Gli USA puntano sulla Marina (e nuove basi) per tenere sotto tiro l’Afghanistan
Il coinvolgimento americano in Afghanistan potrebbe non essere finito e in caso di ulteriori incursioni contro i terroristi dello Stato Islamico del Khorasan, la responsabilità delle operazioni potrebbe venire affidato alla Marina.
Una decisione all’apparenza bizzarra se si considera che l’Afghanistan è privo di sbocchi al mare ma l’ipotesi, avanzata dalla rivista Politico, non è da scartare considerata la mancanza di aeroporti sotto il controllo statunitense in Asia Centrale.
L’Afghanistan confina infatti con Iran, Pakistan, Cina, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, sei nazioni che non ospitano basi statunitensi e nessuna delle quali può essere definita una “stretta alleata” di Washington.
Esclusi per ovvie ragioni l’Iran, la Cina e Pakistan, quest’ultimo da anni ai ferri corti con gli USA per i suoi rapporti con talebani e altri gruppi estremisti islamici e strettamente legato a Pechino.
Improbabile il coinvolgimento del Kazakistan, troppo legato alla Russia, e del Turkmenistan, più propenso all’isolamento che alle alleanze, mentre con Tagikistan e Uzbekistan il Pentagono avrebbe già avviato colloqui.
Quanto al Kirghizistan, che pur non essendo un paese confinante è comunque sufficientemente vicino all’Afghanistan per consentirvi operazioni aeree. Nei primi anni Duemila, in piena guerra al terrorismo jihadista post 11/9, le forze statunitensi avevano già utilizzato le basi di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, Bishkek-Manas in Kirghizistan e Ayni e Kulob in Tagikistan. Ora però lo scenario è gli equilibri internazionali sono cambiati.
Soprattutto perché allora le basi nelle nazioni dell’Asia Centrale avevano un significato prettamente logistico mentre oggi la richiesta di basi sembra rivolta a consentire raid aerei o incursioni di forze speciali sul territorio afghano.
Il Tagikistan è membro dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (CSTO) e come tale già ospita una base militare russa e la stazione di sorveglianza spaziale Okno, nei pressi di Nurak.
Inoltre, il presidente Emomali Rahmon ha consentito alla Cina di costruire il primo di undici avamposti alla frontiera con l’Afghanistan e un centro di addestramento per le guardie di frontiera tagike, come ricorda The Diplomat, e ha concesso all’l’India l’uso della base aerea di Farkhor, prima base indiana all’estero gestita congiuntamente con l’Aeronautica Tagika.
Una fetta significativa dell’economia tagika dipende dalle rimesse degli emigrati in Russia (22% del PIL nel 2020, e 30% annuo prima della pandemia) e dai prestiti cinesi (oltre il 20% del PIL). Il presidente Emomali Rahmon non si è mai recato in visita a Washington ma a tutt’oggi le forze speciali tagike vengono addestrate negli Stati Uniti (nelle foto sopra e sotto) e le guardie di frontiera studiano in centri costruiti con i fondi USA.
Come nel caso del Tagikistan, il Kirghizistan è fortemente dipendente dalla Cina e dalla Russia. Le rimesse dei lavoratori migrati in Russia rappresentano circa un terzo del PIL e il debito nei confronti della Cina è superiore a un quarto del debito complessivo.
Considerato per molto tempo come il principale alleato degli Stati Uniti in Asia centrale, il Kirghizistan fa comunque parte della CSTO, è membro dell’Unione economica eurasiatica ed è sede di una base militare russa presso l’aeroporto di Kant.
La permanenza americana sulla base di Manas si sviluppò dal 2001 al 2014, la più longeva della regione, ma oggi la situazione è completamente cambiata anche perché ospitare basi americane impiegate per compiere raid in territorio afghano significherebbe infastidire Mosca e Pechino e di certo anche il governo talebano afghano.
Rispetto ai vicini, l’Uzbekistan è la nazione che meno dipende da Russia e Cina ed è quindi la prima candidata ad ospitare gli aerei USAF. Non fa più parte della CSTO e non ospita basi militari straniere dal 2016, da quando Shavkat Mirziyoyev è salito al potere.
La base aerea di Karshi-Khanabad è stata sede USAF dal 2001 al 2005 (nella foto sotto), fin quando Washington non ha condannato il cosiddetto massacro di Andijan, un atto di repressione ordinato dal presidente Islom Karimov per soffocare le proteste di piazza che ha portato alla morte di centinaia di manifestanti uzbeki. Inoltre, dal 2013 al 2016 la capitale Tashkent è stata sede dell’Ufficiale di collegamento della NATO in Asia Centrale.
Il presidente Mirziyoyev ha anche allacciato nuovi e più saldi legami militari con gli Stati Uniti: nel 2018 è stato firmato il primo patto di cooperazione militare con gli USA, il numero di esercitazioni congiunte è aumentato e gli ufficiali uzbeki hanno ora la possibilità svolgere periodi di addestramento nei paesi della NATO.
L’Uzbekistan ha anche assunto un ruolo di rilievo nella questione afghana, ospitando la conferenza di Tashkent e partecipando ai colloqui trilaterali con Washington e Kabul. Ciò nonostante, la questione relativa allo stazionamento di truppe ed aerei da guerra statunitensi in Uzbekistan incontrerebbe l’inevitabile resistenza di Mosca e Pechino.
Il Cremlino è contrario a molte iniziative di Tashkent ed è convinto che l’obiettivo finale Washington sia indebolire i legami tra Mosca e i paesi dell’Asia Centrale.
Non è neanche improbabile una forte opposizione della società uzbeka, soprattutto vista la reazione alle voci sull’apertura di una base militare russa: risposta che potrebbe essere ancora più marcata nel caso di una base americana.
Infine il governo uzbeko sembra non voler avere problemi con i vicini talebani al punto da voler consegnare a Kabul la cinquantina di aerei ed elicotteri delle forze afghane fuggiti oltre confine in seguito alla caduta di Kabul insieme a più di 500 militari afghani che temono di venire consegnati ai talebani.
Il comando delle operazioni in Afghanistan alla US Navy è quindi un’ipotesi più che plausibile, soprattutto nel breve periodo. Preoccupata per il ritorno sulla scena dell’ISIS-K e per una non meno probabile rinascita di al-Qaeda, l’amministrazione Biden ha ripreso ad utilizzare i droni per lanciare attacchi aerei isolati in Afghanistan, questo senza avere ancora un quadro chiaro su come raccogliere informazioni dettagliate sugli obiettivi.
È da anni che per colpire gli obiettivi in Afghanistan i piloti USAF decollano dalle basi aeree di al-Udeid in Qatar (nella foto sotto) e al-Dhafra negli Emirati Arabi Uniti: per arrivare sul target devono volare lungo rotte che evitano lo spazio aereo iraniano, passando per il Golfo di Oman, il Mare Arabico e il Pakistan, missioni che richiedono ore di permanenza in quota e rifornimenti in volo.
Ci sono poi operazioni di supporto aereo ravvicinato alle Forze Speciali che entrano in territorio afghano, missioni che visti i tempi sarebbe difficile coordinare dalle basi del Qatar e del Kuwait. La soluzione migliore rimane quindi lo stazionamento di portaerei e squadre navali nel Mare Arabico anche se resterebbe aperta la questione del sorvolo dello spazio aereo di paesi terzi per colpire con aerei o missili obiettivi in territorio afghano.
Questa scelta implicherebbe il ritiro di risorse dal Pacifico, un’area che l’amministrazione Biden ritiene strategica per Washington e che già paga lo scotto della crisi afghana. La portaerei USS Ronald Reagan di stanza in Giappone è stata, infatti, impiegata durante l’operazione di evacuazione da Kabul e tutt’ora staziona nel Mare Arabico, in affiancamento alla nave da sbarco USS Iwo Jima.
A Washington, la decisione ha sollevato le proteste dei così detti “falchi della Cina”, poiché, dopo decenni di presenza in Giappone, è la prima volta che gli Stati Uniti lasciano sguarnito il Pacifico Occidentale.
L’assenza è stata notata soprattutto a giugno, in occasione dell’esercitazione navale che la Russia ha giocato nel Pacifico, con unità che si sono spinte fino a 34 miglia dalle coste delle Hawaii, una mossa che ha portato gli Stati Uniti a far decollare i caccia stealth F-22 Raptor da Pearl Harbor per intercettare la coppia di Tu-142MZ Bear-F che partecipava alla manovra.
In quei giorni, la USS Reagan si trovava nell’Oceano Indiano, pronta a rilevare la USS Dwight D. Eisenhower che, dopo 800 giorni di missione, 300 più di quelli programmati, era pronta a rientrare in Virginia, mentre la USS Carl Vinson stava ancora effettuando le esercitazioni di pre-dispiegamento a largo delle Hawaii, impegnata per la prima volta con gli F-35C imbarcati.
La probabilità che il gruppo da battaglia USS Ronald Reagan rimanga nel Mare Arabico, almeno fino a quando Washington non assicurerà una base di supporto in Asia centrale, è rafforzata dall’arrivo nel Pacifico della portaerei britannica HMS Queen Elizabeth e dal fatto che dal prossimo autunno gli F-35B dovrebbero volare anche dalle portaeromobili giapponesi classe Izumo. Infine, dal 2022 dovrebbe essere operativa anche la nuova portaerei USS Gerald R. Ford. (IT Log Defence)
Foto U.S. DoD