Crack bancario in Iran: tra Shari’ah, corruzione e il crollo di Ayandeh Bank
Partiamo da un paio di assiomi:
- il materialissimo e vile denaro porta alla perdizione delle anime, ragion per cui, meglio farlo toccare da altri salvo farlo poi scivolare con annoiata nonchalance in capaci ed occulte saccocce, purché non si sappia;
- l’inebriante denaro non dà la felicità, ma meglio essere ricchi ed infelici che poveri ed ugualmente infelici.
Ma se in uno stato teocratico, come già accaduto nella storia, il denaro fluisce correntemente, e anche con una certa verve, come funzionano ricchezza e felicità? Prima di tuffarsi in laicissimi e luciferini crack finanziari, meglio dare un’occhiata in giro.
In Iran l’Organizzazione islamica per l’economia, ex banca Islamica, è stata una delle prime istituzioni post rivoluzionarie; strutturata per l’emissione di fondi di prestito ed esentata da qualsiasi nazionalizzazione direttamente da Khomeini, ha dato il la per l’istituzione di un sistema bancario parallelo al di fuori delle competenze della Banca Centrale, che le ha delegato il controllo di circa 1.200 dei 2.500 fondi accesi. Un po’ come Artesh e Pasdaran, nel settore militare, il che dovrebbe far riflettere.
Di fatto, l’Organizzazione come banca ha continuato ad esistere in termini sostanziali, tanto che nel 2015 pare, dico, pare che abbia prelevato illegalmente 3.000 trilioni di rial per realizzare un edificio di proprio interesse; data la svalutazione corrente, si tratterebbe comunque di una somma molto ingente anche in euro, dell’ordine di diverse decine di miliardi. La quantificazione di infelicità e perdizione qui però non è mai pervenuta.
Gli artifici contabili sì, però: se è vero che nel sistema bancario islamico gli interessi sui mutui non si pagano direttamente per effetto della Shari’ah, è però accertato che vengono utilizzati contratti alternativi dove rischio e profitto vengono condivisi o dove ci si basa sulla compravendita e non sull’interesse.
In soldoni, per rimanere in tema: o si va per Murabahah, ovvero vendita con margine di profitto per cui la banca vende al cliente il bene ad un prezzo maggiorato e rateizzato, oppure si procede per Ijara, ovvero una locazione con opzione di acquisto per cui il bene al termine viene trasferito al cliente con vendita simbolica e dove il guadagno della banca deriva dal canone prestabilito. In ogni caso l’istituto riceve un profitto che non si chiama interesse, ma che porta sempre un po’ di gaia infelicità. Insomma, mica si può avere tutto.
Rimanendo in terra di Ayatollah, il sistema bancario è in preda a crisi profonda; la rete creditizia è formata da 27 banche, di cui 8 statali, il 33,6% del mercato, e 19 private, pari ai due terzi di un settore che annovera intermediari commerciali, istituti specializzati nelle concessioni finanziarie ed altre istituzioni creditizie non bancarie ed intermediari non ufficiali.
L’opacità è la parola d’ordine e rimangono evidenti rilevanti sofferenze connesse a rifinanziamenti di debiti e crediti inesigibili, elementi che hanno già indotto le autorità a valutare la creazione di una bad bank capace di mitigare la situazione e la Banca Centrale ad adottare l’aumento del coefficiente di riserva obbligatoria, nonché la limitazione dell’espansione del bilancio degli istituti di credito.
Al di là degli artifici, emerge una mancata applicazione degli standard relativi a principi contabili comuni ed alla regolamentazione di tutela, tanto che il governatore della Banca Centrale intanto ha introdotto l’obbligo degli International Financial Reporting Standards necessari alla redazione dei bilanci, e poi ha previsto l’adozione di regolamenti che richiedono la conciliazione tra Shari’ah e Convenzione per la Soppressione del Finanziamento al Terrorismo.
Ma non è finita qui. Centrale il tema della solvibilità bancaria, correlata ai fondi resi disponibili dalla Banca Centrale, ed estremamente esigua per la reintroduzione delle sanzioni americane che hanno tagliato la Banca Centrale fuori dal sistema SWIFT, entro cui c’erano solo Persia International Bank e Bank Sepah.
La crisi è dunque strutturale ed aggravata da estrema fragilità visto il possibile ed imminente collasso di banche già tecnicamente fallite, per effetto di passività determinate da corruzione e prestiti a basso rendimento concessi (spesso) per progetti felicemente demagogici.
Numerosi i fattori critici: debiti, attività fittizie, consolidamenti forzati con fusioni ed assorbimenti in istituti statali, impatto delle sanzioni, svalutazione e, in cauda venenum, mancanza di controllo statale su politica fiscale e gestione del debito. A fronte della fuga di capitali, la nazionalizzazione dei debiti rende l’impresa dello Stato una mission impossible.
Crollo e successiva fusione nella Bank Melli hanno centrato il focus sull’ex management di Ayandeh Bank, l’ultima vittima illustre. Ali Ansari, il deus ex machina di Ayandeh, sembra uscito da un romanzo d’appendice molto poco ispirato alla Shari’ah, a meno che non valgano gli esempi negativi.
Negli ultimi anni, un vortice sempre più frenetico lo porta da un investimento all’altro: football, cellulari, centri commerciali compresi, fino ai giochi pirotecnici bancari. Nel 2009 fonda la Bank Tat senza versare il capitale sufficiente, tanto da condurla ad un’ingloriosa bancarotta sanata con una fusione con la Saleheen Credit Institution e la Ati Credit Institution da cui sorge, come fenice farlocca, Ayandeh Bank, talmente farlocca da allocare il 90% dei depositi per progetti sotto la gestione della banca stessa, un qualcosa che avrebbe dovuto indurre a chiedersi: ma chi controlla il controllore?
Come qualcuno in epoca nixoniana avrebbe detto: “Ma da quest’uomo comprereste davvero una macchina?” Difficile rispondere, si corre il rischio di perdersi in meandri di infelicità talmente profondi che si comprenderebbe perché i capitali non sono mai tornati indietro e perché per pagare (occhio!) gli interessi sui depositi in vita, Ansari abbia offerto tassi al di sopra della media: uno schema Ponzi in parsi.
Nel 2019 salta il banco, la struttura proxy di Ayandeh si manifesta e, mentre i danni si palesano irreversibili per come sono, nel 2022 arrivano le prime condanne che coinvolgono anche autorità ministeriali e di polizia su cui far gravare appropriazioni indebite e riciclaggio (che non manca mai); la scampa il mitico ed inimitabile Ansari, coperto da enigmatica impunità.
Ed ecco il 2025: Ayandeh Bank accumula 550 trilioni di rial di perdite (503 milioni di dollari) a fronte di un capitale di 1,6 trilioni di rial; Bank Melli assorbe 267 trilioni di rial di depositi più i dipendenti, quanto mai riottosi nell’insegnare ai figli che lavorare in banca risolverà la loro vita.
Agli azionisti, non peccaminosi spiccioli ma trepida e purificante attesa: i non affiliati potranno liquidare al prezzo più favorevole oppure attendere la liquidazione degli asset. Il tempo è relativo, la felicità dei creditori pure, anche perché Bank Melli ha promesso un piano di risarcimento graduale in moneta nominale per cui, se si considera entità delle perdite ed inflazione al 40%, si rischia di arrivare ad un pagamento pari a zero.
E qui l’immagine che ricorre è quella dei Blues Brothers che, cappello in mano, guardano affranti i rottami della macchina che li ha accompagnati fin all’ufficio delle tasse.
Quello che rimane in piedi è un enorme punto interrogativo sull’intero sistema bancario, con tassi troppo alti per concedere prestiti. Sia chiaro: se la punta dell’iceberg Ayandeh piange, la parte sommersa di almeno altre cinque banche1 singhiozza, con gli istituti pronti a replicare scene da Wall Street 1929, con file di correntisti sull’orlo di una crisi di nervi mentre la fiducia si scioglie come felicità colata via come pioggia tra le grate dei tombini, anche perché i fallimenti non sono né inaspettati né attribuibili in via esclusiva alle sanzioni.
È il sistema che non funziona, visti sia i forti timori di rischi sistemici, sia l’enorme costo da sostenere per lo Stato, sia la prevedibile ondata di panico.
Per chiudere, un’altra serie di immagini: da un lato, con un’inflazione al 40% e con un’elevata disoccupazione giovanile, l’iraniano della strada, dopo missili israeliani e shock idrici, vede il crack come l’icona di un baratro; dall’altro, Iran e Russia, tanto per rimanere sul sanzionatorio, operano per stringere legami più forti e creare una rete bancaria comune destinata ad aggirare le sanzioni ed a sostituire il sistema Swift con l’iraniano Shetab ed il russo Mir, puntando ad estendere l’impresa verso Iraq, Afghanistan e Turchia.
Credibile? Riprendendo Murakami, quando (e se) la tempesta sarà finita, probabilmente neanche gli iraniani sapranno come hanno fatto ad attraversarla uscendone vivi. Quel che è certo è che non saranno gli stessi che ci sono entrati.
1 Sarmayeh, Day, Sepah (che ha una filiale italiana), Iran Zamin, Melal
L’articolo Crack bancario in Iran: tra Shari’ah, corruzione e il crollo di Ayandeh Bank proviene da Difesa Online.
Partiamo da un paio di assiomi: Ma se in uno stato teocratico, come già accaduto nella storia, il denaro fluisce correntemente, e anche con una certa verve, come funzionano ricchezza e felicità? Prima di tuffarsi in laicissimi e luciferini crack…
L’articolo Crack bancario in Iran: tra Shari’ah, corruzione e il crollo di Ayandeh Bank proviene da Difesa Online.
Per approfondimenti consulta la fonte
Go to Source
