Francesca Romana Berno: Luxuria – Storie di banchetti, ville e altri eccessi nell’antica Roma
Francesca Romana Berno
Ed. Salerno, Roma 2025
Pagg. 170
L’autrice, professoressa di lingua e letteratura latina presso l’università La Sapienza di Roma, in questo suo saggio dedicato a un vocabolo che “ingloba almeno quattro dei vizi che la cultura cristiana conosce come capitali: avidità, gola, accidia e, appunto, lussuria”, ne fornisce, nella premessa, la seguente definizione:
“Luxuria è un inesausto desiderio di piaceri che non trova mai soddisfazione, e porta quindi alla nausea. I Romani la considerano un vizio importato dalle corrotte province orientali e la fanno derivare dall’enorme afflusso di denaro che seguì le conquiste mediterranee: infatti la sua storia comincia proprio con lo spreco di denaro.”
Essa viene definita non solo come vizio, ma anche come “una malattia, un virus, un mostro che incombe sulla nostra serenità e rischia di distruggerci”.
Infatti, “segno del declino morale della società romana a seguito dell’afflusso improvviso di ricchezza, la luxuria si diffonde e si radica, diventando emblema di corruzione politica e devastazione ambientale, quindi travalicando l’ambito etico per dilagare su un piano universale che finirà con la caduta dell’Impero”.
Manifestatasi in modi, luoghi e tempi diversi – “dalla Repubblica arcaica all’Impero, dai banchetti alle ville, dalle spese pazze ai comportamenti effeminati” – fu combattuta dai Romani sia con gli strumenti letterari degli scrittori moralisti, sia con una serie di provvedimenti legislativi.
Le “leggi suntuarie”, come la lex Oppia del 215 a.C., “che vietava alle donne di possedere più di mezza oncia d’oro, di indossare vestiti dai colori appariscenti, di farsi portare in carrozza a Roma o in altre città se non per motivi religiosi”, rappresentarono un tentativo di limitare il lusso.
Ma quando accadde che la luxuria, da vizio individuale e circoscritto, divenne una malattia sociale?
Per la maggior parte degli storici fu la vittoria su Cartagine, da parte di Scipione nel 202 a.C., a determinare questo passaggio. In quel momento Roma diventò padrona del Mediterraneo, collocando quindi l’origine della luxuria a Est di Roma.
Secondo la “teoria del determinismo ambientale”, “ciascuna regione, in base alle proprie caratteristiche climatiche, influenza chi vi nasce e, in certa misura, anche chi vi soggiorna. Le regioni calde e umide producono uomini deboli, malaticci, scarsamente virili e inadatti alla guerra; in quelle fredde e impervie, al contrario, nascono uomini robusti e coraggiosi, atti a sopportare ogni cosa”.
La luxuria predilige le regioni del primo tipo, vale a dire “luoghi caldi, fertili, amabilissimi, spesso a ridosso del mare: luoghi di villeggiatura”, identificati dai Greci con Sibari in Calabria e, per i Romani, con Capua e Baia in Campania.
Capua, in particolare, fu il “teatro di una delle più eclatanti imprese di Luxuria: la sconfitta di Annibale”. Lì, infatti, egli si fermò per un periodo con il suo esercito e, da allora, non vinse mai più.
Come scrisse Seneca in una delle sue Lettere a Lucilio:
“Un solo inverno rammollì Annibale, e quell’uomo non domato dalle Alpi e dalle nevi lo snervarono i calori della Campania: vinse con le armi, fu vinto dai vizi.”
“Insomma, per i loro storici, Sallustio in particolare, i Romani erano buoni, bravi e frugali finché non hanno conquistato l’Est, e con questo hanno acquisito grandi ricchezze e nuove abitudini, familiarizzando con cibi, vesti, oggetti mai visti prima.”
L’edilizia selvaggia, le orge, le depravazioni, ma soprattutto i banchetti sono i principali modi con cui si manifesta la luxuria.
Lucio Licinio Lucullo deve la sua fama proprio ai sontuosi banchetti da lui organizzati, da cui deriva il termine “luculliano”. Egli, ad esempio, fece costruire delle “enormi voliere, con una tavola da pranzo all’interno, così da scegliere e mangiare immediatamente qualsiasi uccello”.
Con Cleopatra, invece, i banchetti furono caratterizzati da “lusso, esibizione e spreco. Gli elementi del vizio ci sono tutti. Cleopatra intuisce come il lusso non sta più nella semplice ricerca del cibo esotico o raffinato, ma piuttosto nello spreco di denaro, nella spesa a vuoto che non ha neppure più la finalità di soddisfare la fame: si tratta dello stadio estremo del vizio della luxuria applicato alla gola”.
Il banchetto più famoso, però, rimane quello di Trimalcione, descritto da Petronio nel Satyricon.
Il lusso, tuttavia, non è sempre da bandire. “Se in funzione della celebrazione dello Stato, è legittimo. Quello da condannare è il lusso esibito in occasioni private.”
Con la nascita dell’Impero, però, “il singolo imperatore coincide con lo Stato che va magnificato. Dunque, si potrebbe dire, il lusso anche privato dell’imperatore esprime la magnificenza dell’Impero romano. Questo giustifica, sia pure con qualche esitazione o contraddizione, lo sfarzo augusteo. Ma con Caligola prima, e poi soprattutto con Nerone, nel racconto degli storici antichi, la situazione si fa insostenibile.”
Quest’ultimo, infatti, “raggiunge un livello estremo del vizio, dove nessuno avrebbe osato arrivare.”
Se Caligola “decapitava statue di Giove per completarle con la sua testa”, Nerone si fece rappresentare con una statua alta tra i trenta e i trentacinque metri e mezzo – “forse la più grande statua in bronzo mai costruita, considerato che il leggendario Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie del mondo, misurava circa trentadue metri” – fatta poi abbattere da Vespasiano.
Di essa rimarrà comunque traccia: l’anfiteatro Flavio, la cui costruzione fu iniziata con Vespasiano, diverrà noto come Colosseo, “a memoria della statua colossale di Nerone che lo affiancava. La memoria del lusso di Nerone sopravvive alla distruzione del lusso stesso.”
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