abbandonata Narbone-Garilli, saccheggiando sapone e generi alimentari. Sul posto giunse il tenente colonnello George Herbert McCaffrey, governatore militare della zona per conto dell’esercito USA. Secondo testimonianze, McCaffrey, irritato dalla scena e deciso a ristabilire l’ordine con fermezza, aprì personalmente il fuoco contro i presenti. Furono uccisi almeno sette civili, tra cui una bambina di undici anni, e molti altri rimasero feriti.
L’episodio, gravissimo, non fu oggetto di alcun procedimento giudiziario. McCaffrey non venne mai incriminato. La strage rimase ignorata per oltre cinquant’anni, fino a quando, nel 1998, fu portata all’attenzione pubblica da Joseph S. Salemi, professore italoamericano e figlio di uno dei soldati presenti, che denunciò il silenzio e l’impunità che avevano circondato l’accaduto.
Biscari (oggi Santo Pietro): l’eccidio dei prigionieri
Sempre il 14 luglio 1943, a oltre 100 chilometri di distanza, un secondo e ancor più grave episodio si verificava nei pressi dell’aeroporto di Biscari (oggi frazione di Caltagirone), dove la 45ª divisione di fanteria statunitense aveva appena respinto una controffensiva italo-tedesca. In due distinti momenti, i soldati americani compirono esecuzioni sommarie di prigionieri di guerra disarmati.
Nel primo caso, il sergente Horace T. West separò un gruppo di 37 prigionieri italiani e tedeschi, li fece marciare fino a una trincea e, senza alcun ordine scritto, li uccise con raffiche di mitra e colpi di pistola alla testa.
Poco dopo, il capitano John T. Compton ordinò l’uccisione di 36 ulteriori prigionieri, accusandoli di aver simulato una resa per poi aprire il fuoco su una pattuglia americana. Si trattava di un sospetto comune in quei giorni: alcuni soldati alleati, esasperati dalle tattiche italiane e tedesche, temevano le cosiddette “finte rese”, cioè la consegna volontaria seguita da imboscate.
Le responsabilità erano però evidenti: i prigionieri erano disarmati, non costituivano una minaccia immediata, e i procedimenti militari imponevano la custodia, non l’esecuzione. Entrambi i casi furono oggetto di indagini giudiziarie: West fu condannato all’ergastolo, ma graziato poco dopo; Compton fu assolto, sostenendo di aver agito in base a ordini “impliciti”.
L’ombra del comando: Patton e il clima dell’impunità
Sul massacro di Biscari aleggiò per anni la figura del generale George S. Patton, comandante della 7ª Armata statunitense. Pochi giorni prima dello sbarco in Sicilia, Patton avrebbe pronunciato frasi come: “Se si arrendono non badate alle mani alzate. Mirate tra la terza e la quarta costola, poi sparate. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!”.
Parole che, pur non configurandosi come ordini formali, furono interpretate da alcuni ufficiali – tra cui lo stesso Compton – come autorizzazione implicita a comportamenti spietati.

Il generale Omar Bradley, testimone degli eventi successivi, riportò a Patton l’accaduto. Patton, inizialmente infastidito, accettò le indagini ma negò ogni responsabilità diretta. In effetti, non fu mai processato né sanzionato per le sue parole, ma il dibattito sulla responsabilità morale di comando rimane aperto ancora oggi.
Per decenni, questi episodi furono taciuti o minimizzati. La narrazione ufficiale della “liberazione” non poteva ammettere zone d’ombra. Solo in tempi recenti, grazie all’apertura degli archivi, al lavoro di storici indipendenti e alla volontà di affrontare anche le pagine più scomode, la verità è emersa. A Santo Pietro, una targa commemora oggi le vittime del massacro; a Canicattì, il ricordo è affidato soprattutto alla memoria familiare.
Ricordare quei fatti significa onorare tutte le vittime, anche quelle dimenticate, e riaffermare che il rispetto del diritto – anche in guerra – è il fondamento stesso della civiltà. In un tempo in cui le guerre ritornano al centro dell’attenzione, anche nella nostra Europa, non possiamo permetterci una memoria selettiva. La verità, anche quando scomoda, è sempre un atto di giustizia. E il 14 luglio 1943 ci ricorda che la guerra non conosce vincitori morali assoluti.
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