Geoeconomia senza geopolitica: la disfatta annunciata dell’Europa
La partita con la Cina è in corso da tempo, si è giocata come geoeconomia, poi si è cominciato a intravedere la geopolitica e solo alla fine, da parte UE, si comincia a correre ai ripari pensando alla strategia.
Tale partita, che oggi si incrocia con quella più recente e probabilmente temporanea dei dazi e altre forme di protezionismo, è parte di un girone più ampio dove la vera posta in gioco è il dominio nelle tecnologie strategiche.
In realtà l’Europa si è sinora chiamata fuori da questa partita, quale guerra geoeconomica. L’atteggiamento prevalente del Vecchio Continente è un misto di paura, allarmismo, illusione di «scrivere le regole e fare da arbitro» (delegando a politici e burocrati compiti per i quali troppo spesso sono impreparati), e più recentemente un cauto approccio alla A.I, compresa la velleità di tutelarsi se non vendicarsi tassando i Big Tech altrui.
La questione dei dazi è incomprensibile senza questo contesto e non può essere ridotta a un semplice gioco a due: è almeno una partita a tre, con una posta in gioco ben più alta.
La competizione è parte di un girone, ristretto, la cui posta è un nuovo ordine globale, e sotto questa luce va anche visto il ritorno statunitense (fenomeno ciclico …) all’applicazione di dazi, azione che si sovrappone all’approccio non ortodosso del presidente degli Stati Uniti Trump alle alleanze transatlantiche.
Questi due aspetti sono stati immediatamente e poco sommessamente visti da Pechino come l’opportunità di ripristinare i legami della Cina con l’UE e alcuni dei suoi Stati membri.
Quali sono le probabilità effettive di un riavvicinamento tra Cina e UE? E quali implicazioni ne deriverebbero?
Il vertice Cina UE del 24 luglio u.s. era originariamente previsto a Bruxelles ma i leader cinesi hanno declinato l’invito lanciando un chiaro segno dell’inasprimento della posizione di Pechino nei confronti dell’UE che ha inaspettatamente “abbozzato” andando quasi a Canossa, accettando l’irrituale riunione a Pechino.
Certamente l’approccio dell’amministrazione Trump alla UE e gli alleati europei della NATO aveva suscitato aspettative di un riavvicinamento tra Cina ed Europa (e forse per qualcuno presupposti ed aspettative potrebbero avere ancora elementi di attualità e validità), ma al momento le relazioni della Cina con le istituzioni dell’UE – e con diversi Stati, membri di peso – appaiono in una situazione di stallo.
Occorre prendere atto, anche da parte degli assertori ad oltranza, che le relazioni appaiono per molti versi ai minimi termini a causa di dichiarate controversie commerciali e della posizione di Pechino sull’invasione russa dell’Ucraina.
La UE è comunque debole nei rapporti, minata dalla mancanza di una vera politica unitaria e in molti paesi da spinte di politica interna generate da forti interessi cinesi consolidatisi in anni se non decenni di disattenzioni ed ammiccamenti.
Mentre la Cina, almeno a parole, spinge per un maggiore impegno reciproco manca da parte della UE, ed ancor più di alcuni dei principali membri, una chiara strategia, anche in termini di picchetti invalicabili: per quanto possa apparire utile e necessario tale maggior impegno non è sostenuto da una chiara strategia per contrastare l’influenza occulta e gestire i rischi di dipendenza economica e tecnologica.
In gioco sono le sfide in cui la Cina è condizionante, non ultimo il cambiamento climatico, la povertà e lo sviluppo tecnologico, ma da parte dell’opinione pubblica, dei media e dei politici manca, anche per una pervasiva propaganda mirata, la consapevolezza di come le controparti cinesi affrontino l’impegno, sia diplomatico che economico e dove e quali siano le reali divergenze.
La conoscenza delle mentalità è disattesa dall’occidente, meno da parte cinese: la conoscenza su come operano lo Stato e la società cinesi e la costruzione di rapporti non può essere devoluta alla stessa Cina con varie associazioni e collegamenti, culturali e soprattutto accademici, favorendo chi si schiera come si registra sinora.

Si tratta di una rinuncia occidentale al limite del suicidio culturale e imprenditoriale, ed anche strategico.
Dal punto di vista della Cina, gli impegni o le trattative commerciali costituiscono un coinvolgimento totale della controparte, con la tendenza a magnificare il consenso piuttosto che un risultato equilibrato e circoscritto all’affare. La UE ed i singoli paesi, in mancanza di un cogente indirizzo comune, dovrebbero anche avere obiettivi chiari e circoscritti, sostenuti da una chiarezza strategica interna per scambi reciprocamente costruttivi: occorre evitare la somma zero (resuscitata quasi in termini positivi) ed il rischio che i contatti rafforzino l’influenza di Pechino senza considerare gli interessi della UE o anche minimi progressi sulle questioni globali prioritarie di suo interesse.
La definizione della strategia è fondamentale, indipendentemente dal fatto che faccia parte di un processo di revisione o meno, anche nei confronti di governi o frazioni politiche che sembrano perseguire un maggiore impegno politico ed economico con la Cina.
Questo impone non solo strategia e capacità propositiva, con programmi credibili, ma anche la definizione di linee rosse per contrastare l’influenza dello Stato cinese in patria e gestire i rischi di specifiche dipendenze economiche e tecnologiche dalla Cina.
In questo contesto di ipotetico riavvicinamento, ha preso piede la visione che il “Resto del Mondo” si sarebbe potuto coalizzare per dare una dura e opportuna risposta a Trump, cominciando da un’esemplare intesa UE-Cina.
Autolesionismo e follia pura: la Cina da anni sta devastando l’economia europea, distruggendo interi settori industriali dal solare all’eolico, dalle batterie alle auto elettriche.
La portata e le valutazioni dei rapporti di forza, e del potere contrattuale della UE, sono deludenti, proprio quando la Cina dopo averlo annunciato ha agito in contrasto con le voci di un potenziale riavvicinamento; i responsabili politici cinesi continuano a rispondere con durezza alle controversie commerciali in corso con l’UE, anche per quanto riguarda i veicoli elettrici (EV), gli alcolici e le forniture mediche (in fondo i picchetti della UE, gli stessi che intende trattare con gli USA).
Pechino non ha calibrato la risposta come in altre occasioni, non si è affidata alla diplomazia e non è stata velata nelle comunicazioni con le istituzioni della UE e i governi europei.
Per le controversie, a dimostrare lo stallo, sia la Cina che la UE sono stabili e determinate nel ricorso ai meccanismi di risoluzione delle controversie commerciali per difendere i propri mercati dai prodotti dell’altro, azione nemmeno recente visto che dal 2020 ad oggi sono in ballo presso l’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) sette ricorsi di Pechino contro prodotti europei, mentre da parte sua Bruxelles ha sotto esame undici casi di indebite pratiche (sussidi) da parte della Cina.
Controversie che evidenziano come di fondo persista una sfida economica strutturale: la Cina e l’Europa producono beni simili e sono in competizione per il dominio manifatturiero globale. L’attuale approccio economico della Cina nei confronti dell’UE deriva dal suo nuovo modello economico, guidato dall’innovazione interna e dal miglioramento delle esportazioni manifatturiere.
Prodotti come i veicoli elettrici e le apparecchiature per le energie rinnovabili fanno parte della cosiddetta “nuova forza produttiva” che la Cina considera motore della sua economia.

Questo modello orientato alle esportazioni è diventato una delle principali fonti di tensione con l’Europa, in contrasto con l’effetto stabilizzante che il vecchio modello economico aveva sulle relazioni.
Per l’economia cinese, il mercato unico europeo è uno sbocco vitale: l’Unione Europea dispone pertanto di un’arma negoziale molto potente nei confronti di Pechino, purché abbia finalmente il coraggio di alzare la voce e brandire tale arma.
La UE (e non si sa quanto seguita dai singoli paesi membri e da difficili equilibri di politica interna di alcuni di essi…) sembra indirizzata a ridurre i rischi di esposizione nei confronti della Cina. Questa forte convinzione tra i leader europei è guidata sia dalla ritrovata necessità di sicurezza economica che dalle ricadute geopolitiche dell’Europa con Pechino, con una differenza fondamentale nel modo in cui le due parti vedono compromessa o meno la relazione. I leader europei vedono prevalentemente i loro legami con la Cina attraverso la lente della guerra in Ucraina, mentre il leader cinesi agiscono nelle relazioni con l’Europa (disunita e sfruttandone la disunione) nel quadro della loro strategia di contenimento degli Stati Uniti (ed è per questo che occorre da parte UE e dei singoli paesi avere una propria presenza ed una propria strategia per l’Indopacifico, una volta tanto con l’Italia ben incamminata su questa strada).
Le reciproche relazioni con gli USA giocano un ruolo fondamentale
Sia per i cinesi che per gli europei il mercato statunitense è stato trainante, l’America comprava a dismisura, consentendo ampi margini di guadagno e di crescita; bisogna valutare e trarre le conseguenze dal cambio di questo quadro, sia che si oscuri o semplicemente si attenui. Nella misura in cui il mercato americano diventi meno ricettivo per le merci cinesi, questa restrizione scatenerà la corsa della Cina, in forma ancor più determinata ed aggressiva, a rovesciare le sue eccedenze di produzione industriale su altri mercati, UE in testa.
Anche una semplice intesa, allontanando l’ipotesi di accordi e meno di alleanza tra nazioni che dipendono dall’export per crescere, non ha alcun senso: se tutte vogliono surplus commerciali, con chi li avranno? E su quali basi? Il commercio non può essere mai a somma zero (che sembra diventato il mantra attuale).
La Germania non solo sembra averlo compreso ma sembra essersi anticipata, passando dall’arroganza dell’era Merkel al pragmatismo del cancelliere Merz, che ha annunciato un cambio di paradigma: la Germania, con nuovi piani di investimento, compresi quelli per la difesa, vuole evolvere in una “piccola America”, cioè un’economia trainata da una robusta domanda interna.
Nuovi approcci, e perché non regole adeguate? Salvo quanto timidamente in corso nel Regno Unito (paese europeo che non fa parte della UE ma ne è solido alleato, con la NATO), negli ultimi decenni e neppure – inspiegabilmente – dopo gli eventi ed il trauma COVID non si è prestata sufficiente attenzione al contrasto di “influenze”, ai rischi di interferenze interne, anche di “tipo maligno”. Non sono mancati i casi denunciati chiaramente come spionaggio nel Regno Unito (per questo assunto ad esempio esterno) e c’è stata molta – troppa – compiacenza in molti paesi UE.
Nel Regno Unito si parla addirittura di un programma di registrazione dell’influenza straniera, a lungo pianificato dal governo, per imporre una maggiore trasparenza sugli agenti che agiscono per conto della Cina e di altri Stati.

Si tratta certamente dell’implementazione di un sistema “border line” che richiede un’attenta valutazione, in particolare per evitare di incriminare attori e attività legittimi e di aggiungere ingenti oneri di conformità alle imprese e alle ONG, ma nella UE manca anche la consapevolezza tanto della minaccia quanto di un qualche tipo di meccanismo per chiarire e regolamentare coloro che agiscono per conto di potenze straniere.
I casi di spionaggio sottolineano l’urgenza di una migliore comprensione tra la politica, i movimenti culturali e di opinione e le stesse imprese su come gli agenti cinesi usano ed esercitano l’influenza nei paesi stranieri, nei relativi governi e nelle istituzioni internazionali.
L’importanza di una maggiore comprensione e competenze sulla Cina è stata sottolineata da una serie di specialisti anche in Paesi UE, comprese le raccomandazioni per nuovi approcci e capacità politiche.
Come già accennato in precedenza, è assurdo che, ad oggi, la costruzione di capacità e conoscenza su come opera la società cinese e come si debba interagire con la stessa venga lasciata addirittura alla controparte, allo Stato cinese che agisce liberamente con varie associazioni e collegamenti, culturali e soprattutto accademici, come è avvenuto sinora.
Gli stessi britannici hanno dovuto constatare come il Parlamento, i governi locali, le imprese, gli istituti di ricerca e strutture no-profit siano risultati vulnerabili alle operazioni di influenza, in particolare perché queste sono spesso diffuse e difficili da individuare.
Molte delle operazioni di influenza della Cina si basano sulla coltivazione a lungo termine di relazioni esattamente del tipo necessario per il funzionamento degli affari e di altri scambi, piuttosto che su ciò che la maggior parte in Occidente potrebbe tradizionalmente considerare spionaggio.
È essenziale una maggiore consapevolezza di queste tecniche e di come le relazioni che ne derivano siano sfruttate da Pechino per raccogliere informazioni e aumentare l’influenza. Questo dovrebbe essere prioritario non solo a livello UE, con volontà politica e capacità di intervenire, ma anche nei governi nazionali, per garantire che la necessaria resilienza UE pur mantenendo un rapporto pragmatico con la Cina.
De-risking sullo sfondo e come parola d’ordine, pertanto gestione dei rischi di dipendenza economica e tecnologica
L’entità del predominio della Cina nelle catene di approvvigionamento critiche e nelle tecnologie emergenti impone nel breve termine un approccio pragmatico ed un certo impegno economico. Per la UE e i disuniti governi nazionali la sfida è quella di sviluppare una strategia chiara e adattabile per mitigare le dipendenze economiche e tecnologiche dalla Cina.
I rischi di dipendenza sono forti e rimangono nella misura in cui movimenti nati da un nostro malinteso ambientalismo, o forse sarebbe meglio dire pseudo-ambientalismo, si sovrappongono o sono addirittura vettori delle tesi e velleità cinesi.
Tutte le attività di filiera le abbiamo abbandonate quasi interamente ai cinesi – anche quando le risorse in questione si trovano in Africa o in Sudamerica – che le svolgono con energie, metodi industriali e tecnologie molto più inquinanti dei nostri.
Una vulnerabilità in crescita esponenziale se la UE cerca di realizzare la sua agenda net zero attraverso tecnologie come l’energia solare ed eolica e i veicoli elettrici (EV). Nel breve-medio termine, in assenza di un cambiamento radicale nella diversificazione della catena di approvvigionamento e nel reshoring, ciò significa una crescente dipendenza dalla Cina per i materiali e i componenti critici.
Il rischio maggiore potrebbe addirittura essere la dipendenza tecnologica a lungo termine, poiché la Cina rende a trasformarsi da seguace a leader nelle tecnologie emergenti, superando potenzialmente la capacità della UE e dei suoi alleati di recuperare il ritardo.
Si tratta di una sfida di portata diversa dalla dipendenza da materie prime o componenti che, in teoria, potrebbero provenire da altri paesi.
Senza significative mitigazioni strategiche a lungo termine, la UE potrebbe trovarsi a dipendere dalla Cina sia per le attrezzature che per la proprietà intellettuale e gli standard richiesti in settori che vanno dalla generazione di energia ai trasporti.
Perseverare su questa strada ed acuire tali dipendenze è offrire su un piatto d’argento l’influenza a lungo termine della Cina.
La UE (e vale per i singoli stati) non è in grado di affrontare questa che non è più una sfida ma già una reale emergenza senza cambi fondamentali nella politica economica interna ed estera.
Gestire le relazioni economiche con Pechino è una sfida senza precedenti. Occorre una volontà comune per fare il punto su questioni attuali, come la dipendenza dalla Cina per i veicoli elettrici e le tecnologie verdi ma soprattutto per l’elaborazione di una strategia che prenda in considerazione quali dipendenze potrebbero emergere in futuro, come riconoscerle e sviluppare la resilienza necessaria per l’adattamento.
Il gioco a tre per l’A.I. deve rientrare in questo quadro, a maggior ragione parlando di alleanze.

Tornando ad uno dei temi precedenti, centrali, si deve anche affrontare il problema della costruzione di una resilienza delle istituzioni europee e nazionali ai nuovi modelli di intelligence e influenza.
Certamente un nuovo gravoso impegno, che richiede nuove risorse, soprattutto umane, che rientrano nella sicurezza e difesa anche se dedicate a programmazione ed economia, ma un impegno che va ben oltre incontri di alto livello, spesso sterilii, come quello appena concluso, un investimento prezioso che deve essere sostenuto da un pensiero strategico che riconosca la sfida unica che la Cina pone ed essere evidente con una presenza nell’area, come negli ultimi anni anche l’Italia ha saputo assicurare, nelle proprie e giuste dimensioni.
Le dichiarazioni a conclusione del vertice sono state quasi univoche sulla necessità di un riequilibrio nei rapporti Cina-Europa, e forse bisognerebbe parlare di un riorientamento; nell’opinione pubblica europea, al “netto” della propaganda martellante a favore del Dragone, serpeggia una forte percezione che la Cina tragga i maggiori benefici dal commercio bilaterale, mentre il settore manifatturiero dell’UE fatica a competere con un’ondata di prodotti a basso costo.
Se la UE è (vanamente?) portabandiera delle transizioni energetica ed ecologica, la Cina è leader globale in settori strategici per la transizione ecologica – batterie, pannelli solari, veicoli elettrici – e punta a esportare questi prodotti su scala globale, spinta da un sistema industriale ipersussidiato e da una domanda interna stagnante.
L’Europa è sempre più preoccupata per gli effetti distorsivi di questo modello: i prodotti cinesi sono più economici, più abbondanti e più difficili da fermare, anche con i nuovi strumenti di difesa commerciale che può adottare Bruxelles.
Emblematico il passaggio del comunicato finale in cui si parla di “…facilitare l’accesso a tecnologie verdi di qualità…” che può essere letto in modo diametralmente opposto: per Pechino significa che l’UE dovrebbe accettare le sue esportazioni come contributo utile alla transizione, per Bruxelles significa evitare o allentare dipendenze e propiziare la costruzione di una filiera europea – o almeno combinata, e a crescente presenza occidentale – per evitare una nuova vulnerabilità.
Letto e interpretato in forma pragmatica: un disaccordo mascherato da convergenza, soprattutto se si considera come allo stesso tempo la UE accusi Pechino di ambiguità sulla guerra in Ucraina, di complicità economica con la Russia, di mantenere un mercato chiuso e di agire da concorrente sistemico.
Ovviamente la Cina rimbalza, rigetta ogni pressione, contesta le misure europee come protezionistiche, e chiede di “non costruire muri” (ed altrettanto ovvio non apre spiraglio alcuno e meno prospetta qualcosa in cambio).
Tip di geopolitica e geoeconomia: il guadagno di una parte non comporta necessariamente la disfatta di un’altra, anzi! Spesso risveglia il sistema con premesse e promesse di miglioramento, ma … se la geopolitica abdica, lasciando l’intero campo a una geoeconomia dominata da obiettivi limitati alla sicurezza e al dominio, l’esito “a somma zero” assicura una sciagura, la disfatta collettiva.
Foto: Xinhua / Foreign and Commonwealth Office
L’articolo Geoeconomia senza geopolitica: la disfatta annunciata dell’Europa proviene da Difesa Online.
La partita con la Cina è in corso da tempo, si è giocata come geoeconomia, poi si è cominciato a intravedere la geopolitica e solo alla fine, da parte UE, si comincia a correre ai ripari pensando alla strategia. Tale…
L’articolo Geoeconomia senza geopolitica: la disfatta annunciata dell’Europa proviene da Difesa Online.
Per approfondimenti consulta la fonte
Go to Source