Contro il Covid-19 la Cina ha un vaccino pronto, ma solo per i militari
La Cina ha pronto un vaccino contro il SARS coronavirus 2 (SARS-CoV-2), l’agente patogeno responsabile della malattia Covid-19, e saranno le forze armate dell’Esercito Popolare di Liberazione a riceverne – in esclusiva, almeno per ora – le prime dosi.
Il suo nome è Ad5-nCoV (Adenovirus type 5 – novel Coronavirus) ed è stato sviluppato dall’azienda CanSino Biologics (CSB) di Tianjin in collaborazione con il Beijing Institute of Biotechnology afferente all’Accademia delle Scienze mediche Militari (ASM).
A darne notizia è stata la stessa CSB, attraverso un comunicato stampa inoltrato il 29 giugno alla borsa di Hong Kong presso cui l’azienda è quotata, subito dopo che il dipartimento per il supporto logistico della Commissione Militare Centrale (CMC) aveva rilasciato la speciale autorizzazione di military needed drug, per un impiego del farmaco in ambito militare e limitato alla durata di un anno.
Dei 20 vaccini finora sviluppati in territorio cinese, sette candidati hanno superato la fase preclinica e iniziato quella clinica dei test sull’uomo.
Dall’inizio di giugno, due di questi erano già nella disponibilità del personale governativo impegnato in viaggi all’estero, ma è Ad5-nCoV il primo vaccino che, avendo quasi ultimato la sperimentazione clinica, verrà prodotto su larga scala e somministrato ad un ampio campione di soggetti.
La tecnologia su cui si basa Ad5-nCoV non è inedita ed è stata utilizzata con successo anche per la produzione di un analogo terapeutico contro Ebola: un virus che causa il comune raffreddore (un adenovirus, appunto) viene utilizzato come vettore, ovvero modificato mediante bioingegneria in modo da renderlo incapace di replicarsi e da esporre sulla sua superficie una proteina – in questo caso la S (spike) del SARS-CoV-2 – in grado di indurre una risposta immunitaria nell’organismo a cui viene somministrato.
In un lavoro preliminare pubblicato il 22 maggio dalla rivista scientifica The Lancet, veniva riportato come durante la fase 1 del trial clinico Ad5-nCoV si fosse mostrato sicuro, ben tollerato e capace di stimolare la produzione di anticorpi specifici contro il virus dopo due settimane dalla somministrazione.
Risultati, questi, che hanno verosimilmente contribuito ad alimentare gli entusiasmi della CSB e accelerato l’iter per l’approvazione di Ad5-nCoV da parte della CMC. I risultati della fase 2 di sperimentazione clinica non sono stati ancora pubblicati, e non è chiaro se e quando inizierà la fase 3, quella più importante ai fini della valutazione della sicurezza e dell’efficacia del vaccino, o se ad essa verrà fatta corrispondere la vaccinazione sulle forze armate cinesi. Inoltre, nessun dettaglio è stato reso noto dalla CSB in merito alle modalità della campagna vaccinale, che ha invocato la necessità di mantenere il segreto per la tutela dei diritti commerciali e brevettuali.
E, forse, anche per la sensibilità delle informazioni. Non si conoscono, ad esempio, l’entità numerica del campione di individui su cui Ad5-nCoV verrà inoculato, i corpi di appartenenza dei militari coinvolti, né se la loro partecipazione avvenga su base volontaria oppure obbligatoria.
Inoltre, non è stata data alcuna garanzia che in una fase successiva la somministrazione del vaccino verrà estesa ad altre categorie della popolazione civile, quali operatori sanitari e soggetti a rischio.
Né, infine, se il prosieguo della sperimentazione clinica già programmata per essere condotta in collaborazione con il governo canadese avrà luogo o meno. Quel che è chiaro, invece, è che con l’approvazione per uso militare Ad5-nCoV ha intrapreso una fuga in solitario nella corsa al vaccino anti-Covid-19, staccandosi dal gruppo di testa dei 17 vaccini attualmente in sperimentazione clinica (7 dei quali cinesi) e ancor più quello dei restanti 132 in fase preclinica sviluppati nel resto del mondo.
Per il paese dove la pandemia ha avuto origine, essere i primi a disporre di una contromisura terapeutica per porre fine alla Covid-19 ha indubbiamente un alto valore simbolico, sia sul fronte nazionale che su quello internazionale. Un simile primato scientifico e tecnologico potrebbe assolvere all’esigenza di produrre l’immagine di un governo efficiente, che non solo ha saputo controllare in tempi rapidi il primo focolaio di Wuhan e che ora sta tenendo a bada quello di Pechino, ma che è anche pronto a fornire una soluzione globale per un’emergenza sanitaria che dai suoi confini si è estesa a tutto il pianeta.
Che poi sia davvero Ad5-nCoV il vaccino che verrà somministrato alla popolazione cinese o addirittura messo a disposizione della comunità scientifica internazionale, è un fatto per nulla scontato e al momento persino secondario.
I prossimi mesi, infatti, saranno decisivi sulle chance di diversi altri candidati in corsa per l’immissione sul mercato. In Cina, quattro diversi vaccini basati sul SARS-CoV-2 inattivato e sviluppati indipendentemente dall’Accademia nazionale delle Scienze (Chinese Academy of Sciences, CAS), dall’azienda privata SinoVac Biotech e dalla statale SinoPharm, prevedono di ultimare la sperimentazione per settembre.
Nello stesso periodo, si attende la luce verde alla somministrazione di una versione basata su frammenti di proteine del virus e sviluppata dalla Anhui Zhifei Longcom Biopharmaceutical, e di un’altra basata su una porzione dell’RNA di SARS-CoV-2, messa a punto dagli scienziati militari della ASM in collaborazione con la partecipata Walwax Biotechnology.
Sul fronte estero, entro il mese di luglio si prevede ultimata la fase 3 di sperimentazione clinica sia per il vettore virale ChAdOx1-S prodotto dall’Università di Oxford insieme al colosso farmaceutico AstraZeneca, sia per il vaccino a RNA mRNA1273, frutto della collaborazione fra la statunitense Moderna Therapeutics e il National Institute of Allergy and Infectious Disease del National Institute of Health (NIAID/NIH).
A seguire, solo per citare i primi di una lunga lista di candidati in corsa per essere disponibili entro i primi mesi del prossimo anno, i vaccini dell’Imperial College di Londra, delle aziende americane Inovio Pharmaceuticals e Novavax, della sudcoreana Genexine, della tedesca CureVac, del Gamaleya Research Institute di Mosca, e delle collaborazioni sino-tedesco-americane fra Clover Pharmaceuticals, Dynavax e GlaxoSmithKline, e fra Fosun Pharma, BioNTech e Pfizer.
Quanto alla decisione di Pechino di destinare Ad5-nCov ad un uso militare, non può sfuggire il contrasto con l’annuncio fatto il 18 maggio dal Presidente Xi Jinping, quando in teleconferenza con i vertici dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva rassicurato che, allorquando disponibile, il vaccino cinese sarebbe stato messo a disposizione della comunità internazionale come un “bene pubblico globale”.
Tuttavia, è ipotizzabile che, fra le tensioni con Washington, gli scontri con l’India nel Ladakh e la volatile situazione in Hong Kong, l’urgenza di rendere immune la componente umana della propria forza armata sottenda a importanti ragioni di valenza strategica.
Non solo, infatti, il personale di truppa vaccinato sarebbe dispiegabile in patria, prontamente e senza rischi, in supporto alle autorità sanitarie qualora si presentasse una nuova ondata di casi, ma il disporre di una forza militare immune al SARS-CoV-2 eliminerebbe i rischi dell’effetto incapacitante che un focolaio avrebbe sull’operatività e risposta rapida dei reparti, oltre che sul potere di deterrenza dell’arsenale militare di Pechino.
Peraltro, il timore che un effetto paralizzante dovuto alla Covid-19 apra finestre di vulnerabilità sfruttabili da un paese avversario è percepito e ampiamente condiviso anche dalle forze armate delle altre potenze, che non a caso negli ultimi mesi hanno fortemente ridotto, quando non addirittura cancellato, i loro impegni in esercitazioni congiunte.
Del resto, la capacità del virus di rendere inerti in breve tempo settori della catena di comando e controllo, di reparti operativi o delle infrastrutture e della logistica, si è già manifestata in alcune, emblematiche circostanze: in marzo, un focolaio a bordo della portaerei USS Theodore Roosevelt ha imposto il blocco dell’unità navale a Guam, l’evacuazione dell’equipaggio e la sua quarantena, registrando 1156 casi infetti e un decesso.
In aprile, diffusosi a bordo della portaerei francese Charles De Gaulle in missione nel Mediterraneo, il SARS-CoV-2 ha infettato il 60% dell’equipaggio. Simili esempi mostrano chiaramente le ragioni per cui un governo debba considerare il personale militare – al pari di quello sanitario e dei soggetti a rischio – un target primario di ogni campagna di vaccinazione.
Meno scontato è invece il fatto che interi settori della difesa stiano partecipando direttamente al processo di ricerca e sviluppo del vaccino anti-Covid-19 e alla sua produzione su vasta scala, e non solo in Cina. Se, infatti, nella sua visione strategica Pechino contemplava da tempo la militarizzazione del settore biomedico individuandola come uno dei punti cardine per l’esercizio della propria egemonia tecnologica, negli Stati Uniti questo fenomeno era finora limitato alle biotecnologie dual-use, potenzialmente suscettibili d’impiego in chiave offensiva da parte di un paese nemico o in scenari di conflittualità non convenzionale da parte di attori non statali.
Che la pandemia Covid-19 stia segnando un punto di svolta in questa direzione è testimoniato dall’inaugurazione della Operation Warp Speed (OWS), programma nazionale statunitense da dieci miliardi di dollari volto ad accelerare lo sviluppo, la produzione e la distribuzione di contromisure terapeutiche anti Covid-19.
Con OWS, la cui direzione è stata interamente affidata al Pentagono, Washington si è prefissato l’ambizioso obiettivo di produrre 300 mila dosi di vaccino entro il gennaio 2021. Sotto la guida del Dipartimento della Difesa, a OWS partecipano gli enti governativi NIH, Food and Drug Administration, Centers for Disease Control and Prevention, Health and Human Services e Biomedical Advanced Research and Development Authority, oltre a un numero crescente di partner privati e accademici detentori dei vaccini più promettenti (tra i quali, nel momento in cui si scrive, figurano i succitati Oxford/AstraZeneca, Moderna, Pfizer e BioNTech).
Il 15 maggio, il Presidente Donald Trump ha annunciato le nomine del Generale dell’Esercito Gustave F. Perna e dello scienziato Moncef Slaoui a capo del programma, definendo OWS come il più immane sforzo scientifico, industriale e logistico che il paese abbia intrapreso dai tempi del Manhattan Project.
Un accostamento, questo, che per quanto altisonante, rende molto bene l’idea di come nel mezzo di una pandemia che ha già superato i dieci milioni di casi infetti e i cinquecentomila morti in tutto il mondo, la frenetica ricerca di una cura somigli sempre di più ad una corsa agli armamenti.
Il 29 giugno, con riferimento al drammatico bollettino, il direttore dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha voluto avvertire che “il peggio deve ancora avvenire”, e ha invocato la necessità di azioni coordinate e una maggior solidarietà tra i paesi coinvolti, nell’attesa che un vaccino contro il SARS-CoV-2 venga approvato. Ora che la Cina ne ha uno e gli Stati Uniti sono molto vicini ad averlo, più che il nobile quanto utopistico ideale di salute globale sembrano volersi affermare i pragmatici concetti di sicurezza sanitaria e nazionale, ormai sempre più interconnesse, sempre più inscindibili.
Foto: PLA, AP. Xinhua e South China Morning Post