Addis Abeba con le spalle al muro: il punto sulla guerra in Etiopia
Prodiga di sorprese, la drammatica guerra civile in Etiopia si protrae da ormai un anno e ancora negli ultimi mesi ha visto un susseguirsi di colpi di scena che hanno portato al momento attuale, nel pieno autunno 2021, il governo centrale del premier Abiy Ahmed Alì, in fase di stallo, con le forze tigrine che, con effetto valanga, hanno agglomerato attorno a sé numerosi altri gruppi minori di guerriglia etnica, fra i quali l’unico di un certo peso è però il fronte Oromo.
Sembra replicarsi una situazione simile a quella di trent’anni fa, quando nel 1991 il regime comunista del dittatore filosovietico Menghistu Haile Mariam venne definitivamente sconfitto da un fronte guerrigliero di cui, già allora, il fronte tigrino TPLF costituiva la spina dorsale. Tanto da assicurare nei successivi decenni ai tigrini la nomea di etnia politicamente dominante, pur essendo solo 6% della popolazione totale dell’Etiopia.
Ora, le milizie ribelli sono ben attestate per una eventuale marcia sulla capitale Addis Abeba, sebbene non siano ancora propriamente alle sue porte. Di certo hanno fermato e ricacciato indietro una nuova offensiva governativa in ottobre, attuando nella prima metà di novembre movimenti a largo raggio tesi a circondare, ma da lontano, la capitale, tagliando le vie di comunicazione e logistiche.
Si muove la diplomazia per evitare un bagno di sangue che forse nessuno vuole davvero, temendo la disintegrazione del paese. Nel frattempo vari paesi, specialmente la Cina, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, rivendicano una loro influenza su Addis Abeba avendola armata, e continuando ad armarla, di tutto punto, mentre gli Stati Uniti sono decisi a sanzionare l’Etiopia e l’alleata Eritrea, ufficialmente per le violazioni dei diritti umani durante i combattimenti, in realtà per contrastare governi influenzati da avversari geopolitici fra cui appunto la Cina.
Verso la capitale
E’ senz’altro esagerato sostenere, al momento attuale in cui scriviamo, che le forze guerrigliere a guida tigrina siano già alle porte della capitale Addis Abeba, come era stato riportato poche settimane fa, il 3 novembre 2021, dalla televisione americana CNN, la quale sembra difettare di propri corrispondenti sul territorio, dovendosi affidare a voci riportate, a differenza invece di altri media come ad esempio la rete qatariota Al Jazeera, che vantano un maggior accesso a fonti dirette.
La svolta delle ultime settimane è stata annunciata il 1° novembre dal portavoce del TPLF (il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè) Getachew Reda, che ha confermato la conquista nelle ore precedenti di due importanti città della regione Ahmara, situate a circa 380 km a Nord di Addis Abeba.
Si tratta di Dessiè e Kombolcha, che non solo si trovano sull’importante autostrada A2 diretta alla capitale, ma sono anche vicine all’intersezione fra le autostrade B21 e B11, che corrono fra l’Ahmara e l’Afar e costituiscono la porta per poi calare sulla ferrovia fra Addis Abeba e Gibuti, lo sbocco al mare commerciale della capitale etiopica, che potrebbe così essere affamata.
Nello stesso giorno si è verificata nei paraggi di Kamisee, 350 km a Nord della capitale, la congiunzione tra le milizie tigrine del TDF (Tigray Defence Forces), l’ala militare del TPLF, e le milizie OLA (Oromo Liberation Forces) del fronte autonomista Oromo, con cui i tigrini hanno stretto fin da agosto un’alleanza contro il comune nemico centralista.
I ribelli Oromo, dal canto loro, hanno spinto le loro avanguardie ancora più a Sud di 40 km, nel villaggio di Senbete, in una sorta di inseguimento delle forze governative in rotta. Si è così compiuto l’ennesimo ribaltamento della situazione tattica, dovuto al fallimento della controffensiva dell’esercito governativo ENDF (Ethiopian National Defence Forces) dello scorso ottobre, sia per la maggior esperienza di combattimento dei tigrini, sia della progressiva mobilitazione di altre forze ribelli.
La guerra tra il governo federale del primo ministro etiope Abiy Ahmed Alì e i tigrini era iniziata poco più di un anno fa, il 3 novembre 2020, come sbocco della crisi politica che datava al 2018, quando il neo-premier aveva cominciato una politica di accentramento opposta al precedente federalismo etnico. Ciò aveva significato in sostanza la perdita da parte del partito tigrino TPLF dell’influenza egemonica che aveva avuto per molti anni ad Addis Abeba sull’onda del fatto che, nonostante i tigrini siano solo il 6% della popolazione dell’Etiopia, essi erano stati l’elemento trainante della guerriglia contro il regime di Menghistu.
Un anno fa, Abiy aveva sperato di regolare i conti coi tigrini una volta per tutte invadendo il Tigrè con le truppe federali, si stima fino a 50.000 uomin, affiancate da milizie Ahmara e, soprattutto, dall’esercito dell’Eritrea, lo stato retto dal regime del presidente Isaias Afewerki con cui Abiy aveva concluso una storica pace che gli aveva fruttato il Nobel. Ora l’asse Etiopia-Eritrea si palesava come una tenaglia ai danni dei tigrini.
Ma pur avendo occupato in poche settimane le città principali della regione, a cominciare dalla capitale regionale Macallè, le truppe etiopiche ed eritree non erano riuscite a sgominare le milizie tigrine, che inizialmente stimate in 45.000 uomini, si erano ritirate nelle vallate più impervie e contando sui vasti arsenali delle guarnigioni settentrionali dell’esercito etiopico, formate in gran parte da tigrini, erano via via passate alla riscossa sotto la guida del generale tigrino Tsadkan Gebretensae, che ha applicato una paziente strategia di tipo maoista.
Dapprima, fra marzo e aprile 2021 una prima importante campagna, detta Operazione Seium Mesfin, in onore di un dirigente tigrino massacrato dagli etiopi, le forze tigrine hanno giocato sul conseguire una superiorità locale sulle sparute avanguardie nemiche penetrate in profondità nel Tigrè, sgominandole fra le vallate.
Poi è seguita, dal 18 giugno al 6 luglio 2021, una nuova spallata tigrina, l’Operazione Alula, in memoria di un condottiero abissino di etnia tigrina del XIX secolo, Ras Alula Engida (1827-1897). Essa ha consentito alle forze TDF di contrastare con manovre per linee interne sia gli etiopi a Sud, sia gli eritrei a Nord, tanto da consolidare la riconquista del grosso del Tigrè centrale in particolare liberando Macallè dall’occupazione etiopica il 28 giugno e avanzando verso le frontiere regionali.
Nel frattempo, le forze tigrine erano salite fino ad almeno 200.000 uomini, da confrontarsi con un esercito etiopico che conta fino a 350.000 uomini, ma non può schierarli tutti contro i tigrini, dovendo presidiare numerose altre zone dell’irrequieto paese multietnico.
In luglio, con l’Operazione Madri Tigrine, il TDF ha messo in sicurezza le frontiere meridionali e iniziato a fare capolino oltre il fiume Tacazzè, contrastando anche le milizie etniche Ahmara e Afar filogovernative. In agosto, la lotta dei tigrini si è saldata tramite precisi accordi con quella degli Oromo, che sono il popolo di maggioranza relativa dell’Etiopia, col 34% dei quasi 120 milioni di abitanti, e da tempo sono avversi al centralismo di Addis Abeba e all’egemonia Ahmara.
A questo primo, incredibile, ribaltamento delle sorti del conflitto, coi tigrini pronti a calare verso Sud già in agosto, era seguita sulle soglie dell’autunno, una controffensiva governativa, molto “pompata” dai media etiopici.
Denominata “offensiva finale” e iniziata ufficialmente l’8 ottobre, con largo impiego delle forze aeree, l’operazione è però fallita, soprattutto nella sua componente terrestre, pare per l’impiego di truppe arruolate con scarso addestramento.
E ciò nonostante, dal punto di vista puramente tecnico, gli etiopi siano relativamente ben equipaggiati, date le crescenti forniture di armamenti dai tanti alleati internazionali di Abiy, soprattutto in fatto di artiglieria e droni. In particolare, è stata cruciale la conquista di Kutaber, che non è stata facile. Già il 24 ottobre il TDF aveva preso questa città, anticamera della successiva espugnazione di Dessiè, ma già il giorno dopo i tigrini erano stati momentaneamente respinti da un contrattacco dei federali e delle milizie Amhara.
Contemporaneamente, l’aviazione etiopica ha cercato di alleggerire la pressione dei ribelli bombardando depositi, linee di comunicazione e, pare, anche obbiettivi civili, sia coi caccia pilotati Mikoyan-Gurevich MiG-23 e Sukhoi Su-27, sia con droni. Il 24 ottobre sono state bombardate Adua e Mai Tsebri, il 26 ottobre la stessa capitale avversaria Macallè.
Il dominio dell’aria dei governativi non è però stato sufficiente, poiché mantenendo l’asse principale della loro avanzata lungo l’autostrada A2, i battaglioni del TDF hanno entro il 26 ottobre ripreso Kutaber ed espugnato Hayk. L’offensiva su Dessiè da parte dei tigrini è stata portata avanti il 28 ottobre da due direttrici, da Nordovest e Nordest, con convergenza nella zona della città dove si trova l’università.
Sia a Dessìè, sia Kombolcha la lotta è durata per alcuni giorni, finchè tra il 31 ottobre e il 1° novembre, i governativi sono stati definitivamente respinti da entrambe le città. Peraltro, a Kombolcha i tigrini si sono impadroniti del locale aeroporto, che dispone di una discreta pista lunga 2000 metri, di vasti depositi di carburante e di un notevole parco industriale che era stato inaugurato pochi anni fa dal predecessore di Abiy Ahmed Alì, l’ex-premier Hailemariam Desalegn, in carica dal 2012 al 2018.
Fra le risorse industriali di Kombolcha si segnala l’acciaieria Kombolcha Steel Products, parte dell’impero industriale MIDROC (Mohammed International Development Research and Organization Companies) del miliardario etiope-saudita Sheikh Mohammed Al Amoudi, una fabbrica che, data la specializzazione metalmeccanica sarà prevedibilmente utilizzata, se possibile, dai tigrini per produzioni di natura militare, perlomeno quelle di tipo più semplice, come potrebbero essere la lavorazione al tornio di munizioni standardizzate o la blindatura aggiuntiva di veicoli a disposizione del TDF.
Stato d’emergenza
Dopo che le sue forze sono state respinte verso Sud, il governo federale etiopico ha decretato il 2 novembre 2021 lo stato d’emergenza, iniziando a lanciare appelli dal crescente sapore di “guerra totale”, il che non fa ben sperare nella possibilità di una trattativa, perlomeno entro poco tempo. Lo stato d’emergenza durerà, salvo rinnovi, per sei mesi, ed è stato illustrato in televisione dal ministro della Giustizia Gedion Timothewos, che ha dichiarato punibile con detenzione da 3 a 10 anni chiunque sostenga in qualche modo i tigrini.
Al ricorso al coprifuoco e all’intensificazione della sorveglianza di polizia, che inevitabilmente sta portando a maggiori arresti dei cittadini di etnia tigrina, la misura più importante, da un punto di vista militare, è la promozione di una forma di difesa civile, esortando gli abitanti della capitale ad armarsi, registrando fucili e pistole già di proprietà personale e organizzando milizie a livello di quartiere.
Il responsabile della sicurezza della capitale, Kenea Yadeta, ha così invitato alla mobilitazione a supporto dei militari regolari, nell’eventualità di di un attacco alla città: “Tutti gli abitanti devono organizzarsi quartiere per quartiere, isolato per isolato, per proteggere la pace e la sicurezza. Devono farlo coordinandosi con le forze di sicurezza.
Coloro che hanno armi ma non possono prendere parte alla salvaguardia della propria città sono invitati a consegnare le pistole o i fucili al governo o ai loro parenti stretti o amici”. Lo stesso Abiy Ahmed Alì ha implicitamente ammesso l’insufficienza delle forze armate ENDF, dichiarando il 3 novembre: “È sciocco sperare che il nostro esercito ce la faccia da solo. La vittoria sopra la minaccia dei nostri nemici è impossibile se non lavoriamo uniti”.
In effetti, pur nella scarsità di fonti, si può arguire che le forze regolari si siano, in proporzione, logorate, in un anno di guerra, assai più di quelle avversarie, che invece, partendo con tono dimesso, hanno avuto una tendenza alla crescita. In agosto il presidente tigrino Debretsion Gebremichael stimava le perdite nemiche in “18.000 soldati uccisi e 8.000 fatti prigionieri”.
Esatte o no che siano le cifre, tenendo conto dell’ovvia opera di propaganda, l’andamento sul campo di battaglia è comunque indizio sicuro che l’esercito di Addis Abeba deve aver patito danni pesanti. In novembre, Alex de Waal, direttore della World Peace Foundation presso la Tufts University, sentito dal sito Avhal, ha dichiarato: “I combattimenti sono intensi e feroci, con forse 100.000 soldati già morti dalla parte etiope.
Cinque milioni di civili hanno bisogno di aiuti alimentari a causa del conflitto, eppure l’Etiopia sta ancora acquistando droni e altre armi”. Secondo de Waal, “forse 30.000 soldati governativi sarebbero morti nella sola fallita offensiva di ottobre 2021”, principalmente a causa della loro inesperienza nel combattimento, al confronto con i collaudati veterani tigrini.
Il 4 novembre un comunicato ufficiale del Ministero delle Comunicazioni di Addis Abeba lasciava intendere, con una efficace immagine, come una speranza del governo centrale sia quella di attirare i ribelli troppo vicino alla capitale, in una battaglia che possa vederli a malpartito perchè troppo avanzati rispetto alle loro linee di rifornimento: “Un ratto che si allontana molto dalla sua tana è più vicino alla sua morte”.
Dopo l’appello di Abiy per la resistenza a oltranza, già alla data dell’8 novembre sarebbero stati almeno 10.000 i civili di Addis Abeba che si sono ufficialmente armati e coordinati con le ENDF per supportare la difesa della città, registrando presso le autorità le loro armi individuali, secondo quanto dichiarato dal portavoce della polizia Fasika Fenta.
La temuta offensiva dei ribelli, però, non si è ancora verificata, e per comprensibili motivi che riguardano la difficoltà di spingersi fino alla capitale in una regione di grande altitudine, l’Acrocoro Etiopico, con quote medie superiori ai 2000 metri. La capitale si trova a circa 2400 metri e il terreno non aiuta avanzate rapide. Il fronte dei ribelli preferisce, da un lato stare a vedere se Ahmed Alì è disposto a trattare, dall’altro, prepararsi a chiudere una morsa che tranci le vie di rifornimento dirette al cuore del paese, in modo da far cedere il nemico per fame.
Non si capisce come la CNN abbia potuto il 3 novembre parlare di ribelli “alle porte della capitale”, se non nell’ambito di una guerra di propaganda sui media. E’ molto improbabile anche l’eventualità che la notizia si riferisse alla erronea interpretazione dell’avvistamento fugace di piccoli nuclei tigrini od oromo in semplice ricognizione mordi-e-fuggi fino alla periferia della capitale, magari a bordo di veloci fuoristrada armati, quelli che nelle guerre africane sono universalmente noti come “tecniche”, jeep o pickup muniti in genere di una mitragliera pesante o un lanciarazzi sul pianale.
Da noi interpellato telefonicamente per un commento, l’esperto di Africa Orientale Vincenzo Meleca ha pure ridimensionato ipotesi di mere avanscoperte tigrine.
“Dubito molto che miliziani tigrini possano essersi potuti avvicinare alla periferia di Addis Abeba con pattuglie di veicoli come le ‘tecniche’ a causa delle caratteristiche delle strade della regione, molte delle quali sono ancora vecchie strade tracciate all’epoca del colonialismo italiano. Esse giungono alla capitale attraverso tracciati fra gole e alture, con molte curve. Non è un terreno aperto e pianeggiante che possa rendere possibili veloci avvicinamenti a sorpresa e successivi sganciamenti. Anzi, dietro ogni tornante, ogni costone, ogni curva, può bastare l’appostamento di pochi uomini ben armati per bloccare e respingere, o almeno trattenere per molto tempo, un’autocolonna in avanzata”. L’opinione di Meleca è un ulteriore conferma del fatto che sembra prematura un’avanzata sulla capitale, perlomeno in tempi brevi.
Il 4 novembre, mentre il portavoce tigrino Reda sosteneva che “non è il nostro scopo principale attaccare Addis Abeba”, il TPLF e il fronte Oromo hanno siglato un’alleanza formale con altri gruppi etnici ribelli che intendono far riprendere all’Etiopia la via del federalismo, rovesciando Abiy o almeno obbligandolo alle dimissioni.
E’ nato così il Fronte Unito delle Forze Federaliste e Confederaliste d’Etiopia (UFEFCF), che comprende, sotto l’egida del più forte TPLF, il citato l’Esercito di Liberazione Oromo (OLA), il Fronte Democratico Rivoluzionario per l’Unità Afar (ARDUF), il Movimento di Liberazione del Popolo del Benishangul (BPLM), l’Esercito di Liberazione del Popolo di Gambella (GPLA), il Movimento Globale del Popolo Kimant per il Diritto e la Giustizia – Partito Democratico Kimant (KDP), il Fronte di Liberazione di Sidama (SLF) e la Resistenza dello Stato Somali.
E’ vero che il 7 novembre, fonti dell’Esercito di Liberazione del Popolo di Gambella hanno in un certo senso rinnegato la loro adesione, sostenendo che il loro delegato firmatario non aveva l’autorità necessaria. Ma la lega dei ribelli resta comunque abbastanza estesa da porre un problema politico molto serio.
O l’Etiopia riprende a essere una federazione, o, se Abiy Ahmed Alì si ostina sulla sua linea accentratrice, ne può ricavare la disintegrazione progressiva del paese, con conseguenze sulla stabilità di tutto il Corno d’Africa.
Del resto, per quanto la maggior parte di questi gruppi insurrezionali siano molto deboli, rispetto al TDF e all’OLA, è unanime l’opinione secondo cui la loro semplice esistenza serve anche solo a distrarre lontano dal fronte Tigrè-Oromo gran parte delle truppe regolari, alleggerendo quindi le difese della capitale.
Intanto, sull’onda dello stato d’emergenza, proseguono gli arresti di massa da parte delle autorità etiopiche. Il 5 novembre sono stati imprigionati 17 salesiani, fra missionari e loro collaboratori, e il giorno dopo è toccato al cooperante italiano Alberto Livoni, della Ong VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), con l’accusa di essere in finanziatore del fronte tigrino.
Grazie all’intervento dell’Ambasciata d’Italia ad Addis Abeba, Livoni e anche salesiani sono stati liberati il 14 novembre. Il 9 novembre, tuttavia, l’ONU ha denunciato l’arresto ad Addis Abeba di una decina di suoi impiegati di etnia tigrina, mentre l’indomani, nella zona di Semera, sono stati fermati ben 72 autisti assunti dal PAM, Programma Alimentare Mondiale.
Il comunicato delle Nazioni Unite del giorno 10 recitava: “Confermiamo che 72 autisti con il contratto di collaboratori esterni del Pam sono stati arrestati a Semera. Siamo in contatto con il governo dell’Etiopia per capire le ragioni dietro al loro arresto”. Una parte di essi è stata poi liberata, ma ancora il 17 novembre è toccato al segretario generale delle Nazioni Unite in persona, Antonio Guterres, chiedere la “liberazione di 34 camionisti del PAM, più 10 funzionari ONU ancora in carcere”.
Un rapporto dell’ONU diramato il 16 novembre a Ginevra dalla portavoce dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani (UNHCR) Liz Throssell, valutava in “oltre 1000 i civili, forse molti di più”, per la maggior parte tigrini, imprigionati in varie località fra cui, oltre alla stessa Addis Abeba, Gondar e Bahir Dar nella sola prima settimana successiva alla proclamazione dello stato d’emergenza.
Poco dopo, il 18 novembre un comunicato dell’ambasciata degli Stati Uniti ad Addis Abeba ha definito “fluido” il contesto della sicurezza, segnalando “arresti arbitrari, detenzioni, e persecuzioni di individui sulla base della loro etnia”, rilevando l’aumento dei posti di blocco della polizia e temendo la possibile detenzione anche di cittadini americani.
Stallo militare
Intervistato il 9 novembre dalla televisione britannica BBC, il portavoce tigrino Reda ha fatto chiaramente capire che il fronte ribelle potrebbe marciare su Addis Abeba, ma solo se il governo non fosse disposto a trattare su alcune condizioni: “L’ostacolo alla pace è l’ossessione del primo ministro Abiy Ahmed per una soluzione militare a quello che è essenzialmente un problema politico.
La nostra marcia non riguarda tanto Addis Abeba, ma la nostra intenzione di costringere Abiy a revocare il blocco sul nostro popolo. Spetta ad Abiy dire di sì alle nostre richieste…e porre fine al conflitto”.
In sostanza, ai tigrini preme la fine dello stato d’assedio che da un anno condanna alla fame centinaia di migliaia di persone sul loro territorio, anche per il blocco dell’afflusso di viveri assicurato dalle organizzazioni umanitarie, accusate dal governo di appoggiare i tigrini.
Per contro, la sera dell’11 novembre il governo etiopico ha reso note le sue condizioni per un eventuale negoziato con i ribelli tigrini, che secondo il portavoce del ministero degli Esteri, Dina Mufti, “devono ritirarsi dalle regioni di Afar e Amhara, fermare gli attacchi e riconoscere la legittimità del governo”. In sostanza, Abiy Ahmed Alì vuole restare in sella, ma data la ferocia del conflitto, con le accuse di ripetuti massacri e stupri, perpetrati dalle forze governative e dalle milizie di fiancheggiatori, nel Tigrè, sembra essersi creato un fossato troppo ampio perchè ad Addis Abeba possa sopravvivere il medesimo esecutivo.
Ciò non toglie che gli abusi possano essere stati commessi da entrambe le parti. Nelle ultime settimane sono emerse critiche alla CNN per il modo in cui starebbe raccontando il conflitto, non mostrandosi imparziale e demonizzando Addis Abeba.
Che però, come in tutte le guerre, il bene e il male non siano polarizzati da una parte o dall’altra del fronte, lo dimostrano notizie come quelle trapelate il 10 novembre a proposito di abusi commessi dai tigrini. Quel giorno Amnesty International ha divulgato, dalla sua sede keniota di Nairobi, le testimonianze raccolte sul campo da suoi volontari nella regione etiopica dell’Amhara. Almeno 16 donne hanno dichiarato ad Amnesty di essere state violentate e derubate, e di esse quasi tutte, 14, hanno subito stupri di gruppo, a opera di guerriglieri del fronte tigrino.
Al momento attuale, fra novembre e dicembre 2021, si prospettano alcune opzioni che appaiono percorribili ai ribelli per cercare di isolare Addis Abeba senza bisogno di uno scontro frontale, che necessiterebbe di molto tempo per la raccolta di forze e la costituzione di riserve strategiche.
Da un lato, tigrini, oromo e i loro alleati possono cercare di sfondare nell’area, ancora contesa, di Mile, nella regione dell’Afar, per interrompere l’autostrada A1 e anche la B11, che si spingono a Gibuti, e al mare. Ancora attorno al 15 novembre, tuttavia, i governativi sembravano resistere bene a Mile, sebbene esposti ad attacchi dalla vicina Kasa Gita, dove le truppe TDF restano ben posizionate e difficili da far sloggiare.
Ma anche la zona dell’autostrada A3, fra Oromia e Amhara, può essere occupata. In quel settore è particolarmente attiva la guerriglia Oromo, che sostiene di aver praticamente circondato gli ultimi 50 km dell’arteria prima del confine Oromia-Amhara, nel tratto Golje Giyorgis- Gebre Guracha. Con queste offensive focalizzate sulle arterie di comunicazione, la capitale rimarrebbe collegata al mondo esterno solo attraverso la ferrovia per Gibuti, essa stessa vulnerabile, e le insicure arterie A7 e A8 per il Kenya, con cui il governo sta trattando.
Non a caso il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta è stato in visita il 14 novembre ad Addis Abeba, incontrando Abiy, ed esplorando possibilità di mediazione, ma essendo preoccupato dal flusso di profughi verso il suo paese, ha da giorni chiuso le frontiere del Kenya.
Anche se un approccio diretto alla capitale pare al momento improbabile, nel breve periodo, il 17 novembre l’ente aeronautico americano civile, la FAA (Federal Aviation Administration) ha ritenuto opportuno avvertire tutte le compagnie aeree USA che abbiano velivoli in transito dall’aeroporto internazionale di Addis Abeba a vigilare affinchè, in caso di scontri in città, gli aerei civili non siano “esposti, direttamente o indirettamente a fuoco di armi terrestri o di armi contraeree”.
Il TPLF, peraltro, deve badare in questa fase del conflitto a come risolvere la “grana” eritrea, dato che, seppure provato dalla recente riscossa tigrina, l’esercito di Asmara, alleato dell’Etiopia è ancora presente sulla frontiera settentrionale del Tigrè. Occupa una fasca lunga 200 km e larga fino a 30 km lungo la direttrice Adua-Adigrat. Molti ritengono che il TPLF punti ad arrivare a un compromesso con Addis Abeba per poi concentrare le proprie forze a Nord e travolgere le difese eritree fino ad arrivare ad Asmara e rovesciare il presidente Isaias Afewerki.
Nel far ciò, i tigrini si potrebbero avvalere della collaborazione della diaspora delle migliaia di dissidenti eritrei, e loro famiglie, rifugiatisi in Tigrè, essi stessi vittime nell’ultimo anno delle violenze degli occupanti provenienti dalla loro patria originaria.
L’obbiettivo, sul lungo periodo, di un cambio di regime in Eritrea avrebbe, agli occhi della dirigenza di Macallè, lo scopo di trasformare il paese da avversario in alleato per potersi assicurare uno sbocco al mare commerciale mirando infine all’indipendenza del Tigrè.
La drammatica esperienza degli ultimi 12 mesi avrebbe convinto moltissimi tigrini che non ci si può aspettare molto anche da una Etiopia federale. Ma una totale indipendenza tigrina vedrebbe contrari gli attuali alleati, in primis il fronte Oromo, del TPLF, ponendo le basi di un ulteriore conflitto.
Per essere sicuri di potersi in futuro conquistare l’indipendenza totale da Addis Abeba, i tigrini dovrebbero quindi agire, per evitare di essere di nuovo presi tra due fuochi, cessare il conflitto oggi, o nel breve periodo, con il governo centrale etiope, per preparare un attacco a Nord capace di portarli ad Asmara e imporre un governo amico, che assicuri loro i rifornimenti via mare.
E’ certo una partita delicata, per la cui esecuzione, tuttavia, i tigrini sembrano avere forze, ed esperienza di combattimento, sufficienti. Già in settembre sono state diffuse immagini che documentano la cattura da parte dei tigrini di crescenti quantità di armi e mezzi pesanti dell’esercito etiopico. Il 13 settembre il portavoce tigrino Getachew Reda aveva dichiarato al proposito: “Non ci sono fornitori su cui il Tigrè possa contare per pezzi d’artiglieria, munizioni e missili, se non lo stesso esercito di Abiy Ahmed Alì. Al momento attuale, abbiano catturato più armi di quante ne abbiamo prese il mese scorso”.
Un esempio lampante viene da un recente filmato di un convoglio catturato presumibilmente dopo essere caduto in un’imboscata dei ribelli.
Nel breve video, postato su Twitter si vedono bene almeno due carri da battaglia T-72 di origine sovietica, vecchi ma ancora attivi e aggiornati con mattonelle di corazza reattiva applicate su torretta e scafo, oltre a numerosi, forse più di una decina di autocarri, la maggior parte dei quali da trasporto e che dovevano avere a bordo una certa quantità di materiale o munizioni, altri muniti invece di mitragliere pesanti con affusto sul pianale aperto, oltre ad almeno due pezzi d’artiglieria trainata.
Più in generale, lo stock di armamenti caduto in possesso dei tigrini, in parte fin da novembre 2020, quando si prepararono a resistere all’attacco governativo, in parte incrementato nei mesi seguenti al procedere delle battaglie, non sembra indifferente, a giudicare da una lista diffusa nel settembre 2021 dal sito web di open source intelligence Oryx.
Fra tali armamenti figurerebbero 85 carri armati russo-sovietici dei tipi T-55, T-62 e T-72, non si sa in quali condizioni, 29 APC, cioè blindati da trasporto truppe Type 89 e WZ-551, questi di fabbricazione cinese, 63 fra cannoni e obici trainati, 16 lanciarazzi multipli, 12 sistemi missilistici antiaerei Igla russi e 26 cannoni antiaerei fra cui primeggiano i russi ZSU-23 da 23 mm.
A riprova delle capacità tigrine, anche contraeree, la mattina dell’11 novembre il TPLF ha dichiarato l’abbattimento di un elicottero da combattimento Mil Mi-35 dell’aeronautica governativa fra Kasa Gita e Mile, dove, come ricordato, i tigrini non hanno ancora sfondato.
L’abbattimento dell’elicottero è confermato dal video postato su internet il 12 novembre dal canale tigrino TNews.
Nel filmato si vede il Mi-35 volare a bassa quota, poco sopra il costone di una collina, quando a un certo punto prorompe un’esplosione e il velivolo, o per meglio dire la sua carcassa, precipita filando dietro di sé una coda di fumo nero. La distanza e la cattiva qualità del video non lasciano intravedere segni luminosi di proiettili traccianti, per cui pare plausibile che il Mi-35 sia stato colpito da un missile antiaereo. Del resto, è proprio dall’aria che gli etiopi hanno fatto sentire la loro pressione con aerei e droni, non badando a spese pur di sopravanzare l’avversario in armamenti sofisticati.
L’ala di Ankara
Nel suo sforzo militare contro i ribelli tigrini e i loro alleati, il governo centrale etiope sta facendo enorme affidamento su fornitori esterni di vari armamenti, fra i quali spiccano specialmente i droni, o UCAV, (velivoli da combattimento senza equipaggio) dato che offrono un’opportunità relativamente economica, rispetto al rischio di perdere un costoso cacciabombardiere a reazione pilotato, di far valere una subdola pressione aerea su fanterie guerrigliere, sebbene i successi sul campo delle milizie TDF stiano lì a dimostrare che il controllo del cielo non basta a compensare i rovesci sul terreno.
Tra i principali fornitori militari del premier Abiy Ahmed si segnala la Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan, che perseguendo le sue direttrici geopolitiche neo-ottomane sta allargando la sua sfera d’influenza anche sull’Etiopia, oltre che sulla vicina Somalia.
Fra il 2019 e il 2021 l’interscambio commerciale turco-etiopico è balzato da 200 a 650 milioni di dollari, inoltre la Turchia si è confermata secondo investitore straniero nel paese, dopo la Cina, con più di 2,5 miliardi di dollari da parte di 200 aziende turche in settori più che altro industriali, laddove invece i cinesi si sono concentrati sulle infrastrutture. Quanto alle armi, si stima che solo nel primo trimestre del 2021 siano giunti in Etiopia, sistemi per un valore di 51 milioni di dollari.
Lo scorso 21 agosto Abiy Ahmed è stato ospite di Erdogan ad Ankara e proprio in quell’occasione ha stipulato un accordo di assistenza militare ad ampio spettro i cui dettagli non sono stati precisati, ma che contemplerebbero la fornitura alle sue forze armate di un numero non precisato di droni da attacco Bayraktar TB-2 (nelle due foto qui sotto esemplari della Marina Ucraina), in aggiunta a quelli che pare siano già giunti sul luogo.
E’ certamente un affarone anche per il clan del presidente turco, se è vero che la sua figlia minore Sumeyye ha sposato, fin dal 2016, Selcuk Bayraktar, responsabile tecnico della fabbrica Baykar Makina di Istanbul, che costruisce i TB-2 e che egli gestisce insieme ai fratelli Haluk e Ahmet, dopo averla ereditata dal defunto padre, il fondatore dell’azienda, Ozdemir Bayraktar.
Il TB-2, lo ricordiamo, è un drone di medie dimensioni e medie prestazioni che ha compiuto il suo primo volo nel 2014 e che i turchi impiegano operativamente almeno dal 2018 contro i ribelli curdi sulla fascia di frontiera con la Siria e dal 2019 in Libia, contro le forze di Khalifa Haftar, sebbene diversi di essi siano stati abbattuti dalla contraerea.
Controllato da terra da una squadra di 3 uomini in un’apposita stazione, è un velivolo a elica spingente, situata cioè a poppa, lungo 6,5 metri e con un’apertura alare di 12 metri, che può raggiungere una velocità massima di 220 km/h. Il motore è a pistoni, derivato da un Rotax di fabbricazione austriaca da 100 cavalli.
Ha un’autonomia virtuale di 27 ore di volo, potendo pattugliare a lungo una vasta area, mantenendosi a una quota abituale di 5500 m, che può arrivare però a un massimo di 8200 m. Il raggio d’azione reale si limita però a circa 150 km dalla stazione di terra, cioè finchè esso può essere controllato con segnali in propagazione a “linea di vista”, inefficaci a distanze superiori a cagione della curvatura terrestre.
Il TB-2 può portare un carico bellico di circa 150 kg che comprende vari tipi di armi guidate di produzione nazionale turca, come il piccolo missile Roketsan Cirit, razzo da 70 mm “missilizzato” grazie all’adozione di un sistema a guida laser, e in particolare la bomba, pure guidata dal fascio di luce coerente, MAM-L.
Proprio il ritrovamento da parte dei tigrini di rottami attribuiti a una bomba MAM-L, ha costituito alcune settimane fa un’ulteriore conferma dell’uso dei TB-2 turchi nel Tigrè (nella foto sotto un esemplare abbattuto in Libia). Era il 4 ottobre quando l’esperto Martin Plaut firmava un articolo per Eritreahub, mostrando la fotografia di un frammento di MAM-L pervenutogli da tigrini che l’hanno reperito sul campo dopo un attacco aereo nemico.
Il frammento mostra chiaramente la placchetta di fabbrica col nome della munizione a frammentazione, che deriva idall’acronimo turco Mini Akilli Mühimmat, che sta per Mini Munizione Intelligente, e che si configura come un ordigno lungo circa 1 metro, pesante 26 kg e sganciabile in volo, da droni oppure da normali aerei o elicotteri, entro un raggio massimo di 8 km dal bersaglio.
La targhetta mostrava, come data di fabbricazione dell’esemplare, il maggio 2021, mentre il numero seriale della bomba era MAML-ZD-994. Fin dallo scorso luglio, inoltre, prima cioè della visita del premier etiope ad Ankara, “fonti tigrine” hanno fatto sapere ad Eritreahub che la Turchia ha fornito ai governativi etiopi materiali per assemblare in loco almeno 10 droni, non si sa se TB-2 o di altro tipo, in un centro addestrativo dell’agenzia d’intelligence elettronica di Addis Abeba, la cosiddetta INSA, o Information Network Security Agency, all’amharica Yämäräǧa Märäbe Dähenenäte Eǧänesi, che è un po’ il corrispettivo locale della NSA americana, con le dovute proporzioni!
Un’agenzia che era stata fondata nel 2006, guarda un po’, proprio dall’allora giovane Abiy Ahmed, a quei tempi ufficiale del Signal Corps (trasmissioni e intercettazioni) dell’esercito e che la diresse personalmente dal 2008 al 2015.
Perciò il primo ministro etiope ha particolarmente a cuore lo sviluppo delle capacità nazionali nel campo dei droni da attacco, ma anche da sorveglianza. A curare il programma droni dell’INSA sarebbe di persona il direttore stesso dell’agenzia, Temesgen Tiruneh, ma anche Abiy avrebbe visitato alcune volte il centro per ispezionare l’assemblaggio dei velivoli UCAV. Inoltre è stata avviata la costruzione di una pista per far decollare i droni circa 10 km a Nord di Addis Abeba.
Dettagli più precisi sono evidentemente riservati, ma ciò che spicca è l’importanza dell’assistenza tecnica turca. Intuibilmente, Ankara non si limita a fornire il materiale bruto, sia esso costituito da droni interi e pronti al volo, da velivoli smontati o da pezzi di ricambio, accessori e munizioni, ma provvede anche all’incombenza del controllo remoto dalla stazione di terra, in principio forse con personale turco, sostituito via via con personale etiopico al procedere dell’addestramento.
Secondo Focus on Africa, inoltre, Abiy avrebbe chiesto a Erdogan anche un altro tipo di drone turco, il piccolo e insidioso STM Kargu, che gli etiopi vorrebbero comprare, o avrebbero già ottenuto, in circa 20 esemplari. Il Kargu, prodotto dalla Savunma Teknolojileri Mühendislik, è del tipo quadricottero, cioè elicottero a 4 rotori, ed è largo solo 60 cm, per un peso totale di poco superiore ai 7 kg. Considerato adatto alla guerra asimmetrica, il Kargu (nella foto a lato) può essere caricato con piccole munizioni per attacchi mirati anche a singole persone, come fosse un vero killer dell’aria.
Ciò per via del sofisticato computer di bordo, che sarebbe anche in grado di basarsi sul riconoscimento facciale. Operabile da un singolo addetto, ma beneficiante anche di una modalità automatica, il Kargu potrebbe essere utilizzato dall’esercito etiopico per eliminare elementi di spicco delle milizie TDF, ad esempio, oppure per bombardare in modo capillare piccoli distaccamenti nemici in perlustrazione.
Se usato in diversi esemplari, può dar luogo a veri e propri “sciami”. Fra i suoi vantaggi ci sarebbe la possibilità di manovre in picchiata spiralante per confondere la contraerea, sebbene la velocità massima sia solo di 72 km/h. Fra gli svantaggi, la limitata autonomia, con raggio d’azione di 5 chilometri, che esige che l’operatore si ponga praticamente in prima linea.
L’ombra di Pechino
Fin dall’inizio del conflitto tigrino si parla del ruolo di droni di produzione cinese a supporto dell’esercito etiopico, inizialmente per interposta persona degli Emirati Arabi Uniti, essi pure schierati al fianco di Addis Abeba e di Asmara, poi in modo più diretto.
Che la Cina armi l’Etiopia non deve stupire, data la sua preminenza economica nel paese. I cinesi sono i maggiori investitori esteri e, con prestiti di 6,5 miliardi di dollari, detengono in sostanza il 23% del debito pubblico del paese africano, stimato sui 27,8 miliardi di dollari, mentre il volume annuo di commercio bilaterale supera 2,5 miliardi di dollari.
I cinesi sono particolarmente presenti nelle infrastrutture, specialmente la costruzione o l’ammodernamento di ferrovie, strade e della rete di telefonia, fissa e mobile. E mentre l’Etiopia è preziosa per la Cina come mercato per i suoi manufatti, anche elettronici, nonché come vedremo anche per le armi, per l’economia di Addis Abeba le esportazioni verso Pechino riguardano soprattutto prodotti agricolo, specialmente olio di semi, rame e zinco.
Il 12 ottobre il sito d’informazione Eritrean Hub ha citato la testimonianza di un anonimo meccanico della ditta locale Dejen Aviation Engineering Industry, o DAVI, che nell’omonima città di Dejen, nella regione Ahmara, si occupa da anni della manutenzione e aggiornamento dei velivoli militari etiopici.
Secondo questo meccanico, all’inizio del conflitto le forze aeree di Addis Abeba contavano su almeno sei droni di origine iraniana Qods Mohajer 6 (nella foto qui sotto) più altri di provenienza emiratina, i quali sarebbero essi stessi di produzione cinese. In data 17 settembre 2021 è atterrato sulla base etiope di Harar Meda un aereo da trasporto ucraino Antonov An-124, matricola UR-82029, della compagnia Antonov Airlines, che era decollato da Chengdu, in Cina e aveva fatto scalo a Islamabad, capitale pachistana, prima di raggiungere infine l’Etiopia.
A bordo del colossale An-124, noto anche come Ruslan con un’apertura alare di 73 metri e un peso massimo di 400 tonnellate, erano stivati, insieme ad altro materiale, tre droni cinesi Wing Loong I.
Ancor prima, l’8 settembre, Eritrean Hub aveva intervistato il generale etiope Yilma Merdassa, comandante in capo dell’Aeronautica governativa (Ethiopian Air Force o, in amharico, Ye-Ītyōṗṗyā Ayer Hayl), il quale ha apertamente mostrato al giornalista un modellino di Wing Loong I che campeggiava su un tavolino (come si vede fin dai primi minuti del video dell’intervista).
Il capo dell’aviazione etiopica spiegava: “L’Etiopia è in ottima posizione nel settore dei droni e ne sta pianificando l’uso non solo per oggi, ma per i prossimi dieci anni”. Il generale Merdassa non ha però specificato da quali paesi vengono comprati i droni, ribattendo al reporter di porre quella domanda “ai dipartimenti responsabili del governo”.
Il Wing Loong I (nella foto sopra un esemplare abbattuto in Libia), prodotto dalla CAIG di Chengdu a partire dal 2009, è un velivolo un po’ più grosso e potente del TB-2 turco, essendo lungo 9 m, con apertura d’ali di 14 m e una capacità di carico bellico di 200 kg, fra bombe e missili, su 6 punti di attacco. La velocità massima è di 280 km/h, assicurata da un motore a pistoni Rotax da 100 cavalli posto in coda ad azionare l’elica, mentre l’autonomia è di 20 ore di volo continuo, potendo arrivare a una quota di circa 5000 metri.
La versione potenziata Wing Loong II (nella foto in basso) che ha un’apertura alare di 20 m e un’autonomia di 32 ore, con capienza aumentata a 12 bombe o missili e velocità massima di 370 km/h, sarebbe stata già usata fin da novembre e dicembre 2020, nelle prime fasi del conflitto, dagli emiratini in aiuto agli alleati etiopi ed eritrei a partire dalla base di Assab, in Eritrea, come confermato a suo tempo da foto satellitari.
E’ interessante notare che, per il tramite emiratino, sarebbero giunti in Etiopia anche droni cinesi di tipo imprecisato, di origine civile, adattati un po’ artigianalmente allo sgancio di due proiettili da mortaio da 120 mm, come dimostrano alcune fotografie scattate lo scorso giugno da militari etiopici nell’area di Maychew e diffusesi sul web soprattutto dallo scorso settembre e ottobre.
Si tratta di quadricotteri dell’apparente ingombro massimo di 1-1,2 m, con 4 coppie di doppi rotori coassiali e controrotanti, separati dal corpo principale da altrettanti bracci. Ai fianchi del corpo centrale, nel mezzo tra i bracci, sono stati applicati due tubi verticali, che contengono le granate e il cui sbocco inferiore è evidentemente chiuso da una paratia che si apre a telecomando lasciando cadere l’ordigno quando il drone sorvola l’obbiettivo prescelto.
La questione di questi droni ancora “misteriosi” è stata affrontata il 6 ottobre dagli esperti olandesi Stijn Mitzer e Joost Oliemans in una loro analisi per Oryx, in cui hanno fatto capire che un sistema così rudimentale potrebbe servire quasi solo per attaccare in modo terroristico i civili. Infatti, questo drone non ha nessuna vera precisione di tiro, a meno di non portarsi a quota così bassa, e magari in volo stazionario, da poter esser facilmente abbattuto anche solo con raffiche Kalashnikov.
Pertanto, gli unici obbiettivi militari che potrebbe colpire sarebbero forse assembramenti molto estesi di fanteria, oppure basi fisse di una certa estensione, sulle quali però due proiettili isolati causerebbero pochi danni. L’efficacia militare di questo orpello, sembra dunque limitatissima, salvo il contribuire a creare almeno intimidazione e confusione in campo avverso o terrorizzare i civili.
Droni a parte, comunque, la Cina offre supporto all’Etiopia in molte altre forme, addestrando sul suo territorio ufficiali dell’esercito e fornendo armi pesanti campali come il lanciarazzi multiplo da 300 mm Norinco AR-2, denominazione da esportazione del PHL-03, che l’azienda cinese ha sviluppato ispirandosi al BM-30 Smerch russo.
E’ un’arma micidiale, consistente in un sistema di 12 tubi lanciarazzi montati su un autocarro da 43 tonnellate lungo 12 metri. Ogni razzo pesa 800 kg e porta una testata bellica da 280 kg, mentre la gittata massima tocca 130 km. Se dotati di una testata a grappolo, questi razzi possono, con una sola salva “saturare” un’area di 67 ettari.
Vari sono i tipi di testata montabile sui vettori e in alcuni tipi di attacco si può optare per una certa precisione di fuoco assicurata da data link del computer di controllo di fuoco dell’autocarro lanciatore con la rete satellitare cinese Beidou, corrispettivo del GPS americano, del Glonass russo e dell’europeo Galileo.
Sembrerebbe che l’Etiopia abbia ricevuto, come minimo, almeno 4 di questi sistemi, ma il loro numero dev’essere cresciuto negli ultimi mesi, tenuto conto del fatto che qualcuno di essi risulta essere stato catturato dalle milizie tigrine.
Ponti aerei
Gli Emirati Arabi Uniti, dal canto loro, con frequenti voli che atterrano direttamente alla base di Harar Meda, starebbero fornendo ingenti quantità di fucili d’assalto prodotti dalla Caracal, una società emiratina con sede ad Abu Dhabi che ha prodotto una gamma di fucili d’assalto in calibro 5,56 mm, che sarebbero però stati distribuiti solo alle truppe d’elite etiopi, una sorta di “Guardia Repubblicana”, aggiungendosi ai fucili TAR-21 di fabbricazione israeliana il cui impiego da parte di questi reparti è documentato dal 2017.
Nell’ambito delle armi da fanteria, non va dimenticato peraltro che l’Etiopia conta su una sua fabbrica a Gafat, in Oromia, la Gafat Armament Engineering Complex, specializzata nel riprodurre, interi o per pezzi di ricambio, fucili d’assalto Kalashnikov della serie classica AK-47 e anche della nuova serie AK-103. Sempre in Oromia, ad Ambo, c’è inoltre uno stabilimento per la produzione di munizioni di vari calibri, la Homicho Ammunition Engineering Complex. Sia la Gafat, sia la Homicho sono state modernizzate col consistente aiuto della Corea del Nord.
Sebbene più defilato, anche l’Iran sta sostenendo lo sforzo di Addis Abeba con una sorta di ponte aereo in sordina. Se, come già detto, alcuni droni Qods Mohajher 6 erano già presenti nel 2020, altri potrebbero essere arrivati con voli di Ilyushin Il-76 della compagnia cargo iraniana Pouya Air segnalati più volte in arrivo ad Harar Meda, in alternanza con altri Il-76 della compagnia cargo ucraino-kirghisa Fly Sky Airlines, come rilevato da fonti locali.
In dettaglio, fra gli episodi più recenti, ci sarebbero arrivi di Il-76 iraniani e ucraini alla base etiopica il 23 luglio, 16 agosto, 6 settembre e 15 ottobre. Che gli etiopi, nella loro vasta congerie di UCAV, stiano adoperando anche velivoli iraniani, lo riteneva probabile anche un articolo di Jeremy Binnie per l’autorevole Jane’s in data 18 agosto 2021.
Egli citava immagini di una visita di Abiy alla base aerea di Semera, il 3 agosto, in cui si intravedevano droni compatibili con le sembianze del Mohajer 6 (nella foto sotto), oltre a foto satellitari che ne mostrano almeno due nello stesso luogo. Si era ipotizzato potessero essere altri tipi come il turco Vestel Karayel o il cinese GAIC Air Sniper, ma gli esperti ritengono molto più probabile trattarsi del Mohajer 6.
Sviluppato dalla fabbrica Qods, il drone iraniano ha prestazioni inferiori rispetto al Wing Loon o al TB-2, ma assicura comunque la sorveglianza di un’area per 12 ore, potendo trasportare sotto due piloni subalari ordigni Qaem a guida televisiva e infrarossa.
Lo scorso 8 ottobre, inoltre, la CNN ha ampiamente documentato il ripetuto ricorso a velivoli della compagnia di bandiera nazionale Ethiopian Airlines, fin dall’inizio della guerra, per trasportare armi e munizioni fra Addis Abeba e le basi eritree di Massaua e Asmara, un modo di Abiy di sostenere fattivamente l’alleato Afewerki contro i comuni avversari tigrini.
La compagnia etiope ha negato ogni coinvolgimento, sebbene CNN citi esplicitamente diversi velivoli Boeing 777, in versione cargo, del vettore coi loro numeri di matricola, ET3312, ET3313 ed ET3314.
La televisione americana ha raccolto testimonianze anonime di alcuni dipendenti delle Ethiopian Airlines che dietro anonimato hanno spiegato come gli equipaggi dei velivoli, appena decollati da Addis Abeba, spegnevano l’apparato di bordo ADS-B (Automatic Dependent Surveillance–Broadcast) che consente in genere di tracciare i voli civili, anche a uso di siti internet come Flightradar24, talchè gli aerei “sparivano” prima di arrivare alla frontiera con l’Eritrea.
Uno dei testimoni, che lavorava all’Aeroporto Internazionale di Bole-Addis Abeba, avrebbe raccontato alla CNN come un Boeing 777 delle EA, originariamente diretto in Belgio con a bordo un carico di fiori (!) è stato invece caricato di veicoli e armi e fatto passare dall’Eritrea: “I veicoli erano pickup Toyota dotati di una postazione per tiratori.
Ho ricevuto in tarda nottata una telefonata dal mio direttore, che mi chiedeva di occuparmi del carico. I soldati sono arrivati alle 5 del mattino per caricare due grossi camion pieni di armi e i pickup. Dovetti fermare un 777 che era diretto a Bruxelles, che era carico di fiori, poi abbiamo scaricato metà di quei beni deperibili per fare posto per le armi”.
Così l’aereo trasportò il suo carico militare fino in Eritrea, per poi tornare ad Addis Abeba e riprendere la rotta per il Belgio col suo innocente carico di fiori.
Molti di questi testimoni erano impiegati aeroportuali di etnia tigrina, poi licenziati nei mesi seguenti, ma non prima di aver fatto in tempo a notare questi movimenti sospetti, fra l’altro caratterizzati da una sorta di incrocio di forniture, cioè la prevalenza di armi leggere nei carichi che dall’Etiopia prendevano la via dell’Eritrea, mentre da Asmara, dove avevano fatto scalo, arrivavano alla capitale etiope velivoli con a bordo armamenti più pesanti, quelli di più probabile produzione cinese o turca per i quali l’Eritrea era solo uno scalo, essendo probabilmente stati trasportati fino ad Assab per via marittima.
Come ricorda la CNN, nel giugno 2021 furono diffuse in rete fotografie scattate clandestinamente nei mesi precedenti da alcuni di questi impiegati aeroportuali etiopi che mostravano casse di armi e munizioni nella stiva di un 777 delle Ethiopian Airlines. Fotografie in cui l’esperto britannico Dan Kaszeta del Royal United Services Institute ha riconosciuto granate da mortaio O-832-DU da 82 mm di origine russa, ma che vengono costruite anche in Bulgaria e Iraq.
Diplomazia al lavoro
La possibilità che il conflitto interno in Etiopia si incancrenisca e si saldi alla perdurante crisi della vicina Somalia, sempre spaccata fra il governo di Mogadiscio e il terrorismo islamista Shabab, nonché alla parallela crisi esterna fra l’Etiopia e l’asse Egitto-Sudan per la contestata diga GERD sul Nilo Azzurro, rende febbrile l’attività della diplomazia internazionale.
La posizione degli Stati Uniti, si è delineata sempre più nel senso di crescenti critiche al governo centrale etiope, tanto che il 2 novembre 2021 il presidente Joe Biden ha stabilito la revoca, a partire dal 1° gennaio 2022, delle preferenze commerciali USA verso l’Etiopia, ciò a causa delle “gravi violazioni dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale”, evocate dallo stesso presidente. D’altronde, il segretario di Stato Anthony Blinken aveva già parlato in quei giorni di “pulizia etnica”.
Con questi presupposti, fra il 3 e il 4 novembre si è recato ad Addis Abeba l’inviato speciale statunitense per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, che ha tentato una inutile mediazione. Feltman ha però anche lanciato un monito ai ribelli dell’asse Tigrè-Oromia perchè evitino di avanzare sulla capitale preferendo invece intavolare trattative.
Visti gli scarsi risultati della missione di Feltman, il 5 novembre Blinken ha usato toni perentori, facendo ben capire come agli Stati Uniti prema soprattutto evitare la destabilizzazione a catena della regione del Corno d’Africa: “Il conflitto in Etiopia deve finire. Devono iniziare immediatamente, senza precondizioni, negoziati di pace per un cessate il fuoco”.
E’ entrato in scena anche l’inviato speciale per il Corno d’Africa dell’Unione Africana, l’ex-presidente nigeriano Olesegun Obasanjo, che il 7 novembre ha incontrato il presidente del Tigrè e leader del TPLF, Debretsion Gebremichael, nell’ottica di una mediazione.
Questo incontro è stato importante, poiché i tigrini, fino a pochi giorni prima, erano stati sempre critici verso l’Unione Africana, la cui sede ufficiale è nella stessa Addis Abeba, considerandola filo-etiope. Il 9 novembre, il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, ha spiegato che anche Feltman ha incontrato Obasanjo. Stando a Price: “Crediamo ci sia poco tempo per cominciare a lavorare con Obasanjo.
Ci siamo impegnati anche con il TPLF e con tutte le parti per cercare di metterle su una strada di cessazione delle ostilità”. Frattanto, dell’Etiopia s’interessava anche l’intelligence italiana, coi suoi canali ovviamente riservati, come si evince dal fatto che il 9 novembre a Roma il COPASIR, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, presieduto dal senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso, s’è riunito per ascoltare un’ampia relazione del direttore dell’AISE (Agenzia informazioni e sicurezza esterna), generale Giovanni Caravelli.
Il capo dei nostri servizi segreti esteri ha illustrato la relazione generale dei maggiori temi d’intelligence d’interesse nazionale relativa al primo semestre del 2021, approfondendo fra gli altri temi, anche quello della guerra civile etiopica, come confermato dal senatore Urso: “Ci si è poi soffermati sulla drammatica crisi che investe l’Etiopia e che vede l’avanzata delle milizie del Tigrè verso la capitale Addis Abeba, anche in considerazione delle possibili ricadute sulla dinamica dei flussi migratori e della penetrazione islamica nel Corno d’Africa, Regione di nostro prioritario interesse strategico”.
Gli Stati Uniti, hanno poi inasprito il loro atteggiamento verso l’Eritrea, laddove invece con l’Etiopia paiono più orientati alla mediazione con la collaborazione degli altri paesi africani.
Il Dipartimento di Stato USA ha infatti annunciato il 12 novembre nuove sanzioni contro il governo di Asmara tramite l’Ordine Esecutivo 14046 dell’Office of Foreign Assets Control (OFAC), diretto da Andrea Gacki, che ha dichiarato la presenza delle truppe eritree sulla fascia settentrionale del Tigrè “un concreto impedimento alla fine dei combattimenti in corso e all’aumento delle attività connesse con la distribuzione degli aiuti umanitari”.
Colpiti dalle sanzioni americane sono quattro enti e due individui. Nella fattispecie, le Forze di Difesa Eritree (EDF), il partito unico del presidente Afweerki, ovvero il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (PFDJ), e due società commerciali che di fatto costituiscono le colonne economiche del regime di Asmara, cioè la Red Sea Trading Corporation e la Hidri Trust.
Gli individui sanzionati sono invece Hagos Ghebrehiwet Kidan, consigliere economico del PFDJ e amministratore delegato della Red Sea Trading Corporation, e Abraha Kassa Nemariam, che comanda l’Ufficio per la Sicurezza Nazionale eritreo. Il pugno di ferro contro il regime di Afewerki potrebbe essere un indizio del fatto che, sotto sotto, l’America potrebbe anche sostenere i tigrini per quanto riguarda un cambio di regime in Eritrea.
Il 15 novembre è stato lo stesso segretario di Stato americano Blinken a partire per l’Africa, dove, in Kenya, ha incontrato le autorità di Nairobi. Dopo il vertice, mentre il segretario USA ribadiva la necessità di “evitare l’implosione dell’Etiopia e ripercussioni negli altri paesi”, la ministra degli Esteri kenyota, Raychelle Omamo, offriva maggiori segnali di speranza: “Crediamo nella possibilità che l’Etiopia trovi una soluzione a questa crisi. Crediamo che un cessate il fuoco sia possibile”.
Il 18 novembre, sono tornati in Etiopia per nuovi colloqui sia Obasanjo, sia Feltman, intenzionati a fare la spola fra Addis Abeba e Macallè con proposte e controproposte di pace.
Foto: TPLF/TDF, Forze Armate Etiopiche, Twitter, Defense Express, LNA, GNA e AFP
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