“Gerbera”, il drone low-cost cinese usato dalla Russia e abbattuto in Polonia
Nella notte tra martedì e mercoledì della scorsa settimana la Polonia ha vissuto ore di grande tensione a causa di una serie di incursioni aeree russe con droni, alcune delle quali hanno violato lo spazio aereo nazionale e sono state respinte anche con il supporto delle forze NATO. Il premier Donald Tusk ha voluto rassicurare l’opinione pubblica chiarendo che Varsavia non è vicina a un conflitto aperto, ma ha ammesso che mai dalla Seconda guerra mondiale il Paese era stato così prossimo a un simile livello di rischio. In totale, l’esercito polacco ha contato diciannove violazioni.
Al centro di molte di queste operazioni c’è il “Gerbera”, un drone low-cost di derivazione iraniana (Shahed) costruito con materiali rudimentali come compensato e schiuma. Ha un’apertura alare di circa 2,5 metri, può raggiungere una velocità massima di 160 km/h e ha un’autonomia stimata di circa 600 km. Non punta tanto sulla precisione o sulla potenza distruttiva quanto sulla capacità di saturare le difese avversarie, inviando numerosi velivoli economici e costringendo i sistemi di difesa a consumare risorse e attenzione. Alcune versioni sono equipaggiate con piccoli carichi esplosivi o sensori di ricognizione, mentre in altri casi viene usato insieme a droni più potenti come gli Shahed, capaci di trasportare testate molto più consistenti.
Un elemento che aggrava la situazione è l’origine dei componenti: nei detriti recuperati sono stati trovati pezzi di fabbricazione cinese, ma anche occidentale, americana ed europea, un segnale che le restrizioni sulle esportazioni di tecnologie a duplice uso non sempre riescono a fermare del tutto i flussi e le triangolazioni commerciali. Kyiv ha denunciato che la Russia si rifornisce da aziende cinesi, nonostante Pechino continui a dichiararsi neutrale rispetto al conflitto e a negare qualsiasi forma di sostegno militare diretto. Mosca, dal canto suo, ha respinto le accuse di aver preso di mira obiettivi in territorio polacco.
L’episodio mette in evidenza quanto sia fragile l’equilibrio lungo i confini della NATO e come la Russia stia puntando su tattiche di pressione costante piuttosto che su attacchi di grande scala. Di fronte a questa minaccia, la Polonia e gli altri Paesi alleati stanno intensificando le misure di difesa. Non si tratta soltanto di rafforzare le pattuglie aeree o i sistemi di intercettazione missilistica, ma anche di sviluppare contromisure elettroniche in grado di disturbare il segnale di guida dei droni e neutralizzarli senza dover ricorrere ogni volta a missili di difesa, molto più costosi. Alcuni alleati della NATO stanno inoltre investendo in sistemi laser e armi a energia diretta, pensati proprio per rispondere a sciami di droni a basso costo come il Gerbera.
Un capitolo particolarmente rilevante è quello della guerra elettronica. In Ucraina, ad esempio, le forze di difesa hanno fatto ampio ricorso a sistemi di jamming per disorientare i droni nemici, tagliando i collegamenti con i satelliti GPS o disturbando le frequenze radio utilizzate per il controllo remoto. Tra i sistemi più noti figura il Bukovel-AD, sviluppato dall’azienda Proximus, capace di rilevare UAV a grandi distanze e di bloccarne i segnali di navigazione e comunicazione entro un raggio operativo di circa 20 km. Montato su veicoli leggeri o installazioni fisse, il Bukovel-AD ha contribuito a neutralizzare numerosi droni sul fronte, dimostrando l’efficacia delle contromisure elettroniche. L’esperienza ucraina ha però mostrato anche i limiti di questi sistemi, poiché i droni più moderni sono in grado di adattarsi con frequenze variabili o sistemi di guida alternativi. Nonostante ciò, la combinazione di jamming, difese convenzionali e rapide condivisioni di intelligence ha reso la guerra elettronica un fattore decisivo e offre oggi alla NATO un modello da seguire per rafforzare le proprie capacità difensive.
Foto: State Border Guard Service of Ukraine
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