Giuseppe Gabrielli (Caltanissetta, 26 febbraio 1903 – Torino, 29 novembre 1987) è stato un ingegnere e accademico italiano. Giuseppe Gabrielli nacque a Caltanissetta il 26 febbraio 1903 dal palermitano Federico Gabrielli (1876) e dalla nissena Francesca Miccichè (1875), all’età di sette anni si trasferì a Torino dove compì gli studi fino a laurearsi in Ingegneria Industriale Meccanica al Politecnico di Torino il 31 luglio 1925, a soli 22 anni. Dopo aver frequentato per “diletto” il laboratorio di aeronautica presso il castello del Valentino.
Grazie ad una borsa di studio conseguì il dottorato ad Aquisgrana, in Germania, sotto la supervisione del grande aerodinamico Theodore von Kármán, con una ricerca sulla rigidezza torsionale delle ali a sbalzo. Tornato in Italia nel 1927 iniziò il suo lavoro di progettista alla Piaggio sotto l’ing. Giovanni Pegna presso lo stabilimento aeronautico di Finale Ligure. Dal lato accademico nel 1928 diviene assistente universitario nel corso di Costruzioni Aeronautiche, e nel 1930 diviene titolare della medesima cattedra.
Nel 1929, riprogettò la versione completamente metallica dell’idrovolante Savoia-Marchetti S.55 fino ad allora costruito in legno, che fu il primo esempio di aeroplano italiano realizzato in metallo. La costruzione a titolo sperimentale, per conto della Regia Aeronautica e con la collaborazione di Alessandro Marchetti, di alcuni esemplari di tale velivolo dimostrò che il peso a vuoto era di 530 kg inferiore e la robustezza maggiore di quello originale in legno.
Giovanni Agnelli, il fondatore della Fiat, intuì immediatamente le sue grandi potenzialità e lo volle nel reparto di progettazione velivoli della sua industria assumendolo nel 1931 e iniziando una collaborazione con l’azienda che si protrasse fino agli anni ottanta. Il primo progetto fu Fiat G.2 nel 1932 seguono il G.5 ed il G.8 1933-1934, il più veloce velivolo bimotore da trasporto passeggeri dell’epoca il G.18V nel 1937, il G.12 nel 1940 largamente impiegato durante la guerra come trasporto militare.
Nel 1937 realizzò il primo caccia italiano ad ala bassa interamente metallico, il Fiat G.50 e nel 1942 il G.55 che fu il più veloce caccia italiano della Seconda guerra mondiale, sicuramente all’altezza dei più famosi caccia alleati del periodo. L’immediato dopoguerra vide l’Ing. Gabrielli, già eletto membro del Consiglio Direttivo della Fiat e direttore della divisione tecnica progettuale della stessa, come il protagonista della ripresa e del rilancio dell’attività aeronautica italiana, allora praticamente inesistente.
La progettazione di alcuni dei primi aviogetti di produzione nazionale come il Fiat G.80 e il Fiat G.82 lo portarono a sviluppare il retroterra che gli consentì di elaborare e realizzare il suo capolavoro: il Fiat G.91 che vincendo, verso la fine degli anni cinquanta, il concorso NATO per un caccia leggero divenne il caccia standard di questa istituzione transnazionale. Ne furono prodotti circa 800 esemplari.
Agli inizi degli anni sessanta Gabrielli indirizzò le proprie ricerche sulla realizzazione dei velivoli a decollo ed atterraggio verticale, elaborando brevetti originali con interessanti soluzioni tecniche, come il G.91S, il G.95/4, il G.95/6, che non saranno comunque realizzati. Nel 1970 vede la luce il prototipo del G.222, aereo da trasporto tattico dalle entusiasmanti qualità nel decollo ed atterraggio corto.
Nel 1982 venne nominato Presidente della Fiat Avio proseguendo nel contempo la collaborazione con il Politecnico di Torino come titolare della cattedra di Progettazione d’Aeromobili: attività accademica che non abbandonò mai. Progettò in tutto 142 velivoli ma l’attività di Gabrielli non fu solo progettuale, si allargò alla ricerca scientifica, allo studio in campo aerospaziale, come sottolineato dalle sue 200 circa pubblicazioni, alle trattative per realizzare collaborazioni industriali in grado di portare la produzione sotto licenza italiana di progetti quali il de Havilland DH.100 Vampire, il North American F-86K o il Lockheed F-104G. Giuseppe Gabrielli morì a Torino, ad 84 anni, il 29 novembre 1987.
Alcuni degli aerei progettati:
Fiat G.2 – 1932 trimotore monoplano di linea
Fiat G.5 – 1933 monomotore monoplano da turismo
Fiat G.8 – 1934 monomotore biplano da addestramento
Fiat G.12 – 1940 trimotore monoplano da trasporto
Fiat G.18 – 1935 bimotore monoplano di linea
Fiat G.46 – 1947 monomotore monoplano da addestramento
Fiat G.49 – 1952 monomotore monoplano da addestramento
Fiat G.50 – 1937 monomotore monoplano da caccia
Fiat G.55 – 1942 monomotore monoplano da caccia
Fiat G.56 – 1944 monomotore monoplano da caccia
Fiat G.59 – 1948 monomotore monoplano da addestramento
Fiat G.212 – 1947 trimotore monoplano da trasporto
Aeritalia G-222 – 1970 bimotore turboelica da trasporto tattico.
IL BOMBARDIERE A GRANDE RAGGIO (BGR) per la Regia Aeronautica: il Fiat G-30B (1938-39)
Una delle conseguenze dirette della guerra d’Etopia del 1935-36, furono le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni e quelle principalmente di ordine finanziario e petrolifere sull’economia italiana. Il comportamento principalmente della Gran Bretagna, in pratica ruppe l’alleanza implicita in essere all’epoca tra l’Italia e la Gran Bretagna dai tempi della Prima Guerra Mondiale. L’Imprevisto capovolgimento strategico fece entrare in crisi le vecchie alleanze e innesco inesorabilmente un riordinamento dei ruoli internazionale di numerosi paesi europei. Le sanzioni – in pratica – furono più che altro retoriche in quanto molti paesi si opposero a che le loro economie soffrissero indirettamente; di fatto si produsse un gran danno d’ordine politico, soprattutto ne pensiero politico italiano; si cominciò quindi a vedere la Gran Bretagna come possibile futuro avversario, più che la Francia o la Germania. Questo nuovo stato di cose fu cristallizzato nella Guerra Civile Spagnola del 1936-39. All’epoca la Gran Bretagna, controllava strategicamente il Mediterraneo con le sue basi di Suez e Gibilterra e aveva libero accesso ai grandi giacimenti petroliferi del Golfo Persico. Le metropoli inglesi erano geograficamente erano molto più lontane di quelle Francesi e Tedesche: ciò comportava di doversi dotare in qualche modo di nuovi strumenti strategici per la nuova dottrina militare italiana. La geografia imponeva altri ostacoli per realizzare la strategia proposta dal generale Douhet. Parigi era a solo a circa 320 Km dalla Renania tedesca, separata da pianure e colline ed era a 600 Km dalla più vicina base aerea italiana nel Piemonte; Londra era di fatto a più di 970 Km di distanza. Per raggiungere sarebbe stato necessario un gran dispendio di carburante per il volo sulle Alpi o una lunga e impossibile deviazione intorno ad stesse. Di fatto, era impossibile assestare colpi devastanti alle capitali avversarie come proponevano le teorie di Giulio Douhet, dato il limitato numero di bombardieri medi a disposizione della Regia Aeronautica nel 1939-40. Infine, gli aeroporti francesi in Corsica erano separati da Roma da soli 260 Km: all’epoca il Generale Valle escluse qualsiasi attacco eventuale contro Parigi per paura di devastanti ritorsioni contro la capitale italiana.
Ciononostante, all’epoca la nostra Regia Aeronautica si vantava di dominare il “Mare Nostrum” ed i Balcani; queste idee frenavano quindi l’utilizzo strategico delle idee molto avanti con i tempi del Douhet. Comunque, le installazioni militari francesi e la britannica Malta, erano sotto la minaccia dei bombardieri medi, da basi Italiane o dalla Libia. Un’altra questione erano le posizioni strategiche britanniche di Alessandria in Egitto, che era a 560 Km dagli aeroporti militari italiani in Cirenaica ed a Rodi, limitando notevolmente il carico di bombe con le quali in caso di guerra la Regia Aeronautica avrebbe potuto attaccare gli ancoraggi della Royal Navy. Il Canale di Suez era separato dalle nostre basi da distanze ancora maggiori: 890-900 Km. Gibilterra rimaneva a 1290 Km ad ovest delle più vicine basi aeree italiane in Sardegna; i giacimenti petroliferi di Mosul-Kirkuk distavano ben 1370 Km ad est di Rodi, e quelli in Kuwait e Bahrein erano a oltre 1.600 – 1.900 Km dagli aeroporti dell’Eritrea. Quindi, in un attimo di lucidità strategica, la Regia Aeronautica, pensò bene di iniziare a progettare uno strumento strategico in grado di svolgere compiutamente ruoli completamente autonomi e all’altezza della sfida che suggeriva la teoria di Giulio Douhet: emise pertanto una competizione tra le migliori aziende nazionali aeronautiche per dotarsi urgentemente di un bombardiere strategico a grande autonomia (BGR): la famosa competizione della Regia Aeronautica BGR per un Bombardiere a Grande Raggio. Considerando i nuovi obiettivi, la Regia Aeronautica richiese un bombardiere con un’autonomia di oltre 4.000 Km, una velocità massima di 500 Km/h; un equipaggio di 8 uomini, doveva essere in grado trasportare un carico bellico di 2.000 Kg, doveva essere armato con un cannone e 6 mitragliatrici.
In risposta alla specifica furono presentati vari progetti, tra i quali il progetto del bombardiere Fiat G.30B: il primo prototipo del bombardiere progettato dall’Ing. Gabrielli volò il 19 luglio 1942 e venne prodotto tra il 1942 ed il 1944 in 82 esemplari.
L’aereo aveva una velocità di 480 km/h, ha una autonomia di 4000 km alla velocità di 400 km/h. L’armamento era costituito da 6 mitragliatrici da 12,7 mm (con 400 colpi x arma) e 4.000 kg di bombe. Venne impiegato in Africa dal 1943 al 1945 in qualità di bombardiere; nel 1945-1947 come velivolo trasporto truppe. Vantava come richiesto dalle specifiche ministeriali un coefficiente di robustezza 7.
IL FIAT G-50 FRECCIA (1937)
Il Fiat G.50 “Freccia” fu un aereo da caccia, monomotore monoplano monoposto ad ala bassa sviluppato dall’azienda italiana Fiat Aviazione negli anni trenta e prodotto sia dalla stessa che dalla sua controllata Costruzioni Meccaniche Aeronautiche S.A. (CMASA).
Primo monoplano monoposto da caccia italiano interamente metallico, con carrello retrattile e abitacolo chiuso, volò per la prima volta nel febbraio 1937 e l’anno dopo entrò in servizio nella Regia Aeronautica.
Fu impiegato dall’Aviazione Legionaria durante la guerra civile spagnola. Seppure poco potente e poco armato, era estremamente maneggevole, una caratteristica comune ai caccia italiani del tempo. Trovò impiego anche all’estero, nella forza aerea croata. 35 esemplari vennero ceduti alla Finlandia, dove, sotto le insegne della Suomen ilmavoimat, la forza aerea finlandese, il monoplano della Fiat ottenne i maggiori successi (99 vittorie aeree confermate) con un rateo vittorie/perdite di 33 a 1. Progettato dall’ingegner Giuseppe Gabrielli a partire dall’aprile 1935. Il progetto di massima venne completato nel settembre dello stesso anno, ma venne sottoposto a radicali modifiche per meglio venire incontro alle richieste della Regia Aeronautica. Le specifiche iniziali prevedevano infatti anche l’impiego come assaltatore; per questo era prevista una stiva bombe interna, e un armamento di lancio particolarmente pesante comprendente armi da 20 mm; quando successivamente il concorso si orientò verso un caccia puro il progettista si trovò all’alternativa tra riprogettare tutto o adattare l’esistente accettando delle penalizzazioni in tema di peso e aerodinamica. Fu scelta quest’ultima strada, per motivi di tempo. Il primo prototipo, l’MM.334, venne realizzato dalla CMASA e volò per la prima volta il 26 febbraio 1937, ai comandi del pilota collaudatore Giovanni De Briganti, diventando il primo dei caccia monoplani del concorso indetto nel 1936 per l’ammodernamento della linea di volo nell’ambito del Progetto R. Monoplano con ala bassa a sbalzo, con le sole superfici di governo rivestite in tela. “Era caratterizzato da una robusta struttura completamente metallica, e fu il nostro primo caccia a carrello retrattile” (Giorgio Bignozzi, Aerei d’Italia Milano Edizioni E.C.A. 2000). In particolare, le gambe anteriori del carrello erano retrattili verso l’interno mentre aveva il ruotino di coda fisso. Particolarmente maneggevole per essere un monoplano, il G.50 aveva una velocità superiore al biplano Fiat C.R.42 di soli 33 km/h, e gli era pari per armamento. Forse la migliore caratteristica del progetto era l’eccezionale robustezza della cellula, che ne favorì l’impiego come assaltatore quando, durante la seconda guerra mondiale, venne surclassato come caccia. Motorizzato con l’affidabile motore radiale Fiat A.74 RC.38 capace di una Potenza nominale di 840 CV (618 kW), costruzione su licenza dello statunitense Pratt & Whitney R-1830-64 di analoga potenza, condivideva questo propulsore con molti progetti coevi, fra cui appunto l’M.C.200, il C.R.42 ed altri velivoli. Subito emerse la tendenza del velivolo all’autorotazione, problema che lo accomunava al M.C.200, e che non venne risolto nemmeno nei primi esemplari di serie. “Il Fiat G.50 – ricorda Luigi Gorrini, uno dei grandi assi della Regia Aeronautica, con 19 abbattimenti, in un’intervista con il giornalista Andrea Benzi – era un monoplano, molto “da naso”. Ha fatto molte vittime e quando è uscito era già abbondantemente superato. Una macchina strana, dovevi stare molto attento in fase di decollo e di atterraggio”. Tra i caccia destinati al concorso, M.C.200, Caproni Vizzola F.5, Reggiane Re.2000, IMAM Ro.51 e AUT 18 (quest’ultimo presentato con ritardo), il G.50 non era tra i progetti più validi, e forse, dopo il Ro.51, che presentava ancora un carrello fisso, era il più superato. Ma considerazioni che esulavano dalla reale validità dei progetti (i confronti e le valutazioni dei collaudatori avevano un valore puramente indicativo per il Ministero dell’aeronautica) e da una razionale pianificazione della costruzione di aerei militari fecero sì che lo stato maggiore dell’Regia Aeronautica non scartasse il G.50. Così, se il vincitore del concorso risultò essere il Macchi M.C.200 (con l’esclusione del Re.2000 che se pur avanzato ebbe problemi al motore che non furono mai risolti, e degli altri progetti “minori”), anche la Fiat ebbe il suo ordinativo per il G.50, caratterizzato da certa rapidità di realizzazione, superiore a quella del caccia Macchi (ma comunque inferiore a quella del Reggiane). I due prototipi e i primi 45 velivoli di serie avevano un abitacolo chiuso, con struttura anti-cappottamento, come da specifica ministeriale. Questa soluzione, comune anche al caccia Macchi, venne abbandonata per le difficoltà incontrate, in fase di sperimentazione, nell’apertura del tettuccio in volo una volta superata una certa velocità, con conseguente pericolo in caso di necessità di abbandonare l’aereo. Anziché trovare una soluzione tecnica al problema fu preferito rimuovere il tettuccio chiuso dai due caccia, sostituendolo in alcune versioni con pannelli laterali trasparenti. La cordiale insofferenza del pilota italiano all’abitacolo chiuso influenzò solo in minima parte una scelta derivata più dal difetto originale del progetto. A partire dal 46º esemplare venne quindi introdotto l’abitacolo aperto, inoltre furono adottati ipersostentatori modificati, impennaggi verticali ridisegnati. Di questa prima versione ne vennero realizzati 206 esemplari costruiti dalla CMASA e 6 dalla Fiat. All’inizio del 1938, la Regia Aeronautica chiese alla Fiat la realizzazione di un modello biposto da addestramento, per facilitare il passaggio a questo monoplano, dal pilotaggio non semplice, dai biplani. L’allievo sedeva nel posto anteriore, in un abitacolo completamente chiuso, dotato di due roll-bar, uno centrale anti-cappottamento e uno posteriore di supporto. I primi esemplari di questo modello, denominato Fiat G.50/B (Bi-comando Bc.), vennero realizzati nella seconda metà del 1939. I primi cinque esemplari facevano parte della 1ª serie costruttiva. La successiva produzione venne affidata alla C.M.A.S.A. Il numero degli esemplari prodotti ammontò a 106. Un esemplare venne in seguito trasformato in ricognitore equipaggiato con macchina fotografica planimetrica. Un altro G.50/B venne adattato a ricognitore a breve raggio e dotato di gancio di arresto, per il previsto impiego sulla portaerei Aquila, che non divenne mai operativa. I primi “Freccia” operativi furono consegnati alla Regia Aeronautica nel 1939. Durante la Guerra Civile Spagnola, circa una dozzina di G.50 furono inviati in Spagna a rinforzare la Aviazione Legionaria. Il caccia italiano si dimostrò estremamente manovrabile, era uno dei migliori caccia, tuttavia quando la seconda guerra mondiale iniziò, era considerato sotto-potenziato e poco armato. Il pilota italiano di Fiat G.50 con il maggior numero di abbattimenti fu Furio Lauri, al quale ne furono accreditati 11 entro la fine del 1941 (il suo totale fu di 18 vittorie aeree).
Attualmente si conosce un solo Fiat G.50 giunto integro fino a nostri giorni. Si tratta di un modello G.50bis biposto, esemplare MM.6182, ridenominato in seguito 3505 dall’aviazione croata. Dal 2006 il velivolo è immagazzinato in attesa di restauro presso il Museo dell’Aeronautica di Belgrado.
IL FIAT G-55 CENTAURO (1942)
Il Fiat G.55 Centauro era un aereo da caccia diurno, monoposto, mono-motore, da intercettazione e superiorità aerea impiegato dalla Regia Aeronautica e dall’Aeronautica Nazionale Repubblicana (A.N.R.) tra il 1943 e il 1945.
L’autore del blog presso il Museo Storico di Vigna di Valle, Bracciano, Roma.
Progettato sin dal 1940 all’ingegnere Giuseppe Gabrielli, da cui la “G” della sigla, il Fiat G.55 è stato definito “il miglior caccia prodotto in Italia durante la guerra”.
Questo aereo, in volo dall’aprile del 1942, nel corso del suo breve servizio operativo, svolto quasi esclusivamente sotto le insegne dell’aviazione della Repubblica Sociale Italiana, si dimostrò un intercettore assai efficace in quota.
Nelle battaglie aeree svoltesi nei cieli dell’Italia del Nord, nell’ultimo anno di guerra, il Centauro si scontrò con avversari come il Supermarine Spitfire e gli americani P-38, P-47 e P-51, dimostrandosi in ogni occasione un potente avversario. In produzione dai primi mesi del 1943, le prime consegne furono nell’agosto dello stesso anno. Fu molto apprezzato dai piloti ma se ne produssero solo 164 esemplari. La stessa Luftwaffe, dopo prove comparative, nel 1943, lo considerò “il miglior caccia dell’Asse”. L’ultima versione, il G.56, è del marzo 1944. Con un più potente motore Daimler-Benz DB 603, da 1750 CV, raggiungeva la velocità di 685 km/h e nei test surclassava sia il Me 109G sia il Fw 190A. Ne fu costruito un solo esemplare, il prototipo. Anche Gabrielli, come aveva fatto il collega dell’Aeronautica Macchi, ingegnere Mario Castoldi con il Macchi MC.200, aveva modificato un caccia con motore radiale (nel caso di Gabrielli, il Fiat G.50) per potervi montare il motore tedesco Daimler-Benz DB 601 A1 (progetto del G.50V). L’esperimento tuttavia non si concretizzò in un nuovo caccia di serie, come avvenne per Castoldi. La Fiat poté però rispondere al bando di concorso della Regia Aeronautica per i cosiddetti caccia “serie 5” (dotati del motore Daimler-Benz DB 605 A da 1.475 CV) con un velivolo completamente nuovo, che solo marginalmente poteva ricordare il Freccia (forse uno dei caccia meno riusciti della Regia Aeronautica, soprannominato dai piloti, per le scarse qualità di volo, “ferro da stiro”). Gabrielli aveva inizialmente lavorato al nuovo progetto basandosi su un motore ancora allo stadio sperimentale, il Fiat A.38 R.C. 15-45, progettato da Antonio Fessia, che avrebbe dovuto fornire circa 1.200 cavalli tra i 1.500 e i 4.500 metri di quota. Non essendo però possibile, in tempi brevi, l’omologazione del nuovo motore, Gabrielli adattò il progetto (già denominato G.55) al motore tedesco Daimler-Benz DB 605 A, che in Italia la Fiat avrebbe prodotto su licenza come Fiat R.A. 1050 Tifone, e che aveva praticamente lo stesso ingombro dell’A.38. Per le necessità di questo motore i G.55 era dotato di un’ampia presa d’aria montata centralmente sotto la fusoliera. Il G.55 volò per la prima volta il 30 aprile del 1942, pilotato dal famoso collaudatore Valentino Cus. Vi furono difficoltà e i ritardi, non ultimo quello dell’allestimento delle catene di montaggio. La Regia Aeronautica, tra l’altro, stipulò contratti con i tre i costruttori italiani di aerei da combattimento, disperdendo le risorse necessarie e ritrovandosi con pochi esemplari di ognuno dei tre modelli prodotti. La Fiat ottenne la licenza per produrre internamente il motore tedesco Daimler-Benz, denominandolo RA1050 “tifone”. Nel febbraio del 1943, la Luftwaffe inviò in Italia una missione per produrre test comparativi con i nuovissimi caccia italiani della “serie 5”. La delegazione tedesca confrontò in volo un Messerschmitt Bf-109G-4 e un Focke WulfFw-190A-5, i modelli di punta del tempo, con il Fiat, il Reggiane 2005 e il Macchi M.C.205. Seppure tutti e tre i caccia italiani risultassero superiori a quelli tedeschi per maneggevolezza e velocità di salita, la Luftwaffe valutò il G.55 come “ottimo”, il Re.2005 come “buono” e il M.C.205 come “medio”. Il capo missione, tenente colonnello Oberst Petersen, telegrafò al maresciallo del Reich, Hermann Goering, che “il miglior caccia dell’Asse era il G.55”. La Luftwaffe prese in considerazione la possibilità di sospendere la produzione di tutti i loro caccia a elica a favore del Fiat, anche in vista della possibilità di trovarsi tra le mani, montando il Daimler Benz DB 603 da 1750 cavalli, un “super-caccia” (il Fiat G.56) da quasi 700 km/h, maneggevole, ottima piattaforma da tiro e capace di arrampicarsi più velocemente di tutti gli altri caccia con motore a pistoni fino a 13.500 metri, più in alto di qualunque bombardiere alleato. In attesa del G.56, la Luftwaffe decise di dotare del Centauro diversi dei suoi stormi da caccia. Nell’autunno del 1943 le autorità tedesche a Berlino ordinarono 500 Centauro dei quali, in realtà, solo 148 furono completati. Gli italiani avevano pianificato una produzione di 3.600 macchine per la Regia Aeronautica, un obiettivo fin troppo ambizioso, perché i raid inglesi su Torino alla fine del 1942 avevano distrutto gli impianti di assemblaggio e avevano così reso impossibile la produzione rapida di questo caccia. Di conseguenza, soltanto 32 Centauro vennero consegnati alla Regia Aeronautica prima dell’Armistizio”. Alla fine il progetto della Luftwaffe di dotarsi del Centauro decadde, anche per la considerazione del numero elevato di ore/lavoro necessario per costruire un esemplare del caccia italiano, pari al triplo di quelle occorrenti per costruire un Bf-109. Eppure, i tecnici della Luftwaffe calcolarono che l’industria nazionale italiana, abbandonando la produzione di biplani e bombardieri ormai superati, avrebbe potuto arrivare a produrre 800 caccia al mese. La produzione del G.55 continuò dopo l’armistizio ma, a causa dei bombardamenti, dei sabotaggi, degli scioperi, dei ritmi di produzione rallentati per non provocare ritorsioni da parte dei partigiani, la fabbrica torinese arrivò a costruire, fino alla fine della guerra, circa 180 G.55, molto meno del quantitativo previsto per un mese. Il precipitare degli eventi, nel corso del 1943, fece sì che fosse il caccia Macchi ad arrivare per primo ai reparti, visto il vantaggio di poter utilizzare le linee di montaggio dello M.C.202. I primi G.55 (16 esemplari di pre-serie e 15 del lotto iniziale di produzione) vennero consegnati ai reparti nell’aprile del 1943, ma ci volle del tempo prima che divenissero operativi. Le macchine della serie 0 erano armate con 4 Mitragliatrici Breda-SAFAT da 12,7 mm, due superiori e due inferiori in fusoliera, e da un cannoncino Mauser MG 151 da 20 mm sparante attraverso il mozzo dell’elica. Nei G.55 della serie-1, la cui produzione sarà riavviata in novembre per conto della Repubblica Sociale Italiana, le due mitragliatrici inferiori in fusoliera erano sostituite da altrettanti cannoncini da 20 mm nelle ali.
IL FIAT G-56 (1944)
Dal G.55 derivò, all’inizio del 1944, su richiesta della Luftwaffe un prototipo equipaggiato col più potente Daimler-Benz DB 603, da 1.750 cv., il G.56. Il prototipo (MM.536) manteneva la stessa altezza ed apertura alare.
Era più lungo di 8 centimetri. Il peso a vuoto passava da 2.730 kg a 2.900 kg. Il carico utile scendeva da 990 kg a 950, mentre il peso totale saliva a 3.854 kg. Le due Breda-SAFAT da 12,7 in fusoliera erano state tolte. L’armamento era composto, ora, da 3 cannoncini da 20 mm. MG.151 con un carico di 600 colpi per le tre armi.
Il Fiat G. 56, con insegne tedesche, veniva collaudato il 28 marzo 1944, dal comandante Valentino Cus, raggiungendo velocità di 690–700 km/h. La Luftwaffe, confermando il grande interesse che aveva suscitato in loro il G. 55, ne ordinò un secondo prototipo predisposto ad ospitare una cabina semi-stagna per missioni sub-stratosferiche. Questo secondo esemplare (MM. 537) fu portato in Germania, a Reichlin. L’ingegnere Giuseppe Gabrielli continuava, intanto, a migliorare il velivolo studiando, tra l’altro, nuovi profili alari. Se messo in produzione, il Fiat G. 56 sarebbe stato un avversario ostico per le aviazioni nemiche. Ma i bombardamenti americani del 25 aprile 1944, oltre a distruggere quasi completamente gli stabilimenti della Fiat, danneggiavano il prototipo MM. 536, bloccando, di fatto, lo sviluppo del più veloce caccia ad elica mai prodotto in Italia. Sul G.55 venne anche sperimentata, nonostante il diniego dell’ingegner Gabrielli, la possibilità di trasformarlo in caccia-silurante. Un esemplare venne modificato a questo scopo (G.55S), con lo sdoppiamento del radiatore (spostato sotto le semiali), il ruotino di coda allungato e il montaggio del meccanismo di sgancio per un siluro da 450 mm. Anche questo progetto non ebbe seguito per le vicende belliche. Il G.55B era invece una versione da addestramento biposto. Dal G.55 si pensò anche di derivare un caccia e caccia-bombardiere con motore radiale. Per esigenze di standardizzazione si pensò di usare la cellula base del G.55, anche se il motore radiale (un Fiat A 83 RC 24-52 da 1250 cv “vortice”, che sarebbe stato disponibile dall’estate del 1943, ma che non fu mai omologato per i mono-motori e prodotto in piccolissima serie) si adattava male ad un aereo pensato per i motori in linea. Questo aereo sarebbe stato prodotto negli stabilimenti pisani della CMASA, e curato anche dall’ingegner Stiavelli, allo scopo di disporre di un aereo relativamente moderno in caso di indisponibilità o diminuzione della produzione dei DB 605 e DB 603. Avrebbe avuto un armamento di 2 Mg 151 da 20 mm e 2 Breda-Safat da 12,7 mm, e la possibilità di trasportare un siluro o svariate bombe, ad una velocità sulla carta di 600 km/h (in verità probabilmente inferiore), ma ottimizzato per le quote medio-basse (a 6.000 m slm le prestazioni sarebbero probabilmente decadute a 480 km/h). Rimase solo un progetto (che alcuni riportano con il nome di G. 57).
Nel dopoguerra il progettista del Centauro accettò di modificarne la cellula per poter montare un motore Rolls-Royce Merlin. Nel 1950 nacque così il Fiat G.59, che servì come addestratore di primo e secondo periodo dell’Aeronautica Militare Italiana.
L’unico Fiat G.55 esistente al mondo è conservato nel Museo storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, sul lago di Bracciano (Roma). Il velivolo è il risultato del programma di ricostruzione/restauro del relitto del velivolo “Fiat G.59A – MM. 53265” (velivolo derivato dalla cellula G 55 del quale ha mantenuta la pressoché totale architettura aerodinamica, salvo la parte anteriore della fusoliera, variata per installare il motore Rolls-Royce Merlin in luogo del Daimler-Benz DB 605).
IL FIAT G-59 (1950)
Il Fiat G.59 fu un aereo da addestramento mono-motore monoplano ad ala bassa a sbalzo sviluppato dall’azienda aeronautica italiana Fiat Aviazione nel periodo postbellico, progettato dall’ingegnere Giuseppe Gabrielli e derivato dai precedenti G.55 Centauro e G.56.
Alla fine della seconda guerra mondiale alla Fiat si cercò di riprendere le attività nel settore aeronautico. Nei magazzini erano rimasti ancora un buon numero di G.55 in fase di realizzazione e molte parti che avrebbero dovuto assicurarne la manutenzione. Con questo materiale il G.55 venne rimesso in produzione non più come caccia ma come aereo da addestramento ottenendo degli ordini da parte della appena ricostituita Aeronautica Militare e dall’Argentina.
Il buon successo dell’ordine venne seguito da ulteriori richieste che però non potevano essere più soddisfatte a causa dell’esaurimento delle scorte di motori Daimler-Benz DB 605 dei quali era dotato. Grazie ad una serie di valutazioni comparative ottenute in base all’installazione di diversi motori sulla cellula dell’unico G.56 sopravvissuto, si ritenne che il motore più adatto ad offrire una conversione che riunisse semplicità costruttiva e convenienza economica fosse il britannico Rolls-Royce Merlin, per cui l’ingegner Gabrielli, progettista dell’originario G.55 da cui ha inizio la serie, modificò il G.55 in funzione dell’ottimizzazione del Merlin, della possibilità di trasformarlo in biposto e di aggiornarlo con le ultime specifiche tecnologiche. Nel dopoguerra il progettista del Centauro accettò di modificarne la cellula per poter montare un motore Rolls-Royce Merlin.
Nel 1950 nacque così il Fiat G.59, che servì come addestratore di primo e secondo periodo dell’Aeronautica Militare Italiana. Il G.59 fu introdotto nei reparti da addestramento dell’Aeronautica Militare nel 1950, inizialmente come dotazione della scuola di volo di Lecce, sia nella versione monoposto, la G.59-1A, che nella biposto G.59-1B, ben presto soprannominato dal personale “Mustang all’italiana” per la sua somiglianza con lo statunitense North American P-51 Mustang con cui condivideva la motorizzazione e rimanendo in servizio fino al 1957.
FIAT G-91 (1956)
Gennaio 1958: la NATO annuncia il vincitore del concorso per un nuovo cacciabombardiere tattico leggero che dovrà essere adottato dai Paesi del Patto Atlantico.
È il Fiat G 91, progettato da Giuseppe Gabrielli. Grazie alle caratteristiche di volo, alla capacità di operare anche da piste in erba e alla rapidità con la quale può essere rifornito e riarmato fra una missione e l’altra, è preferito ai suoi concorrenti: l’inglese Folland Gnat e i francesi Dassault Etendard e Breguet Taon. Una bella soddisfazione per la Fiat e per Gabrielli, uno dei progettisti più capaci, papà di velivoli come il G 55 Centauro: probabilmente il miglior caccia italiano della Seconda Guerra Mondiale. Quello del G 91 sarà solo un successo a metà. Gran Bretagna e Francia, piccate per la sconfitta delle loro industrie, non adotteranno il piccolo velivolo della Fiat, che alla fine verrà impiegato soltanto dalle aeronautiche di Italia, Germania Federale e Portogallo. In tutto ne verranno prodotti 756 esemplari, fra quelli usciti dallo stabilimento Fiat di Caselle e quelli costruiti su licenza in Germania dalla Dornier. Numeri che ne fanno uno dei velivoli italiani più affermati. Fra i potenziali clienti compare anche l’Esercito degli Stati Uniti, che ne prova alcuni esemplari. La cosa finirà lì per l’opposizione dell’Air Force, che rivendicherà a sé l’esclusiva disponibilità di velivoli a getto. Piccolo, leggero, estremamente maneggevole, il G 91 (la “Gina”, come veniva affettuosamente chiamato dai piloti tedeschi, in riferimento all’avvenenza dell’attrice italiana Gina Lollobrigida) è ricordato come un velivolo eccezionale.
Rapidissimo nell’obbedire ai comandi, tanto che sarà utilizzato per molti anni dalle Frecce Tricolori, la Pattuglia Acrobatica Nazionale, in esibizioni mozzafiato. L’unico difetto che gli veniva imputato era il limitato carico bellico, ma questa caratteristica era conseguenza delle richieste della NATO, che all’armamento avevano anteposto la capacità di operare da piste corte e improvvisate. Cambiata la dottrina militare, Gabrielli cercò di ovviare al problema con una nuova versione dotata di due motori GE J85, al posto del singolo Bristol Siddeley Orpheus. La versione bimotore, chiamata G 91Y per la particolare forma a “Y” del condotto che portava l’aria ai motori, volò per la prima volta nel 1966: dieci anni dopo il prototipo della versione originale. Capace di raggiungere i 1140 chilometri l’ora, restò in servizio sino al 1995. Nell’agosto del 1956, esattamente il giorno 9, un giovedì, il Fiat G 91 prendeva il volo per la prima volta dall’aeroporto di Caselle, poco fuori Torino, ai comandi il comandante Riccardo Bergamini, dottore in matematica, già pilota dell’Aeronautica Militare, che rimarrà in seguito ucciso negli USA durante un volo di collaudo di un G 91 dotato di razzi supplementari JATO per il decollo rapido. Il piccolo, a paragone con i caccia USA dell’epoca, velivolo italiano era stato ideato dall’Ingegner Giuseppe Gabrielli, uomo di fiducia della Famiglia Agnelli e di Vittorio Valletta, presidente del gruppo industriale di Torino. Durante i primi mesi del 1954 la NATO indice un concorso per la creazione di un aereo che potesse essere utilizzato per il supporto tattico delle truppe a terra. Le specifiche prevedevano la possibilità di decollo e atterraggio su piste semi preparate, anche a manto erboso, una ridotta e facile manutenzione nonché la capacità di essere rifornito e riarmato rapidamente da un personale ridotto. Il velivolo italiano dovette competere con i produttori inglesi e francesi, nel concorso vennero presentati ben dieci disegni di varie macchine e cinque risultarono vincitori di questa fase preliminare, incluso il “nostro” aereo. Nel giugno del 1955 la Fiat ricevette l’ordine di preparare tre prototipi del G 91, e l’opzione per altri ventisette velivoli, in base alla riuscita dei test futuri. Il primo prototipo venne allestito in tempo di record, anche avvantaggiandosi dell’esperienza già acquisita dalla FIAT avio con le produzioni precedenti sia ideate dal grandissimo e prolifico ingegner Gabrielli sia prodotte su licenza. La maneggevolezza e la facilità di decollo dimostravano l‘estrema bontà del progetto, doti che si accompagnavano a prestazioni in volo davvero eccellenti, tant’è che dopo un periodo di pochi mesi il velivolo raggiunse la velocità di Mach 1, dimostrando così anche doti di cacciatore. Durante la primavera del 1957 presso l’aerodromo di Bretigny si svolsero le prove NATO, in competizione, agguerritissima, con le altre nazioni coinvolte e i prototipi relativi. Il velivolo FIAT ne uscì vincitore, proclamato dopo test puntuali e precisi svolti da tecnici e piloti provenienti da diversi Paesi. Se le cose fossero andate come previsto dai trattati dell’Alleanza Atlantica il caccia italiano avrebbe dovuto essere acquistato da tutti i membri dell’istituzione, ma le cose non andarono proprio così. Episodi di corruzione vennero svelati quando il parlamento svizzero, con una delibera quantomeno sospetta, optò per i Mirage francesi, sebbene i rosso crociati avessero già ricevuto due esemplari, di G91 che avevano provato con risultati eccellenti e avevano manifestato l’intenzione di produrli su licenza. Le indagini appurarono che il governo francese e i vertici della Dassault, produttrice del Mirage, avevano corrotto alcuni politici e ufficiali svizzeri che vennero poi condannati, ma la carriera dei G 91 elvetici si arrestò ugualmente. Un altro episodio curioso capitò con l’Austria. Il vicino alpino aveva manifestato l’interesse per la creazione italiana, e in un colloquio fra il ministro della difesa austriaco, l’on. Graf , Il presidente della Fiat Vittorio Valletta e il progettista stesso, Ing. Gabrielli, l’uomo politico austriaco pose come condizione all’acquisto la liberazione, o la riduzione della pena, dell’ufficiale delle SS Herbert Kappler. Come prevedibile questa sorta di ricatto non venne accettata e neanche l’Austria ebbe i G 91. Ben diversa la sorte del prodotto italiano con l’ex alleato tedesco. Infatti la Luftwaffe ordinò l’aereo italiano e ne produsse circa trecento su licenza. In totale i germanici ne utilizzarono circa cinquecento, inclusi i modelli biposto, caratterizzati dal suffisso T, Trainer (addestratore). Sebbene sia la Grecia sia la Turchia avessero manifestato interesse, forse per evitare frizioni fra i due ex nemici, le forniture non ebbero luogo. Il velivolo ebbe un limitato uso in operazioni belliche. Soltanto il Portogallo impiegò, infatti, l’aereo italiano dal 1966 al 1974, a seguito di forniture di macchine di seconda mano da parte della Luftwaffe tedesca, nelle operazioni antiguerriglia in Guinea e Mozambico, per poi toglierlo dalla linea di volo nei primi anni ’90. Fu utilizzato dalla nostra Pattuglia Acrobatica Nazionale del 1963 al 1981. L’Aeronautica Militare Italiana lo impiegò fino a metà degli anni ’90. Il Fiat G.91, poi Aeritalia G-91, spesso soprannominato “Gina” dai suoi piloti, era un cacciabombardiere-ricognitore monomotore a getto ed ala a freccia progettato dall’ing. Giuseppe Gabrielli e prodotto dall’azienda aeronauticaitaliana Fiat Aviazione (divenuta Aeritalia in un secondo tempo) dalla metà degli anni cinquanta. Fu il vincitore del concorso della NATO del 1953 per la produzione di un nuovo aereo leggero da supporto tattico. Utilizzato principalmente dalla tedesca Luftwaffe e dall’Aeronautica Militare, in Italia è noto anche per essere stato a lungo il velivolo della pattuglia acrobatica nazionale Frecce Tricolori fino alla sua sostituzione con l’Aermacchi MB-339PAN. La Força Aérea Portuguesa impiegò il G.91 dal 1966 al 1973 nelle operazioni controguerriglia nella Guinea portoghese e in Mozambico. Restò in produzione per 19 anni. Ne furono costruiti 756 esemplari, inclusi i prototipi e i modelli di pre-produzione. Progettato in risposta al concorso per una macchina d’attacco e appoggio tattico indetto dalla NATO nel dicembre del 1953, designato NBMR-1 (NATO Basic Military Requirement №1), il Fiat G.91 rispondeva in toto alle caratteristiche richieste: capace di operare da piste di fortuna e non preparate, era dotato di buona velocità (il primo prototipo superava mach 1 a 9 000 m di quota) e poteva trasportare carichi offensivi di almeno 450 kg. La realizzazione del primo esemplare avvenne con un certo anticipo rispetto ai principali concorrenti, anche in ragione della scelta operata dalla Fiat di basare il progetto (in scala più ridotta) su quello dell’F-86 Sabre che l’azienda torinese costruiva su licenza. La somiglianza che ne derivò, oltre a suscitare proteste da parte di aziende concorrenti nella gara NATO, valse al G.91 il nomignolo di piccolo Sabre. Il prototipo venne portato in volo per la prima volta il 9 agosto 1956 all’aeroporto di Torino-Caselle ai comandi del collaudatore Riccardo Bignamini. Malgrado i primi risultati estremamente confortanti, i problemi non mancarono: solo una settimana dopo, nel corso di collaudi a bassa quota, si registrarono problemi di natura aerodinamica (nello specifico insorsero fenomeni noti come flutter) che determinarono il cedimento dell’impennaggio e la conseguente perdita del prototipo. Nel gennaio 1958 il G.91 venne dichiarato ufficialmente vincitore del concorso, dopo aver superato un nutrito gruppo di avversari (7 in tutto), tra i quali il Breguet Br 1001 Taon, il Dassault Mystère XXVI (divenuto poi Étendard VI), il Folland Gnat e l’Aerfer Sagittario 2. Gli esemplari di preserie equipaggiarono (a partire dall’agosto dello stesso anno) il 103º Gruppo (allora inquadrato nella 5ª Aerobrigata) che ne testò le caratteristiche nel corso di missioni operative. L’estate successiva questi esemplari vennero sottoposti all’attento esame di una commissione NATO che, anche in questa occasione, ebbe ad emettere un giudizio estremamente positivo. Il G.91 è un monoplano ad ala bassa, con configurazione a freccia con un angolo di 37°; la fusoliera, con struttura a semiguscio in lega leggera, alloggia il motore nel tronco posteriore, subito davanti al quale sono disposti i serbatoi del carburante e gli alloggiamenti del carrello d’atterraggio. Nella sezione di prua è disposto l’abitacolo, sotto al quale è posizionata la presa d’aria dinamica per il motore; la postazione di pilotaggio era equipaggiata con un seggiolino eiettabile Martin Baker Mk.3 che successivamente fu portato alla configurazione 0 quota e 0 velocità, grazie ad un pacco di razzi disposti inferiormente che lo portavano ad una quota tale da poter far aprire il paracadute e far ritornare a terra il pilota senza danno con velivolo fermo a terra. Le mitragliatrici (o, secondo le versioni, i cannoni) sono disposte a fianco della presa d’aria, sotto la cabina ed all’estrema prua sono alloggiate le macchine fotografiche e le apparecchiature di controllo delle stesse. I piani di coda oltre agli impennaggi sono composti anche da una pinna ventrale di dimensioni ridotte. Il carrello è di tipo triciclo anteriore: la gamba anteriore, nel ritrarsi all’indietro, compie una rotazione di 90° e la ruota è alloggiata di piatto sotto la presa d’aria; le gambe posteriori trovano spazio nelle semiali, con le ruote che, ritraendosi verso l’interno, vengono alloggiate in fusoliera. A seconda delle versioni, alle semiali sono agganciati due o quattro piloni cui è possibile applicare serbatoi di carburante o carichi bellici (in genere bombe non guidate o lanciarazzi).
Durante tutta la propria vita operativa il G.91 venne motorizzato con il turbogetto Bristol Siddeley Orpheus (lo stesso motore che equipaggiava il Folland Gnat). Il prototipo era equipaggiato con un turboreattore derivato da quello utilizzato per un missile terra-terra. Per questo motivo aveva una durata operativa di sole 300 ore (TBO) al termine delle quali doveva essere sottoposto a revisione generale. Dotato di un eccellente rapporto peso/spinta, aveva un complesso sistema di regolazione del carburante composto di parti variamente dislocate sul motore. Caratteristico il sistema di avviamento che avveniva ad opera di una piccola turbina azionata dai gas prodotti dalla combustione di una carica di cordite. Dal punto di vista produttivo, pur raggiungendo numeri di tutto rispetto, il G.91 non vide realizzate le aspettative nutrite dalla Fiat dopo la vittoria in un concorso internazionale. La Luftwaffe, infatti, fu l’unica forza aerea della NATO che fece seguire ordini di produzione alle proprie manifestazioni d’interesse nei confronti del velivolo, in ciò attratta (oltre che dalle innegabili doti della macchina) anche dalla possibilità di partecipare al programma di produzione su licenza, che costituì fattore di attrattiva nei confronti dell’industria aeronautica tedesca che si stava ricostituendo dopo la seconda guerra mondiale ed i successivi divieti imposti nel settore delle costruzioni aeronautiche. La produzione di serie fu così realizzata sia in Italia, presso gli stabilimenti Fiat, che in Germania Ovest dove, negli stabilimenti della Dornier Flugzeugwerke (in parte confluita, a seguito di intricate fusioni societarie, nella Flugzeug Union Süd, con sede a Ottobrunn), furono costruiti 294 esemplari degli oltre 500 che vennero impiegati dalla Luftwaffe.
IL FIAT G-91Y (1966)
L’Aeritalia G-91Y, soprannominato amichevolmente dai piloti Yankee (dalla lettera Y in Alfabeto fonetico NATO), che sottolineava la forma della presa d’aria, unica frontalmente ma internamente divisa in due per alimentare separatamente i motori, quindi a forma di Y, era un cacciabombardiere bimotore a getto ed ala a freccia prodotto dall’azienda italiana Aeritalia negli anni sessanta.
Derivato dalla precedente versione G.91R, ne manteneva l’aspetto generale e se ne differenziava principalmente per l’adozione di un impianto propulsivo bimotore, a differenza del primo monomotore, e del conseguente aumento prestazionale e di capacità di carico bellico.
Il G-91Y venne utilizzato solamente nell’Aeronautica Militare essenzialmente nel ruolo di aereo per il supporto tattico ravvicinato e da ricognizione aerotattica, restando operativo fino agli anni novanta, quando venne sostituito dal più moderno AMX. Il progetto dell’G-91Y, o meglio il suo sviluppo dalla famiglia dei G.91, si deve all’esigenza di fornire un mezzo da utilizzare come cacciabombardiere/aereo da attacco leggero che esprimesse caratteristiche più moderne e più specifiche rispetto a quelli utilizzati dall’Aeronautica Militare fino ad allora. L’evoluzione venne sviluppata dallo stesso progettista del G.91 (Giuseppe Gabrielli) con l’intento di non stravolgere il progetto originale, sia in funzione delle sue buone caratteristiche di base, sia per mantenere i costi di produzione a livelli accettabili per le disponibilità economiche offerte dal periodo; inoltre le aspettative di commercializzazione puntavano a replicare il successo internazionale conseguito con il precedente modello, portando a scegliere un approccio conservativo che, tuttavia, si rivelerà inadeguato: la concorrenza di altri progetti esteri decreterà la diffusione del G-91Y solamente sul territorio italiano. Il prototipo venne portato in volo per la prima volta il 12 dicembre 1966, dall’avio-superficie aziendale di Caselle Torinese e, dopo averne verificato la rispondenza alle specifiche progettuali, il nuovo velivolo venne dichiarato idoneo alla commercializzazione. Venne quindi presentato al pubblico l’anno successivo al Salone internazionale dell’aeronautica e dello spazio di Parigi-Le Bourget ma si dovette aspettare il 1969 per ricevere il primo ordine emanato dall’Aeronautica Militare. L’interessamento da parte della Svizzera per un eventuale fornitura alla sua forza aerea fece sviluppare una versione specifica nel ruolo di caccia leggero multi-ruolo, la G-91YS, che però non ebbe seguito produttivo, in ragione della scelta del governo svizzero di dotarsi invece dei Northrop F-5E Tiger II. L’unica versione costruita fu la conseguenza dell’ordine emesso dal governo italiano per la fornitura di 75 esemplari, ridotti però a 65 effettivamente consegnati. Il G-91Y venne impiegato operativamente negli Stormi Caccia Bombardieri e Ricognitori (CBR), nell’8º Stormo Gino Priolo con sede a Cervia, tra i cui il 101º Gruppo, ed il 13º Gruppo del 32º Stormo con sede all’aeroporto di Brindisi. Frutto di una revisione complessiva del progetto iniziale, agevolata dall’introduzione di più recenti sistemi costruttivi, il G-91Y era più potente del precedente R. Grazie alla sostituzione del motore Bristol Orpheus con due General Electric J85, dotati di post-bruciatore, la spinta aumentava del 63%, contro un aumento di circa il 37% del peso a vuoto. L’incremento di potenza produsse un modesto aumento della velocità di punta, mentre si ebbero considerevoli vantaggi in termini di accelerazione ed in riduzione di corsa al momento del decollo. Pur pagando il prezzo di un consumo più elevato rispetto alla precedente versione, la presenza di serbatoi di maggiori dimensioni (3.200 kg, all’incirca il doppio rispetto al G.91R) garantiva un consistente aumento dell’autonomia operativa. Furono prodotti 65 esemplari, oltre a 2 prototipi, entrati i servizio in due gruppi cacciabombardieri dal 1972 fino al 1994, quando vennero sostituiti dagli AMX. Benché la sua produzione sia rimasta limitata possiamo trovare esposti diversi esemplari del G-91Y. Uno di questi è esposto al Museo storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Vallesituato in località Vigna di Valle nel comune di Bracciano (RM) nei colori del 101º Gruppo CBR (Caccia Bombardieri Ricognitori), 8º Stormo, mentre un secondo esemplare esposto in un museo (sempre con i colori del 101°) è presente a Lugo di Romagna (RA), presso il museo dedicato a Francesco Baracca. Altri sette esposti sono gate guardian: uno (MM.6956 8-62) all’aeroporto di Cervia-Pisignano, un altro (MM.6467 8-47) all’aeroporto di Belluno (a San Pietro in Campo, frazione di Belluno) e un altro all’interno dell’aeroporto di Cameri. Uno si trova esposto all’interno della base di Pratica di Mare, vicino al circolo ufficiali, e due a Brindisi, uno all’interno dell’aeroporto e l’altro all’interno della sede della Fiat Avio; un altro ancora presso l’Istituto Tecnico Maxwell di Milano infine un altro presso l’aeroporto di Palermo-Boccadifalco sede dell’Aeroclub Beppe Albanese.
Il requisito, NATO Military Basic Requirement “NMBR-3” (1961)
Giuseppe Gabrielli è stato un maestro indiscusso dell’ingegneria aeronautica italiana. I suoi progetti portavano un prefisso G e includevano il G.222, la base del superbo “mini-Hercules” spartano C-27J di oggi. Negli anni ’50, il suo progetto G.91 vinse una competizione degli anni ’50 per fornire alla NATO un caccia da supporto tattico economico. A seguito di questa vittoria, era naturale che l’Italia partecipasse alla successiva competizione di jet veloci della NATO. Iniziò una gara epica per dotare la NATO di un caccia-bombardiere che potesse portare la lotta al nemico il secondo giorno di una guerra nucleare. All’inizio degli anni ’60, la NATO stabilì l’obbligo di un comune “jet da combattimento”, con una forte possibilità che tutti i paesi membri acquistassero il velivolo: divenne il più grande concorso internazionale di design mai effettuato. Qualunque azienda avesse vinto il concorso metteva in grado di realizzare un enorme profitto e diventare il principale appaltatore mondiale della difesa. Fu un compito molto difficile, che richiedeva un jet supersonico in grado di decollare e atterrare verticalmente. Il requisito, NATO Military Basic Requirement (NMBR) 3, non specificava una soluzione tecnica al problema V / STOL e i numerosi offerenti adottarono soluzioni diverse.
La prima offerta progettistica della Fiat all’NMBR-3 fu il concetto di base G.95. Questo era relativamente piccolo e mostrava un’ascendenza dal G.91. Era spinto da un motore per il volo in avanti e due piccoli motori ausiliari con spinta vettoriale. Aveva prese a spalla e una coda convenzionale.
La Fiat iniziò quindi a studiare l’uso dei lift-jet che erano motori ausiliari montati verticalmente all’interno dell’aereo e sostentavano l’aereo durante i decolli e gli atterraggi verticali. Una volta che l’aereo era in volo livellato in avanti, venivano spenti. Il concetto risaliva agli anni ’40 ed era stato attribuito sia agli ingegneri di propulsione tedeschi che al genio del jet britannico Alan Arnold Griffith, consigliere del ministero dell’Aeronautica, che aveva osteggiato la tesi di Whittle sulla turbina del 1930; in seguito guidò i progetti dei motori Conway e Avon. Il primo G.95 fu seguito da uno studio più avanzato: il “G.95 / 3”, molto vicino al McDonnell F-101 Voodoo: aveva due motori di volo anteriori ampiamente distanziati e quattro motori di sollevamento e una coda a T alta. Segui lo studio avanzatissimo del “G.95 / 6”, un caccia di foggia molto allungata con piccole ali. Con le sue altissime prestazioni di progetto, la bassa superficie alare e la dipendenza da complessivi otto motori, il caccia sarebbe stato velocissimo e probabilmente avrebbe avuto un altissimo tasso di attrito. Il concetto / 6 aveva due motori per il volo livellato e sei jet lift. La complessità del progetto avrebbe reso la manutenzione costosa e avrebbe ridotto la disponibilità operativa dell’aereo. I sei motori di sollevamento sarebbero stati un peso morto durante il volo livellato, riducendo l’autonomia, il carico utile o entrambi. Se fosse stata costruita, sarebbe stata sicuramente una macchina bellissima e maestosa, che combinava rumorosi decolli verticali (carburante e spinta permettendo) con un aspetto da spietato predatore. Ogni “jump-jet” è per natura un compromesso ed è inferiore al suo equivalente convenzionale. Valeva la pena accettare queste limitazioni? Lo sviluppo di un jet supersonico sarebbe stato costoso, rischioso e avrebbe portato a un aereo meno prestante complessivamente. Se fosse scoppiata una guerra nucleare tattica, questi caccia-bombardieri sarebbero stati in grado di continuare a combattere? Il vincitore dell’NMBR-3 avrebbe dovuto operare da basi aeree temporanee disperse durante i periodi di caos: una colossale impresa logistica che la Royal Air Force britannica ha scoperto con l’utilizzo operativo dell’Harrier.
All’inizio del 1962, il progetto NMBR-3 era già in crisi. Il gruppo di pianificazione della NATO incaricato di selezionare un progetto stava scoprendo che nessun tipo di aereo poteva soddisfare i diversi requisiti delle nazioni NATO. In breve tempo si decise di rinunciare all’avveniristico progetto nonostante che tanto tempo e denaro erano già stati investiti in ciascun candidato dell’NMBR-3. I due progetti più promettenti furono il britannico P.1154 (che avrebbe dovuto sostituire i caccia della RAF e, in misura meno probabile, i Sea Vixens della Royal Navy) e il francese Dassault Mirage IIIV che stava ottenendo un solido sostegno da parte del governo francese. Il G.95 / 6 era un outsider ma sembrava avere poche possibilità di raggiungere la fase del volo poiché non aveva ancora ricevuto finanziamenti dal governo. Nel giugno 1963 tutto cambiò: Fiat Aviazione ricevette dall’Aeronautica Militare Italiana un contratto per un nuovo velivolo d’attacco e un velivolo da trasporto (il G-222). Alla Fiat fu assegnata una somma equivalente a £ 600.000 (al cambio del 1963), oggi circa £ 15 milioni; questo fu sufficiente per finanziare un banco di prova volante, alimentato da motori britannici RB.108. All’epoca il governo italiano, così come molti tecnici Fiat, videro che il sogno di un caccia Mach 2 VTOL stava spingendo al limite la tecnologia dell’epoca. I tecnici Fiat suggerirono un aereo più semplice in grado di sostituire il G.91. L’aereo, designato G.95 / 4, avrebbe avuto una velocità massima compresa tra Mach 1 e 1.3. Era più veloce del P.1127 britannico ed era probabile che avesse un raggio d’azione più ampio. Oltre ad essere un’idea sensata, il / 4 era un tacito riconoscimento che era improbabile che la Fiat sviluppasse operativamente il “G-95/6”. La portanza per il / 4 proveniva da quattro jet RB.162-31 ciascuno con più di 2.000 libbre di spinta. La spinta in avanti doveva essere fornita da due Rolls-Royce/MAN RB.153. La Germania Ovest e l’Italia si unirono quindi per sviluppare un V / STOL G: il VAK-191. La dichiarazione ufficiale del ministero della Difesa tedesco nominò il Focke-Wulf 1262 (VAK-191) come l’aereo scelto; sebbene non fosse stato annunciato, era chiaro che il G.91/ 4 era oramai defunto. Essendo già stato finanziato dall’aeronautica militare, si sarebbe evoluto come progetto di ricerca. Lo stato del G.91 / 4 era nebuloso, ma confluì presto nel progetto VAK-191B. Nel 1965 la Fiat aveva quasi terminato la costruzione su licenza degli F-104G, per cui era alla disperata ricerca di un proficuo lavoro successivo. Il G-95 / 6 era ormai defunto e la duplicazione degli sforzi di lavorare sul VAK-191B e sul G.95 / 4 era chiaramente uno spreco. La maledizione dei velivoli V/Stol alla fine uccise anche il VAK-191. Alla termine della giostra tecnologica, nonostante i milioni di dollari investiti, solo due caccia entrarono in servizio operativo: l’Harrier britannico e lo Yak-38 sovietico.
IL FIAT G-222 (1977)
IL Fiat (poi Aeritalia e Alenia) G.222 Panda, in precedenza Aeritalia G.222, è un bimotore a turboelica da trasporto tattico di costruzione italiana, più piccolo del Lockheed C-130 Hercules e caratterizzato da una forte vocazione tattica e STOL, cioè la capacità di operare su piste molto corte.
Nel 1990 10 esemplari furono acquisiti dalla United States Air Force, acquisendo la designazione C-27A Spartan, designazione poi mutuata dalla successiva evoluzione del progetto, l’Alenia C-27J Spartan.
Le sue origini risalgono infatti ai lavori dell’ingegner Giuseppe Gabrielli con la stretta collaborazione degli ingegneri Sacerdote e Vercelli. Giuseppe Gabrielli fu lo stesso ingegnere che disegnò il G.50, il G.55 ed il G-91, che puntava a realizzare un progetto molto ambizioso, quello di un aereo da trasporto medio-leggero con capacità STOVL (decollo corto ed atterraggio verticale); tale progetto avrebbe dovuto chiamarsi G.222 Cervino. L’iniziativa non andò in porto ed a tutt’oggi l’unico progetto di aereo da trasporto ad atterraggio verticale è il complesso convertiplano statunitense Bell Boeing V-22 Osprey. Accantonata l’idea, si puntò ad un aereo da trasporto tattico il cui sviluppo fu molto lento, tanto che passarono circa 8 anni tra il primo volo dell’aereo e la prima consegna ad un reparto dell’Aeronautica Militare, cliente di lancio.
Primo a ricevere l’aereo fu nel 1978 il 98º Gruppo della 46ª Brigata aerea, seguito poi dal 2º Gruppo. Il G.222 è un aereo in grado di operare da piste molto corte e semi-preparate, quali sono quelle in terra battuta. A titolo di esempio, a Timor Est, durante la Operation Warden, la missione ONU a supporto della forza di peacekeeping INTERFET, il G.222 fu l’unico aereo a garantire il collegamento con l’aeroporto di Dili, immerso nella foresta. Le sue doti acrobatiche sono tali da vederlo sovente partecipare con una propria presentazione alle manifestazioni aeree internazionali, mentre le capacità STOL e la buona condotta di volo in bassa quota ne fanno un aereo molto adatto al trasporto di incursori ed alle operazioni di trasporto in teatro di guerra. A seguito di scenari operativi configuratisi in Bosnia, negli anni 1990 venne sviluppata la modifica AAA (Ammodernamento avionico e auto-protezione) per l’auto-protezione attiva e passiva (AECM/PECM) allo stato dell’arte, confluita poi nel nascente C27J. Il vano di carico è molto razionale e permette di sfruttare al meglio lo spazio. Il G.222 può trasportare 44 passeggeri o 32 paracadutisti. L’equipaggio è costituito da 2 piloti, uno specialista ed un loadmaster addetto al carico ed al lancio dei paracadutisti. L’Aeronautica Militare, negli anni 1977-1979, immise in servizio i primi G-222 per la 46ª Brigata aerea, al posto dei vetusti C-119G e C-119J. Ricevette in tutto 52 aerei, inclusi 4 esemplari modificati per eseguire la calibrazione dei radio-ausili alla navigazione (G.222 RM), consegnati al 14º Stormo di Pratica di Mare nel 1984 insieme con un G.222 VS (Versione Speciale) impiegato per le missioni di intelligence elettronica (ricevuto nel 1981). A questi reparti va aggiunto il Reparto Sperimentale di Volo, che impiegò alcuni di questi aeroplani. Nel 1982 vennero ceduti all’Aeronautica Militare anche 5 esemplari in precedenza in carico alla Protezione Civile e modificati per la lotta aerea antincendio, equipaggiati con un serbatoio predisposto per il lancio di acqua mista a liquido ritardante. L’attività del “Gigio” (così è stato soprannominato, affettuosamente) nel corso degli anni è stata costantemente focalizzata sugli interventi a carattere umanitario, di protezione civile e in missioni di pace fuori area. È stato, a tali propositi, utilizzato dalle strisce in terra battuta di Etiopia, Somalia ed Eritrea e nella giungla tropicale di Timor Est. Durante le operazioni in Somalia un G-222 venne opportunamente modificato con l’aggiunta di diverse postazioni e radio supplementari per fungere da posto di comando volante. Il 10 settembre 2005, al termine di una cerimonia presso l’aeroporto di Pisa-San Giusto, l’Aeronautica Militare Italiana ha terminato l’impiego operativo del G.222 presso la 46ª Aerobrigata. Restano operativi i due esemplari residui presso il 14º Stormo. Il 29 settembre 2008, 18 esemplari ex Aeronautica Militare sono stati ceduti per 287 milioni di dollari all’USAF. Quest’ultima provvederà poi a fornirli alle forze aeree afghane (Afghan National Army Air Force).
L’ARCHIVIO STORICO DELL’ING. GIUSEPPE GABRIELLI
Un fondo di circa 90 metri lineari (estremi cronologici: 1908 – 1984) comprendente manoscritti, disegni tecnici, progetti, brevetti, corrispondenza, fotografie, partecipazioni a conferenze e congressi è consultabile su appuntamento presso il Centro Storico Fiat, a Torino.
(Fonti delle notizie: Web, Google, Wikipedia, You Tube)