Armenia: troppo piccola per essere temuta, strategicamente troppo importante per essere ignorata
Relazioni internazionali sempre più conflittuali stanno accompagnando il vecchio ordine mondiale su un sunset boulevard, dove le nazioni più piccole diventano obiettivo della competizione tra egemoni ed interpreti di più attente strategie di sopravvivenza.
Ultimamente si è assistito ad un percettibile mutamento degli equilibri di forza in ambito mediorientale, con tutti i possibili limiti del disimpegno di Washington, invischiata in tutte le più recenti crisi, con Iran e Russia indeboliti in Siria a vantaggio di Israele e Turchia. L’Armenia non fa eccezione, affrontando contingenze tipiche delle nazioni in balia di altrui politiche di potenza e di uso della forza quali elementi determinanti e dove è ormai necessario decidere se dirigere verso Occidente o mantenere una liaison con Mosca interrogandosi su sovranità, autonomia strategica, stabilità.
Geopoliticamente l’Armenia è un problema piantato all’incrocio tra Europa e Asia, un punto di scontro tra imperi protesi al controllo di rotte commerciali e strategiche, la naturale destinazione dell’ostilità dell’Azerbaigian a suo tempo spalleggiato da Mosca che ha sempre soffiato sul fuoco etnico del Nagorno-Karabach.
Destinata ad essere un vaso di coccio tra il ferro turco e azero, Yerevan ha sperimentato la sua precarietà a fronte del protettorato di Mosca, che ancora la considera elemento strategico portante avvinto dagli scambi commerciali e da passate ma non veritiere, nel momento del bisogno, alleanze militari. Una dipendenza che limita ogni diversificazione in tema di politica estera, poiché qualsiasi tentativo di allontanamento da Mosca causa ritorsioni. Contemporaneamente, USA e UE cercano di estendere la propria influenza nel Caucaso meridionale per controbilanciare la pervasività russa. Gas e petrolio tra Mar Caspio e Asia centrale, che per Mosca rappresenta un passaggio per raggiungere l’Oceano Indiano in alternativa a Dardanelli e Mediterraneo, rendono l’Armenia fondamentale per i transiti, insieme con l’apertura di nuovi corridoi di connettività, grazie alla normalizzazione dei rapporti con Azerbaigian e Turchia, che pure continua a evocare ancestrali e drammatici ricordi; da considerare poi la possibilità armena di diversificare i rapporti che influenzano l’equilibrio tra NATO (Turchia) e Russia, cui si aggiunge la linea confinaria con l’Iran, che in Yerevan trova la sua unica porta d’accesso stabile verso l’Occidente e la seducente chance di evitare un isolamento totale laddove il confine stesso venisse inghiottito dal magnetismo politico del corridoio Azerbaigian-Nakhchivan.
Le vulnerabilità armene sono aggravate da criticità strutturali connesse ad un’economia di dimensioni esigue, alla mancanza di porti, alla sensibilità verso shock esterni forieri della necessità di aiuti esogeni data anche la limitata base industriale posta in relazione ad una carente autonomia. L’Armenia si trova nell’impossibilità di pianificazioni strategiche di più ampio respiro, vincolata com’è al contingente, con la guerra russo-ucraina che ha determinato l’aumento del commercio bilaterale con Mosca. In questo contesto, in cui le possibilità di manovra armene sono più limitate, spicca come Yerevan rimanga un obiettivo allettante, un cliente ideale da lasciar macerare in attesa nel vestibolo del patriziato moscovita.
L’Armenia ha un’anima vulnerabile divisa in due, straziata tra un’aspirazione occidentale e un’incombente reminiscenza orientale. Il ruolo russo tuttavia è controverso, specialmente alla luce della sua inanità durante le offensive azere in Nagorno-Karabach, cosa che ha alimentato un comprensibile scetticismo da parte di un paese che la Storia ha educato ad essere diffidente, dati i competitor ai suoi confini; possibili errori strategici, come un’eccessiva dipendenza da Mosca o una troppo aperta esposizione securitaria verso l’Azerbaigian, potrebbero aggravare una situazione di suo naturalmente tesa.
Stringere alleanze esclusive amplificherebbe le debolezze armene, visto che l’allineamento ad un egemone provoca il rischio di alienarsene altri, una scelta binaria che potrebbe portare ad alimentare una polarizzazione interna, accentuata dalla decisione di dare il via libera al processo, per alcuni populista, di adesione all’UE; un rischio che predisporrebbe l’Armenia a squilibri strategici capaci di far sollevare, a prescindere, le difese verso le sollecitazioni esterne.
L’equilibrio rappresenta di fatto l‘unico iter percorribile, dati i pericoli connessi alle aspirazioni, specie quando nessuno in Occidente è disposto a morire per la propria terra, figurarsi per Yerevan, anche se è pur vero che le lezioni di Georgia e Ucraina dovrebbero far riflettere. Intanto, le alleanze tradizionali risentono delle instabilità, sicché già dal 2024 il primo ministro Pashinyan, in occasione degli scontri con l’Azerbaigian, ha accusato la CSTO a guida russa di non aver onorato i propri obblighi, motivo per il quale ha congelato la sua adesione e intrapreso le misure necessarie per il ritiro formale previa sospensione delle contribuzioni. Tuttavia, malgrado una faglia apparentemente sempre più profonda, sembra difficile che la dipendenza economica possa permettere una celere uscita dall’orbita russa.
Ecco dunque entrare in scena il deus ex machina del più concreto realismo, grazie a cui Armenia e Azerbaigian, con la mediazione congiunta di diversi attori internazionali, hanno annunciato di aver stipulato un trattato di pace, dopo oltre tre decenni di conflitto e malgrado il nodo del Nagorno-Karabakh sia ancora da sciogliere completamente, specie dopo la fine dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, che ha costretto oltre 100.000 armeni a lasciare la regione.
Evidente come la pace rimanga fragile con l’Azerbaigian che, forte del vuoto russo, chiede modifiche costituzionali a Yerevan, prevedendo la rimozione di qualsiasi riferimento storico al Karabakh.
Altro contenzioso investe il corridoio di Zangezur, progetto problematico perché percepito dagli armeni come una perdita di sovranità pronta a condurre alla trasformazione in un’enclave eterodiretta e trasformato dall’azione diplomatica americana in oggetto di un’intesa in 17 articoli che prevede un trattato di locazione di 99 anni agli USA e che sviluppa un’inedita Trump Route for International Peace and Prosperity che, attraverso parte del territorio armeno, dovrebbe collegare l’Azerbaigian all’enclave di Nakhchivan. L’appalto ad una gestione terza americana risolve la questione securitaria per entrambi i governi1; al centro del confronto, la provincia armena di Syunik, incastonata a est tra l’Azerbaijan ed il Nakhchivan ad ovest, repubblica autonoma stretta tra l’Armenia e l’Iran ma sotto il governo di Baku, cosciente della sua rilevanza strategica utile a rafforzare i rapporti con la Turchia proiettandosi sul Caucaso meridionale.
Il disimpegno russo ha condotto Yerevan ad assumere il controllo di diversi valichi confinari, tra i quali quello di Agarak-Nurduz, lungo il confine iraniano, punto fondamentale per trasporti alternativi a quelli azero-turchi. Rimangono tuttavia scoperti diversi punti sensibili del confine azero, una vulnerabilità che ha permesso a Baku, forte di capacità asimmetriche, posizioni sempre più assertive. Del resto, l’attuale situazione lascia poche chance all’Armenia, tagliata fuori dai principali progetti infrastrutturali dati la conformazione geografica ed i rapporti non amichevoli con i paesi contigui, a differenza dell’Azerbaigian ricco di risorse e proteso sul Caspio, ponte tra Europa e Asia centrale passando per la Turchia, senza contare il potenziamento bellico consentito dalle liaison con Ankara e Tel Aviv ed il rapporto fin troppo altalenante con Mosca. Insomma, Baku si trova in piena ascesa regionale, in un contesto in cui gli USA scorgono opportunità di inserimento e capacità di pressione su Russia, Iran e la Cina della Belt and Road Initiative. Ammesso che duri, visto che la normalizzazione rimane fragile e vincolata ad interessi troppo ampi per i paesi interessati, volti più verso la cooperazione economica che verso la più tradizionale diplomazia.
La parola d’ordine è: diversificare, in un contesto in cui la costruzione della memoria collettiva complica qualsiasi riconciliazione; storia e fiducia reciproche, in concorso, divengono strumenti di legittimazione politica e danno razionalità a reciproci compromessi. Se Mosca recede su ambedue le sponde, si crea uno spazio negoziale scorrevole che agevola l’entrée di attori terzi d’oltre oceano.
Ecco che le elezioni armene del 2026 rappresentano la cartina di tornasole sulla proiezione geopolitica di Yerevan, perché determineranno o meno il suo indirizzamento filo occidentale con la normalizzazione delle relazioni con i vicini, rientrante nel progetto Armenia reale di Pashinyan, contrario all’Armenia storica dell’opposizione. Inevitabile che le tensioni aumentino, specialmente per le accuse rivolte ad un sistema che si vede improntato ad uno sviluppo democratico imperfetto. Già in marzo le elezioni locali sono state segnate da indagini e accuse di corruzione che, pure, si sono accompagnate a sondaggi che mostrano un calante entusiasmo per le svolte filo occidentali.
L’opinione pubblica di fatto si sta vincolando ad un pragmatismo che, se si votasse ora, potrebbe riservare sorprese all’attuale esecutivo, anche in forza del fatto che da più parti si afferma l’impegno ibrido russo, stante la saturazione di narrazioni concorrenti. La base elettorale del 2026 si è costituita a Gyumri, dove il partito di governo2, pur vincendo, non ha ottenuto la maggioranza. Malgrado la frammentazione dell’opposizione, la polarizzazione si è accentuata determinando un’apatia con Gyumri facile bersaglio del soft power russo ma anche indice di un persistente sostegno a Pashinyan, che deve confrontarsi con promesse elettorali ancora da realizzarsi e con le forti contestazioni del 2024.
In vista del 2026, l’Armenia dovrà prepararsi ad affrontare la disseminazione di asperità verso democrazia ed integrazione europea, includenti inanità, polarizzazione, scarsa fiducia in istituzioni che necessiterebbero di maggiori sollecitazioni occidentali. Sollecitazioni che, invece, da est, sono arrivate in abbondanza, tanto che NewsGuard ha evidenziato che, da aprile, la propaganda russa ha divulgato 18 affermazioni false3 contro il governo, poi ricomparse in 13.883 post e articoli sui social network, per raggiungere i 45 milioni di visualizzazioni, affermazioni comparse perfino nelle risposte fornite da chatbot di IA. Quello che colpisce è che l’apparato russo si è mosso con almeno 14 mesi di anticipo rispetto alle consultazioni del giugno 2026, in controtendenza con quanto fatto in Germania e Moldavia, cosa che dovrebbe far riflettere circa l’importanza attribuita all’Armenia, per cui Tucker Carlson ha lanciato Nareg Karapetyan, nipote dell’oligarca armeno-russo Samvel, prodigo di critiche verso Pashynian e capace di amplificare il messaggio per cui la decadenza occidentale attenta ai tradizionali valori religiosi; non è un caso che Samvel si sia schierato apertamente per il Catholicos armeno, Karekin II, in attrito con Pashinyan, alla luce del contrasto tra esecutivo e leadership religiosa, di fatto un ostacolo alla normalizzazione con Azerbaigian e Turchia.
Comunque la si osservi, l’Armenia è vittima e protagonista della sua storia; punto di incontro di civiltà, punto di violenze inenarrabili, punto di genesi di genocidi tutt’ora sussurrati. Eppure il pragmatismo impone che Yerevan, per poter prendere tra le proprie mani il suo stesso destino, pur non dimenticando nulla, guardi al futuro stringendo rapporti con i nemici ancestrali. È un prezzo politico che va pagato, è un calice che, per quanto amaro, va bevuto. Ed è un futuro cosi difficile da imporre scelte complesse, come porsi in antitesi con un credo religioso i cui vescovi guardano a est, assecondando un relativismo spiazzante come spiazzante è la difficoltà che la leadership incontra in un dialogo democratico oggettivamente spesso respinto dalla logica utilitaristica dello stavamo meglio quando stavamo peggio.
L’Armenia, purtroppo o per fortuna, è geograficamente troppo piccola per essere temuta, ma è strategicamente troppo importante per essere elusa. Forse è arrivato il momento che, nelle sue scelte, l’Armenia, realisticamente, lo comprenda.
1 Gli accordi prevedono il subaffitto ad un consorzio per sviluppare linee ferroviarie, petrolifere, energetiche.
2 Contratto Civile
3 Gli artefici delle affermazioni individuate sembrano essere i siti d’influenza russa Storm-1516 e Foundation to Battle Injustice, ONG fittizia fondata da Yevgeny Prigozhin. Le operazioni hanno utilizzato lo stesso copione per colpire USA, Germania, Francia e Moldavia. Le affermazioni sono progettate per toccare i temi più sensibili dell’opinione pubblica; in ottobre una delle affermazioni individuate sul portale turco OdaTV.com, sosteneva che Pashinyan avesse annunciato negoziati per cedere 1.200 chilometri quadrati di territorio nella provincia di Syunik all’Azerbaigian. Cinque delle affermazioni identificate accusavano Pashinyan e i membri del governo di crimini sessuali, riprendendo accuse già utilizzate contro la presidente moldava Sandu, il cancelliere tedesco Merz, Brigitte Macron e il candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti Tim Walz. Altra affermazione falsa riguarda la società nucleare francese Orano che avrebbe stretto un accordo con Yerevan per stoccare scorie radioattive nel Parco Nazionale di Dilijan in cambio di una tangente da 1,6 milioni di euro.
Foto: The White House
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