Éire go Brách? La riunificazione irlandese tra retorica e realtà
L’Irlanda è un film in bianco e nero che improvvisamente si accende di colori pastello, sovrastata da un cielo azzurro che come una donna muta spesso di umore e che si unisce al mare.
Isolani contornati dal blu profondo dell’oceano ed immersi nella trinità di distese di verdissimi trifogli, gli irlandesi non hanno mai smesso di credere nell’unione di Eire e Ulster, in un’Éirinn Go Brach1 dove il sempre è un concetto infranto da Troubles sanguinosi; non è un caso che l’Inghilterra non sia mai riuscita ad assimilare l’Irlanda.
Il conflitto nordirlandese non è religioso, ma è la chiave necessaria per comprendere come e quanto una comunità intenda distinguersi dall’altra; del resto è anche vero che ri-unire quel che non è mai stato politicamente unito è difficile, anche perché mai come a Belfast la provvisorietà istituzionale è assurta a definitività, fenomeno buono per ogni latitudine.
È la storia che capricciosamente cambia le carte in tavola: le prossime elezioni presidenziali irlandesi del 27 ottobre vedranno la contemporanea presenza, a Dublino e Belfast, di due rappresentanti cattoliche del Sinn Féin, espressioni della volontà politica di dare seguito agli intenti del Good Friday Agreement del 1998 tra la maggioranza degli schieramenti politici dell’Irlanda del Nord e contemporaneamente un’intesa internazionale tra il governo inglese e quello della Repubblica d’Irlanda2.
Per la prima voltaBelfast è guidata dai cattolici, mai reticenti riguardo l’auspicio di un‘unione con Dublino, rappresentati da Michelle O’Neill, cresciuta all’ombra di riots da non meno di 3.000 caduti, prima premier della nazione nord irlandese e prima cattolica battezzata alla guida di uno Stato in cui la discriminazione religiosa ha costituito per molto tempo la norma, nonché prima repubblicana irlandese a governare un Paese che lei e il Sinn Féin intendono incorporare in un’Irlanda unita. Il problema è che un referendum potrebbe non sortire esiti così scontati, e che dunque la riunificazione irlandese potrebbe essere quanto mai improbabile nel breve termine.
L’Insediamento della O’Neill, latrice di messaggi conciliatori, non a caso è stato ritardato a causa del boicottaggio del Parlamento di Stormont da parte della fazione unionista, in crisi a fronte della prospettiva di dover entrare in un esecutivo a guida cattolica. In base agli accordi del 1998, benché il potere a Belfast sia condiviso fra protestanti e cattolici, finora la guida dell’esecutivo è sempre toccata ai lealisti britannici, sensibili agli accordi post Brexit tra UE e UK per cui l’Irlanda del Nord, da principio mantenuta nel mercato unico europeo per evitare il ritorno a un confine fisico con Dublino, ora teme di vedersi separata dalla madrepatria inglese e condannata ad una riunificazione sospinta dal Sinn Féin del sud guidato da Mary Lou MacDonald.
Secondo The Irish News nella Repubblica d’Irlanda il 64% voterebbe per l’unificazione a fronte del 16% che opterebbe per la permanenza di Belfast sotto la Corona inglese; i numeri mutano quando ci si sposta a Nord, dove solo il 30% voterebbe per l’unificazione contro un 51% che si esprimerebbe contro, voltando le spalle al Michael Collins del 1922 e al Bobby Sands del 1981; e magari anche a chi aveva voluto inserire in costituzione la rivendicazione dell’Ulster, articolo poi cassato.
I problemi risiedono in parte sia nella Brexit, che ha destabilizzato l’Accordo del Venerdì santo, sia nell’opposizione all’ipotetico sostegno economico dell’Ulster3 in caso di unificazione di un Paese frammentato alla nascita lungo linee di faglia parzialmente colmate da riferimenti così generali all’Isola d’Irlanda, da rendere inevitabile la convinzione che la geografia avrebbe reso giustizia per un’unione invece politicamente difficile, un principio che assicurava la legittimità di qualsiasi scelta liberamente esercitata dalla maggioranza del popolo dell’Irlanda del Nord riguardo al suo status.
Al momento l’Istituto di ricerca economica e sociale irlandese realisticamente stima che, in caso di formazione di stato unitario, Dublino potrebbe subire un crollo dell’11% del PIL pro capite; previsioni proibitive specie in considerazione dei prevedibili disordini sociali sommati all’assorbimento della minoranza inglese, la goccia d’olio nella pentola piena d’acqua.
Nel frattempo, la condotta di Dublino continua a fondarsi su basi nazionaliste, tra le quali quella per cui la geopolitica plasma il destino di un paese in accordo con il convincimento che ha permesso ai vari governi dublinesi di percepirsi come se da un lato fossero nel pieno del diritto di sindacato degli affari interni nordirlandesi, ma dall’altro pronti a chiamarsi fuori ogniqualvolta ci fosse da assumersi responsabilità negli affari sociali e soprattutto economici.
Per John Hume4, uomo politicamente fondamentale nella storia più recente dell’Irlanda del Nord, senza il reciproco riconoscimento di cattolici e protestanti, l’Irlanda del Nord rimane un rompicapo, segnato dalle faide partite dal 1922 e giunte ai Troubles del 1998, caratterizzati dalla polarizzazione settaria e dal rigetto nazionalista dei vicini protestanti, capace di suscitare più di una perplessità su un’ipotetica riconciliazione, malgrado l’assenza nel tempo di una vera guerra civile.
Nel ‘98 il settarismo è stato istituzionalizzato per evitare che si cristallizzasse a favore di un’unica fazione, un accorgimento che avrebbe dato modo di proteggere anche i protestanti in caso di riunificazione nazionale. Tuttavia la Brexit destabilizza ed i cattolici si dimostrano più realisti dei loro antagonisti, interpreti di un pragmatismo poggiato su un’inedita politica non violenta, battezzata da Hume come quella di un’Irlanda consensuale attenta alla legittimità di entrambe le tradizioni da orientare verso un compromesso capace di sconfiggere i veti unionisti e le pretese dei Dubliners, interpreti di un nazionalismo troppo a lungo oscillante in una dimensione in cui percepirsi partito di lotta e di governo, pronto alla partecipazione istituzionale ed ai rovesciamenti insurrezionali. Da questo punto di vista, qualsiasi referendum sulla riunificazione per quanto legittimo ma privo di un’adeguata preparazione politica preventiva, farebbe nascere sì una nuova Irlanda, ma nel sangue. Tra l’altro, va considerato che, mentre l’Accordo fornisce quadro legale e principio del consenso, tutto il processo post referendario dovrebbe comunque passare per negoziati e pianificazioni dettagliate per colmare le lacune del nuovo stato unitario.
Nell’Eire, i sondaggi evidenziano un solido spirito riunificatore, salvo arrivare agli aspetti finanziari5, per cui, pur a fronte di ipotetici finanziamenti inglesi, le tasse irlandesi aumenterebbero provocando una diminuzione del tenore di vita del 5-10%6. Secondo uno studio compiuto dalla Dublin City University con la Ulster University, il costo di un’Irlanda riunita ammonterebbe a 3 miliardi di euro nel primo anno con un deficit dipendente, aleatoriamente, dal livello di crescita economica nell’arco di 9 anni. Di fatto una stima un po’ rischiosa a volerci strutturare la politica economica di uno Stato.
In ogni caso, la ventata di cambiamento ha mosso il cielo irlandese, portando la possibilità di organizzare il referendum sull’uscita dallo UK entro questo decennio. Il problema è che il processo politico iniziato nel 1998 non si è ancora concluso, visto che diversi gruppi militanti difficilmente abbandoneranno la causa unionista, e che la condivisione del potere favorisce l’empasse politica, dato che la dipendenza continua dai sostegni interessa ambedue le parti, salvo poi convertirsi in instabilità strutturale. Insomma, a dar credito a Mary Lou MacDonald, l’Irlanda è prossima al punto di non ritorno, e il prossimo passo politico non può che essere il border poll entro e non oltre il 20307, dopo aver garantito la presidenza della Repubblica al Sinn Féin. Ma quanto è disposta Dublino a rischiare per l’importazione dell’instabilità del nord?
In questo tourbillon si inseriscono gli USA, inizialmente mossi dalla dottrina Truman, attenta alla libertà dei popoli, ma anche alla preservazione del benessere americano; se l’amministrazione Biden aveva richiamato al rispetto dell’Accordo del Venerdì Santo quale prerequisito per un trattato di libero scambio angloamericano, quella Trump ha colpito direttamente con la politica daziaria, pur alla luce del fatto che la formulazione del trattato impegna gli USA, interessati ad un’anglosfera priva di attriti, a sostenere l’unità dell’isola in presenza di una maggioranza, ovvero di condizioni politico-demografiche che si stanno di fatto avverando, laddove l’intento inglese di ricompattare le province irlandesi ed avvincere la Scozia, che osserva interessata le vicende dell’isola, fa parte delle utopie.
Rimane da comprendere a quanto ammonterebbe il prezzo da pagare per San Giorgio, alla luce della crisi dell’esecutivo Starmer e, più in generale, del sistema politico inglese, quanto mai pencolante tra le istanze populiste della destra di Farage e la sinistra radicale dell’islamo marxismo.
L’unione irlandese costituisce un problema che trascende gli aspetti territoriali e che richiede di considerare i vari aspetti identitari in uno spazio condiviso; la creazione del confine economico nel Mare d’Irlanda ha portato le considerazioni da ideologiche a puramente economiche e di discrezionalità politica e sociale. L’unificazione richiederebbe una pianificazione attenta per evitare le isteresi emerse dopo il referendum sulla Brexit creando situazioni uniche per Belfast che, grazie al Windsor Framework, mantiene un accesso privilegiato sia al mercato inglese sia, per le merci, a quello UE, visto che l’Irlanda, forte di un regime fiscale favorevole, è già riconosciuta quale catalizzatore per gli investimenti diretti esteri, avendo sullo sfondo una politica internazionale sostanzialmente neutrale. Una nuova Irlanda unita dovrebbe quindi trovare un equilibrio tra la sovranità nazionale e la necessità di allineamenti capaci di assicurare stabilità e ruolo nell’ambito internazionale, in un contesto in cui, per il principio della compensazione diplomatica, il Regno Unito soffrirebbe di un ridimensionamento fisico, geopolitico e geoeconomico, stanti le nuove barriere commerciali con Dublino; sempre per riequilibrio ideologico, a fronte di un’ascesa irlandese, si accenderebbero confronti su identità e futuro sull’idea stessa di Gran Bretagna, nonché sulle ripercussioni derivanti dalla perdita di base elettorale cui adeguare nuove strategie, specie nei confronti delle comunità unioniste.
Ottobre sarà dunque il momento della verità per l’Irlanda, il momento i cui o si accerterà realmente l’esistenza di un intento nazionale condiviso e fatto proprio dal Partito che più ha rappresentato in questi 100 anni lo spirito gaelico, o se sarà un punto di faglia in cui, come accaduto in Germania, l’unione con l’est ha segnato la nascita di province da trainare.
Ecco che emerge l’altra incognita, costituita da un nord povero, frammentato e che, nonostante tutto, non potrà cancellare la violenza che ha imperversato. Il tempo, ammesso che l’Irlanda sarà davvero unita, porterà a difficoltà sociali, a confronti tra irlandesi che hanno vissuto 100 anni di libertà, ed irlandesi costretti a soggiacere a rapporti discriminanti.
È ovvio che la struttura partitica dovrà adattarsi al nuovo panorama politico soprattutto in funzione della genesi di minoranze inedite ma significative all’interno di uno Stato oggetto di un indefinito processo di riconciliazione condizionata dalle voci del passato, un luogo di contrasti, repressione, senso d’identità e desiderio di libertà.
One day we’ll return here, When the Belfast Child sings again. Potrebbe essere più del verso di una canzone.
1 Irlanda per sempre
2 Il 10 aprile del 1998 fu firmato a Belfast da Tony Blair, dai principali partiti politici nordirlandesi e dall’irlandese Bertie Ahern. L’accordo fu ratificato un mese dopo con un referendum della popolazione nordirlandese. Non è stato un accordo perfetto dato che fu il frutto di compromessi e che non diede i mezzi migliori per attuare realmente una normalizzazione dell’Ulster.
3 Le sei contee dell’Ulster costituiscono una delle regioni più povere del Regno Unito
4 Oltre al Nobel, fu insignito di altri tre prestigiosi riconoscimenti internazionali sul tema della pace: il premio Gandhi, il premio Martin Luther King e il Premio Colombe d’Oro per la Pace (1997).
5 Lo UK sostiene l’Ulster per quasi 9,5 miliardi di sterline all’anno.
6 Irish Times
7 Per Il 50% degli irlandesi e per il 44% dei nordirlandesi ci sarà un referendum nei prossimi cinque anni; per il 71% e per il 62% nei prossimi dieci anni.
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