I programmi spaziali cinesi
Esplosa negli ultimi anni, la conquista cinese dello spazio dal 2015 si è fatta sempre più concreta e militarmente orientata. Il Libro Bianco sulle attività spaziali, già datato (2016), non ha una impostazione aggressiva, anzi è interamente improntato a una logica irenica di pseudo-strategia dello spazio. Enfatizza lo sviluppo dei veicoli lanciatori, l’ambizione ai voli abitati, l’esplorazione lunare e marziana, i piani per l’osservazione terrestre e per i sistemi di remote sensing, l’integrazione di satelliti di comunicazione e navigazione e i relativi segmenti terrestri e l’ulteriore sviluppo di tecnologie per le comunicazioni e la trasmissione televisiva via satellite.
Il documento sottolinea anche l’incremento del numero e della qualità degli esperimenti di tecnologia spaziale, lo sviluppo di un telescopio per lo studio dello spazio profondo, lo studio delle scienze spaziali e delle discipline afferenti, dalla tecnologia dei materiali all’astrobiologia, dalla sperimentazione della microgravità all’astronomia, senza tralasciare la fisica spaziale.
La Cina ha tutt’altro che ignorato questi settori ma vi ha dirottato fondi annui prossimi agli 1,7 miliardi di dollari. Il suo bilancio spaziale totale, ufficiale e molto dubbio, supera i 10 miliardi di dollari l’anno, equivalenti a un misero 0,1% del Prodotto Interno Lordo, un quinto circa del budget statunitense e metà di quello europeo.
Difficile credere a queste cifre, soprattutto alla luce dei dirompenti programmi militari. In passato, e solo per alcuni ambiti, Pechino ha beneficiato di contributi tecnici esterni, a partire dall’assistenza russa nel settore dei voli spaziali con equipaggio, passando per gli aiuti brasiliani nello sviluppo dei satelliti per l’osservazione della terra, a quelli tedeschi nei sistemi orbitali di telecomunicazione e statunitensi per la tecnologia dei vettori di lancio.
Ma la Cina è ormai indipendente dalla catena di approvvigionamento straniera, diversamente da quanto accade nel settore motoristico della produzione aeronautica. L’industria spaziale cinese ha mostrato negli ultimi anni un tasso di crescita incalzante, non diversamente dagli altri comparti strategici dell’apparato economico-produttivo. Un progresso ascrivibile non solo al rapido incremento del supporto governativo ma anche alla sempre più massiccia partecipazione di aziende cinesi al mercato aerospaziale globale e alla filiera produttiva dei principali attori internazionali (vedi pp. 31 e seguenti).
Similmente alle tecnologie aeronautiche, quelle spaziali sono intrinsecamente duali e non stupisce che lo sviluppo di sistemi spaziali civili abbia forgiato il know-how cinese nell’ambito dei sistemi spaziali militari.
Non è un caso che i vettori missilistici possano essere usati per lanciare satelliti militari o civili. E gli stessi satelliti per telecomunicazioni, osservazione della terra e navigazione celano quasi sempre obiettivi di ricerca e finalità militari. L’impulso per lo sviluppo di un sistema PNT (Position, Navigation, and Timing) è venuto ad esempio da esigenze della Difesa e ha assunto poi valenza duale.
Nonostante alcune frenate temporanee per problemi di natura tecnica, i satelliti cinesi forniscono oggi capacità sempre più sofisticate nell’ambito della sorveglianza e dell’assistenza alla navigazione, garantendo un quis pluris alle capacità militari autoctone. Emulano gli standard americani e coprono la maggior parte delle esigenze militari. Gli oltre 300 lanci operativi eseguiti finora sfiorano percentuali di successo del 95,6%.
I razzi della famiglia Chang Zheng (CZ) o Long March sono stati basati inizialmente sui missili balistici della serie Dongfeng voluti da Mao Zedong a partire dagli anni ’60 in risposta alla paventata minaccia statunitense e, più tardi, sovietica.
Le quattro serie attualmente operative, CZ-2, CZ-3, CZ-4 e CZ-5 utilizzano propellente liquido e possono operare da uno qualsiasi dei siti di lancio del Paese, Jiuquan, Xichiang, Taiyuan, ubicati per esigenze strategiche nella profondità dell’entroterra cinese, e Wenchang, sull’isola di Hainan mentre la nuova generazione di lanciatori, CZ-5 costruita a Tianjin, sarà seguita dalla CZ-8, concepita per lanciare carichi pesanti in orbite eliosincrone. Salvo sorprese, ne vedremo il volo inaugurale quest’anno.
Il CZ-5 utilizza combustibili non tossici, è stato progettato per immettere in orbita bassa carichi utili dell’ordine delle 25 tonnellate, che scendono a 14 per le orbite geostazionarie: performance del tutto comparabili a quelle di Ariane-5, garanzia di lanci ottimali per missioni che spaziano dall’invio di sonde lunari, ai satelliti commerciali e militari o ai moduli della stazione spaziale cinese in fieri. Il programma per l’invio di capsule abitate nello spazio risale al 1967, al progetto Shuguang-1.
Sebbene i piani originali cinesi prevedessero un lancio umano nell’ottobre del 1999, si dovette attendere fino al 2003 per realizzare la prima missione con equipaggio. Un evento storico, visto che la Cina è divenuta ipso facto il terzo paese al mondo a riuscirvi, con la permanenza in orbita per oltre 21 ore dell’astronauta Yang Liwei, a bordo della Shenzhou-5 (nella foto sotto).
E un altro passo significativo è stato compiuto il 16 giugno del 2012, quando il razzo Shenzhou-9 ha portato sulla stazione orbitante Tiangong-1 altri tre membri di equipaggio, tra cui la prima donna astronauta, il maggiore dell’aeronautica Liu Yang.
La Guida Nazionale per i Piani a medio e lungo termine per la scienza e lo sviluppo tecnologico (2006-2020) aveva delineato tra gli obiettivi dell’industria aerospaziale cinese lo sviluppo di nuovi vettori ad alte prestazioni, di un motore a razzo propulso da combustibile liquido, ossigeno e kerosene, da 120 tonnellate di spinta, e di un altro motore a razzo da 50 tonnellate a combustibile idrogeno-ossigeno. Alla China Aerospace Science Industry Corporation (CASIC), è stato ormai quasi ultimato lo sviluppo di una famiglia di piccoli vettori a ergolo solido, denominata Kaituo e mutuata guarda caso dai missili balistici Dongfeng-21, non dai DF-31 come si legge spesso erroneamente.
Il Kaituo-2 o KT-2 è stato lanciato con successo dallo spazioporto di Jiuquan il 3 marzo 2017. Del lanciatore si sa poco, come del satellite sperimentale TK-1 rilasciato in orbita eliosincrona (SSO), a 400 km di altitudine. Il KT-2 sarebbe in grado di piazzare 250 kg in orbita SSO a 700 km o 350 kg in orbita terrestre bassa (LEO).
Fa parte di una delle 5 famiglie di lanciatori spaziali previste nel piano di sviluppo strategico del gruppo CASIC, che sono la Kaizhou, pensata come una generazione di lanciatori di reazione rapida; la Kaituo, che fungerebbe da famiglia di lanciatori normali; la Qiaozhou, concepita come famiglia dedicata ai lanci di dirigibili stratosferici e la Qingzhou, ideata come famiglia di lanciatori a ergolo liquido, con lancio assistito tramite catapulte elettromagnetiche. Nei prossimi anni, i razzi Long March non saranno più gli unici a proiettare la Cina nell’olimpo dei lanci spaziali. Bisognerà sommare queste 5 nuove famiglie di lanciatori, targate CASIC, e quelle di due costruttori civili cinesi che metteranno presto in servizio i loro lanciatori.
Anche il satellite TK-1, spedito in orbita con il KT-2, è un prodotto della 2a Accademia della CASIC, specialista in missili terra-aria. Stranamente, ma non troppo, CASIC non ha comunicato i dati tecnici del satellite, banalmente qualificato come ‘agile’. Ad oggi, si sa soltanto che il progetto della piattaforma su cui il satellite si basa è stato avviato nel marzo 2014, pensato per integrare cariche utili ottiche, infrarosse, a microonde e da comunicazione. La piattaforma dovrebbe servire all’osservazione dei detriti spaziali, alla raccolta dei dati di telemetria pluri-fonte e al trattamento della distribuzione dei dati. Insomma una vera piattaforma multiruolo.
Ma che cosa faccia il satellite sperimentale non si sa. Secondo i pochi dati filtrati, TK-1 contribuirà anche al progetto Hongyun, che punta a fornire un accesso mondiale a Internet a banda larga, sulla falsariga di OneWeb, con 156 satelliti in banda Ka posizionati a 1.000 km di altitudine.
Il primo satellite sperimentale è stato lanciato nel 2018 da Jiuquan e altri quattro sono previsti quest’anno. Per l’apertura di servizio della fase 1 del progetto bisognerà attendere il 2021. La Cina si mostra mite e filantropa ma quando serve mostra i muscoli e non lo fa più di soppiatto. Sta affinando le armi, in tutti i segmenti della militarizzazione dello spazio. Il test antisatellitare (ASAT) del gennaio 2007 la dice lunga sulle vere ambizioni di Pechino, che ambisce a competere con gli altri big anche per la supremazia spaziale.
Dopo gli svariati test ASAT ai livelli orbitali inferiori, Pechino ha ormai acquisito la capacità di distruggere satelliti in orbita alta (dove si trovano i sistemi di intelligence e di comunicazione militari) e ha in arsenale nuove armi anti-satellite più difficili da individuare, dai disturbatori laser terrestri agli impulsi elettromagnetici emessi da un satellite per disabilitare un altro.
Nei mesi di agosto e novembre 2010, ha sperimentato in orbita bassa la manovra di due satelliti molto prossimi fra loro e potrebbe replicare il test in orbita alta, simulando delle funzionalità di attacco per scopi distruttivi. Tutte le tecnologie ASAT e KKV (Kinetik Kill Vehicle) sono sviluppate dalla 2a Accademia della CASIC, in collaborazione con la China Academy of Launch Vehicle Tecnology (CALT).
L’organizzazione politica e industriale della corsa cinese allo spazio
Dal 2008 al 2015, a supervisionare l’insieme delle attività spaziali cinesi è stato il Dipartimento Generale dell’Armamento (DGA), creato un decennio prima sul modello della Direction Général de l’Armement francese. La DGA cinese ha gestito in primis i programmi militari, controllato i siti di lancio di Jiuquan, Taiyuan, Xichang e lo spazioporto di Wenchang (vedi pg. 39).
Ha proceduto a tutti i lanci e monitorato l’insieme delle manovre spaziali: dalla messa in orbita ai sempre più frequenti test antisatellite. Sebbene le politiche generali di difesa emanino dalla Commissione Militare Centrale, organo diretto del Partito Comunista Cinese, spettava alla DGA occuparsi di tutti gli aspetti tecnologici, che si trattasse degli studi di fattibilità, dell’analisi delle soluzioni tecniche, salvo appoggiarsi alla Commissione per la Ricerca Scientifica nelle fasi di consultazione tecnica.
Era una simbiosi abbastanza virtuosa, perché tramite la Commissione, la DGA poteva mobilitare un ampio cenacolo di cervelli: esperti civili, ingegneri e scienziati, consultandoli sulle migliori opzioni tecnologiche e orientamenti da seguire. Fattore non trascurabile, la Commissione è sempre stata ed è tuttora in stretto coordinamento con i Laboratori Cardine della Difesa Nazionale, disseminati negli istituti di ricerca industriali e nelle università civili e militari, finanziati fino al 2015 in massima parte dalla DGA e posti sotto il suo controllo diretto (vedi pg. 9).
Dal 2016, la nascita della Forza di Supporto Strategico ha modificato il quadro. Lo vedremo meglio dopo. Adesso concentriamoci sulla ricerca e l’organizzazione industriale dello spazio cinese. Il numero dei Laboratori è classificato, ma la stima più attendibile parla di oltre un centinaio (vedi pp. 9-10). Non meno di cinque sono ospitati dai colossi dell’aerospazio cinese: CASC (China Aerospace Science and Technology Corporation) e CASIC, attivi su tutti i segmenti tecnologici, sebbene la CASC padroneggi lanciatori, balistica, satelliti e voli abitati e la CASIC si concentri maggiormente sui microsatelliti e sui sistemi potenzialmente militari, dalla balistica di media gittata ai sistemi antiaerei.
Le due società assommano oltre 300.000 addetti, di cui un buon 20% di ricercatori e ingegneri. A livello di ricerca e di produzione sono tre i siti industriali chiave, Pechino per la ricerca e sviluppo (R&S) di base sui lanciatori, i satelliti e la gestione progettuale; Xian per le tecnologie propulsive e Shanghai per le tecnologie satellitari e i lanciatori minori. A Xian e Chengdu, la CASC ha almeno 50.000 unità di personale specializzato, 2.000 ricercatori circa e una trentina di accademici dell’Accademia cinese delle Scienze e dell’Accademia cinese di Ingegneria. Inutile dire che figura stabilmente fra le principali industrie cinesi della difesa.
Da un punto di vista strategico e finanziario è nella top five mondiale. I suoi ricavi sono in crescita costante, ormai prossimi a 35-36 miliardi di euro, dai 4,8 del 2007. Difficile conoscere esattamente i circuiti di finanziamento, ma è certo che una parte dei budget coperti del settore spaziale cinese provengono dai fatturati del gruppo. Ma che cos’è più precisamente la CASC? Innanzitutto è un conglomerato di oltre 179.000 impiegati, ripartiti fra otto Accademie di ricerca e sviluppo e cinque grandi gruppi commerciali.
Ogni Accademia è un’impresa stricto sensu, dalle attività diversificate, ma concentrate in un segmento tecnologico abbastanza specifico, con propri centri di R&S e di produzione, quanto basta a farne il nerbo delle attività del gruppo e a spiegarne la natura consortile. Vediamo di conoscerle meglio, iniziando dalla CALT, ubicata a Pechino e prima inter pares nel campo dei lanciatori spaziali.
Nata nel 1957, la CALT occupa 22.000 addetti, 9.800 dei quali ingegneri. Conta 11 dipartimenti di R&S, due unità produttive e diversi servizi. Non è difficile immaginarla come una città all’interno di una megalopoli, nel distretto di Fengtai, a sud della capitale. Inutile dire che i suoi centri di ricerca sono fra i più sensibili della ricerca strategica nazionale, capicommessa dei lanciatori Long March CZ-2, CZ-3 e della nuova generazione CZ-5 e CZ-8. Se il 10o Istituto di ricerca era stato creato per il progetto Near Spaceflight Vehicle, il 12o Istituto, Beijing Aerospace Automatic Control Institute, è il più antico, oggi responsabile dello sviluppo delle tecnologie di guida e controllo dei missili balistici, fra cui il DF-31A, il DF-41 e il JL-2. Ma sembra collabori attivamente anche alla messa a punto del missile antinave DF-21D, sviluppato dalla 2a e della 4a Accademia della CASIC.
Una 4a Accademia esiste anche nell’organigramma della CASC, interamente dedicata alla concezione e allo sviluppo delle polveri propulsive e del complesso delle parti meccaniche legate alla propulsione. Il nome ne evidenzia bene il core business. Parliamo infatti dell’Accademia Tecnologica dei Motori a Razzo, nata nel 1962 a Xian e da allora in poi responsabile della R&S e della produzione dei propellenti solidi, inclusi quelli per i missili balistici intercontinentali DF-31 e JL-2, i secondi lanciabili da sottomarino.
Con l’8a Accademia, la 5a, meglio nota come China Academy of Space Technology (CAST), è forse la principale organizzazione dedita allo sviluppo delle tecnologie satellitari. Concepisce e produce tutti i sistemi di controllo d’altitudine, di propulsione ausiliaria, di telemetria, di telecomunicazione, di osservazione opto-elettronica, spingendosi fino alle antenne satellitari e di comunicazione ad hoc.
Nascono nei suoi laboratori i moduli Tiangong e le capsule Shenzhou. Fortissima è la concentrazione di ingegneri sui 27.000 addetti del centro, superiore secondo le ultime stime al 33% (https://www.cast.cn/english/channel/1665). Dipende dalla CAST anche la Dongfanghong Satellite Co. Ltd, che commercializza servizi satellitari per utenti civili e militari. E veniamo all’8a Accademia, o Shanghai Academy of Space Technology (SAST), forse la meno appariscente fra tutte le entità della CASC, perché avvolta da un velo di segretezza ufficiale.
Da quanto ne sappiamo, la SAST ha un ampio ventaglio di attività di R&S e di produzione. Due dei suoi centri di ricerca, noti come Istituti 509 e 813, sono specializzati in tecnologie satellitari a fini militari, in primis per la comunicazione dati e la teledetezione.
L’Istituto 800 sviluppa a sua volta la serie dei lanciatori CZ-4 e un ampio spettro di tecnologie di guida di precisione, telemetria e comando e controllo. L’810o Istituto collabora strettamente con l’Accademia Tecnologica dei Motori a Razzo nello sviluppo di motori a propulsione solida. Sempre di propulsione si occupa la Base 067, meglio nota come 6a Accademia di Propulsione Liquida Aerospaziale, che ha sviluppato i motori YF-77 e YF-100, l’ultimo dei quali cruciale perché integrato nei vettori CZ-5.
La 7a Accademia, o Sichuan Aerospace Industry Corporation (SIAC), ha una configurazione peculiare. Produce componenti per radar, sistemi imbarcati e terrestri, lanciarazzi WS-1 e WS-2, e ovviamente sottosistemi e componenti destinati ai sistemi di navigazione e controllo satellitare. Di origini piuttosto recenti è invece la 9a Accademia (China Aerospace Times Electronics Corporation), fondata nel 2003 e un tempo parte della CALT. Parliamo di un’entità specializzata in componenti elettroniche, microelettroniche, sistemi imbarcati come computer di bordo, calcolatori, sistemi di guida inerziale, software, tecnologie di comunicazione e processori di segnali radar. L’ultima delle otto Accademie è l’11a, meglio nota come China Academy of Aerospace Aerodynamics, del tutto priva di unità e attività produttive, ma destinata a realizzare test aerodinamici per l’insieme delle tecnologie targate CASC.
L’industrializzazione dei risultati è uno dei punti forti del colosso aziendale cinese, che ormai eccelle nella produzione di semilavorati al carbonio e nello sviluppo di materiali compositi. Oltre metà della cifra d’affari e degli attivi è generata dal settore militare. Ma qualcosa sta cambiando.
La Cina si sta progressivamente promuovendo come fornitore di prodotti e servizi spaziali commerciali. La CASC vende ad esempio i suoi lanci attraverso una delle più antiche società esportatrici cinesi, la China Great Wall Industry Corporation (CGWIC). Dal 1990, Pechino è divenuta pertanto uno dei principali fornitori di servizi commerciali di lancio grazie alla famiglia di vettori Long March, che in oltre un ventennio di attività hanno messo in orbita 56 satelliti per diversi clienti internazionali.
Negli ultimi dieci anni, i Long March hanno mantenuto un ritmo di lanci ‘internazionali’ commerciali abbastanza elevato, in media uno ogni due mesi. Alla fine del 2002, avevano appena nove satelliti in orbita. Ma torniamo a noi. Entità come la CAST e la SAST ambiscono a sviluppare soluzioni e servizi di telecomunicazione e di osservazione della Terra per utenze civili. E persino la casa-madre CASC ha già manifestato il desiderio di non dipendere più esclusivamente dalle commesse militari.
L’altra grande corporation dell’aerospazio: CASIC
Con oltre 147.000 dipendenti e un fatturato in costante crescita, oggi prossimo a 37 miliardi di euro, la CASIC è strutturata in quattro unità di business. Trae gran parte dei suoi attivi dal settore difesa e da succursali semi-private, che fanno affari anche in comparti non direttamente legati al mondo militare. Solo la Hexi machinery Corporation sfugge al controllo delle Business Unit. Opera infatti in maniera indipendente, garantendo la R&S e la produzione nel campo della motoristica e della propulsione solida (pp.133-134).
La CASIC sviluppa tutta una serie di hardware non spaziale, come i missili antiaerei a guida radar KS-1, le batterie antiaeree terrestri FM-90 e navali FM-90N, i missili antiaerei FL-2000 e TD-2000B. Ma nessuno s’inganni, perché la Corporation è specializzata soprattutto nel settore balistico. Come accennato prima, la 2a e la 4a Accademia sviluppano il missile semibalistico antinave DF-21D e il l’omologo DF-26, mentre la filiera dei missili da crociera è interamente appannaggio della 3a Accademia, che si occupa dell’intero processo, dalla fase concettuale all’integrazione finale.
Un’entità unica in Cina, che lavora fianco a fianco con la China Electronical Technology Corporation. Sintetizzando al massimo, la 1a, la 2a e la 4a Accademia della CASIC sono il fiore all’occhiello delle attività spaziali militari della Cina. Cominciamo dalla prima, che nella denominazione in inglese è nota come First Academy of Aerospace Information Technology. Ubicata a Pechino, è dotata di innumerevoli centri di R&S e di siti di produzione di microsatelliti, come l’HT-1 e l’NS-1 (vedi pg. 56).
Ha stretti legami con la CAST e l’università di Tsinghua. Ma non è solo microsatelliti. Produce infatti sistemi di ascolto e di telesorveglianza impiegati sia dallo Stato Maggiore Generale e dalle componenti di Forza Armata, sia dall’intelligence governativa, il famigerato Guoanbu.
La 2a Accademia è a sua volta una delle entità principali della CASIC. Nel suo sito industriale di Yongding Road a Pechino prendono corpo le tecnologie ASAT e KKV. Ma il savoir faire militare dell’Accademia si estende a un’intera gamma di prodotti, dai sistemi antiaerei HQ-9 e HQ-16, ai missili DF-21 e DF-26, con tanto di TEL (Transporter Erector Launcher), passando per i sistemi di guida e controllo missilistici, che si tratti di radar imbarcati, sistemi a terra e sensori.
Nata nel 2002, la 4a Accademia ha un focus incentrato invece sui piccoli lanciatori: sviluppa i Kaituozhe 1 e 2, ma anche i copiosissimi missili balistici a medio raggio della Cina, collaborando con i centri di R&S della 9a Accademia, fra i più attivi nel ramo. Quanto alla 6a Accademia, o Hexi Machinery Corp., sappiamo che è situata nella Mongolia Interna e che si occupa prevalentemente di sistemi di propulsione solida e polveri. Realizza fra l’altro i motori del DF-21 e del DF-26. Accanto alle Accademie vere e proprie, la CASIC include basi e uffici.
Lo Hunan Space Bureau (base 068) è molto criptico sulle sue attività militari, altamente strategiche. Da quanto emerso, è specializzato nelle tecnologie di Near Spaceflight Vehicle e nelle componenti di comando e controllo dei sistemi missilistici (vedi pg. 72). La base 061 (Jiangnan Aerospace Group) è invece uno dei principali fornitori di componentistica della CASIC.
Produce sistemi di misurazione e controllo, componenti per satelliti, apparati meccanici per missili e parti di motori. L’ultima entità della CASIC è la Shenyang Aerospace (111 Factory), forse la più piccola per dimensioni, con appena 30.000 addetti. Produce componenti di propulsori e sistemi di pompaggio e alimentazione.
La dirompenza della Forza di Supporto Strategico
Con questa base industriale e una rete dinamica di università eccellenti, la politica spaziale cinese si è fatta rampante e inarrestabile. Impressionante per la progressione geometrica della sua Marina, la Cina mostra da tre anni a questa parte una crescita ancora più sorprendente in campo spaziale: nel 2019, Pechino ha piazzato in orbita tanti satelliti quanti ne hanno lanciato le altre potenze mondiali sommate.
È il segno di un’ambizione inarrivabile, che la Commissione Militare Centrale vuole piegare agli imperativi categorici della militarizzazione dello spazio. Segno tangibile è il bando pubblicato il 3 ottobre dalla Forza di supporto strategico, tutto teso allo sviluppo dinamico di tecnologie legate alle azioni offensive spaziali. Nel testo si legge che bisogna correre nella ricerca di ‘tecniche di approccio furtivo agli obiettivi in orbita alta’; studiare e implementare ‘manovre verso oggetti spaziali in orbita’ e approntare ‘nuove costellazioni per la sorveglianza del mar Cinese meridionale’.
La conquista della quinta dimensione è simbolo di potenza, anche nel confronto e nella gara con gli Stati Uniti. Per Pechino è il lasciapassare per sovvertire gli equilibri di potenza, perché chi domina lo spazio può farne un game changer e imporsi sul campo di battaglia contro gli americani e i loro alleati. Epitome di tutto ciò è il concetto di forza spaziale o space force come componente integrale delle forze armate, un binomio molto in voga negli ultimi tempi.
Il concetto non è nato negli Stati Uniti, ma proprio in Cina. L’ex comandante in capo delle forze aeree, generale Xu Qiliang, volle fin dal 2009 una struttura posta direttamente sotto l’autorità della Commissione Militare Centrale del Partito Comunista, per coordinare il controllo delle tecnologie, dei bilanci e del personale assegnati allo spazio.
A inizio anni 2000, ispirati dagli scritti favorevoli a una dottrina sistemica, a partire dal famosissimo trattato sulla ‘Guerra senza limiti’, gli strateghi cinesi si sono convinti che un approccio dirompente fosse diventato ineludibile per contrastare la supremazia tecnologica americana, la cui chiave di volta è rappresentata dal dispositivo C4ISR (Comando, Controllo, Comunicazione, Computer, Intelligence, Sorveglianza e Ricognizione). Colpire il cuore pulsante del dispositivo a stelle e strisce avrebbe un impatto inaudito sulle capacità difensive e sull’insieme della catena di comando statunitense.
Dopo aver lungamente studiato gli interrogativi sollevati dai big data e identificato le vulnerabilità del dispositivo cibernetico e spaziale americano, Xi Jinping ha rivoluzionato, cinque anni fa, l’organizzazione dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA – le forze armate cinesi), per federare i due domini di operazioni cibernetico e spaziale sotto l’autorità diretta della Commissione militare centrale. È stato l’atto di nascita della Forza di Supporto Strategico, il primo comando di teatro, integrato, dedicato alla guerra nella datasfera e nel campo cognitivo (vedi p. 23). I cinesi distinguono ormai tre sfere operative nei conflitti armati: la sfera topologica, classica, fatta di aria, terra, mare e spazio; la sfera elettronica e la sfera psicologica.
La fusione della sfera elettronica e psicologica costituisce un’entità integrale: il campo cognitivo. Per Pechino, lo sforzo consiste nel fondere la totalità delle informazioni provenienti dai sistemi ISR con maggior agilità di quanto non facciano i dispositivi americani, spesso penalizzati dalla molteplicità degli strati ridondanti.
Il fine dei cinesi è quello di galvanizzare il ciclo decisionale OODA (Osserva, Orienta, Decidi e Agisci), e soprattutto di velocizzare la Kill Chain, fino alla distruzione repentina e totale dei sistemi nemici. Per garantire la fusione dei sistemi dei sistemi in seno allo Forza di supporto strategico, il suo numero uno, generale Li Fengbiao, appena subentrato al generale Gao Jin, ha preso le redini e il controllo di diverse entità critiche prima assegnate allo Stato maggiore dell’Esercito popolare di liberazione. Parliamo di dipartimenti sull’informazione strategica e sui vettori che ne assicurano la diffusione, e che sono nell’ordine il 3° dipartimento, incaricato delle attività di intelligence elettronica, dei segnali e da immagine; del 4° dipartimento, incaricato degli attacchi elettronici, dalla lotta informatica offensiva al jamming offensivo; della base 311, incaricata delle operazioni psicologiche (vedi pg. 27) e dell’insieme dell’ecosistema spaziale.
Due dipartimenti strutturano ormai la Forza di supporto strategico: quello dei Sistemi spaziali e quello dei Sistemi di reti. Contrariamente ai modelli occidentali, quelli cinesi non sono organizzati per dominio operativo, come aria, mare, terra, spazio, cyber, ma per tipologia di missione, ricognizione, offensiva e difensiva. Se il dipartimento dei Sistemi di reti si concentra sui flussi e i vettori di diffusione sul globo terrestre, quello dei Sistemi spaziali è responsabile dei flussi e dei vettori extra-atmosferici.
Ha più attribuzioni del precedente comando spaziale dell’Esercito di liberazione del popolo, nella misura in cui risulta composto da una vera e propria integrazione verticale che federa tutti i siti di lancio e di test, Jiuquan, Taiyuan, Xichang, Wenchang, quelli di addestramento, di controllo, di telemetria, fra cui la flotta di battelli di superficie Yuan Wang, le stazioni di ascolto dei satelliti di comunicazione avversari in Argentina, a Cuba, in Namibia, in Kenya e in Pakistan, tutta la flotta di satelliti militari e civili e anche il corpo dei taikonauti.
Ovvero un capitale umano di 200.000 persone, identico a quello degli Stati Uniti, ma concentrato qui in una stessa organizzazione, ripartito per filiere di mestiere e formato in seno all’Accademia del comando spaziale. Una forma di amministrazione e governance che la dice lunga sulle ambizioni militari cinesi nel campo. Il solo dipartimento dei Sistemi spaziali allinea 100.000 tecnici.
Ha tre funzioni:
- 1) basi di lancio e di sostegno, localizzate a Jiuquan, che dal 1958 è la prima base di lancio spaziale cinese; seguita da Taiyuan, che si occupa dei lanci in orbita bassa ed eliosincrona; mentre Xichang è competente per i lanci in orbita geostazionaria e per i materiali mobili. Ultimo c’è il sito di Wenchang, terminato nel 2014 e destinato ai lanciatori pesanti Long March 5 e, presto, ai CZ-8;
- 2) la seconda delle tre funzioni è la telemetria e il controllo. Si esplica attraverso il centro di controllo di Pechino, che ha in carico il programma abitato; in seconda battuta c’è il sito di Xian che è il centro principale per la telemetria e il controllo. Diffuso è il perseguimento e il controllo marittimo dei satelliti, svolto attraverso le navi di monitoraggio Yuan Wang, impiegate per i test balistici e i lanci spaziali;
- 3) la terza funzione verte sul comando, sul controllo, sulle comunicazioni e sull’ISR spaziale ed è imperniata sull’Ufficio di ricognizione aerospaziale, competente sui satelliti ISR; sulla Stazione principale dei satelliti di comunicazione, incaricata dei satelliti di ritrasmissione e di comunicazione; e sulla Stazione principale dei satelliti di navigazione, incaricata dell’uso militare della costellazione Beidou.
Delineare la struttura è complesso. Più che una modernizzazione del dispositivo di intelligence cinese, il dominio dello spazio e dell’informazione diventa non soltanto un moltiplicatore di forza, ma un elemento fondante la sovranità. La prossimità dei due dipartimenti nella Forza di supporto strategico dovrebbe garantire al complesso C4ISR cinese di diventare più coriaceo, per evitare di dipendere come l’omologo americano dalla sola rete di comunicazione spaziale (vedi pp. 39 e seguenti).
Tanto più che quello cinese si appoggerebbe, in caso di necessità, su un Internet invulnerabile e su una rete terrestre sfuggente, impenetrabile al controllo nemico. Sebbene questa rete sia limitata in prima battuta in termini di proiezione di forza, dovrebbe permettere alle forze armate cinesi di prevalere in un eventuale conflitto nel primo cerchio, non molto distante dal territorio metropolitano.
La Forza di Supporto Strategico non è un comando funzionale all’americana, sulla falsariga dello STRATCOM, ma una struttura più sinergica e approfondita, che esercita un comando operativo su elementi le cui operazioni e la cui manutenzione dipendono da altre entità (vedi pg. 49). Il dipartimento spaziale dovrebbe occuparsi e mettere in opera una strategia spaziale integrata, fornendo un ampio ventaglio di opzioni nella condotta delle operazioni interforze. Altrettanto è vero per il dipartimento dei sistemi in rete, sorta di spazio di sviluppo e di dispiegamento della strategia informativa di Pechino.
Contrariamente al Cyber Command americano e ai comandi specifici in seno ai servizi di Washington, questo dipartimento punta a fornire un unico formato di opzioni diversificate in termini cyber, puntando sulle capacità intrinseche alle forze, piuttosto che moltiplicare gli interlocutori.
A tal fine, sussume sotto la sua autorità le unità che dipendevano prima della riforma dal 3° e dal 4° dipartimento dello stato maggiore, dediti alla ricognizione tecnica e alle operazioni cibernetiche offensive, in maniera tale da raggruppare in un unico incubatore tutte le attività concernenti le operazioni d’influenza e di guerra psicologica, la guerra elettronica, le operazioni cibernetiche e l’intelligence tecnica.
È stata trasferita sotto i suoi ranghi anche la 311a base, unica unità cinese nota per il lavoro sulle operazioni psicologiche. Riuniti in unica forza, ma dotati di uno stato maggiore proprio, i due dipartimenti offrono allo stato maggiore generale la possibilità di rispondere più rapidamente e più appropriatamente in un’osmosi fra cyber, ivi compresa la guerra dell’informazione, e le operazioni spaziali, sul piano operativo e strategico. Ad esempio, la vecchia struttura vedeva l’intelligence preliminare alle operazioni cibernetiche raccolta dal 3° dipartimento, mentre il 4° era incaricato dell’attacco secondo i parametri raccolti.
La nuova organizzazione permette agli specialisti di lavorare insieme in modo più lineare e semplice, in funzione di obiettivi assegnati chiaramente e rapidamente. Dagli anni 1990, le forze armati cinesi stanno effettuando una sorta di valutazione delle lezioni apprese dalle operazioni occidentali, in primis americane, che hanno portato gli strateghi a due conclusioni:
- i progressi di un paese in campo informativo, che i cinesi chiamano xinxi hua, nel settore civile e militare sono un moltiplicatore di potenza delle capacità militari (vedi pg. 17). Ecco perché le concezioni della guerra net-centrica si sono affermate anche in Cina, soprattutto nel campo dello sfruttamento dello spazio come settore chiave per il comando, il controllo e le comunicazioni;
- questi progressi implicano al tempo stesso una dipendenza, quasi una vulnerabilità, suscettibile di essere sfruttata in caso di conflitto.
È stato il via libera al diffondersi di una dottrina ad hoc, da prediligere, che potremmo definire del colpo fatale ‘dal debole’, la Cina, contro i sistemi nodali ‘del forte’, gli Stati Uniti. Muovendo da questo duplice ‘assioma’, le forze cinesi si sono ingegnate nella messa in opera di concetti come la guerra elettronica e delle reti integrata, sia a loro vantaggio, sia contro i nemici.
Una logica che ha motivato il lancio della costellazione di satelliti di geonavigazione Beidou e di una gamma completa di satelliti d’intelligence, insieme allo sviluppo di capacità miranti a perturbare o interrompere i sistemi di navigazione e comunicazione americani, o ancora di capacità antisatellite. Le operazioni cibernetiche hanno cominciato a catalizzare l’attenzione cinese a partire dalla metà degli anni 2000.
Oggi sono pienamente mature. Il cambio di approccio non si è manifestato solo a livello strategico, ma anche in campo operativo, con una duplice razionalità, riscontrabile nella dinamica della Forza di supporto strategico:
- 1) si tratta innanzitutto di poter lavorare in modo integrato con le altre forze, nell’ambito di una pianificazione e di una esecuzione operativa. Sul territorio nazionale, la Forza di supporto strategico lavora allora a vantaggio dei comandi di teatro incaricati delle operazioni nella loro area di responsabilità. All’estero, ciò avviene sotto la tutela dello stato maggiore generale. Se le forze aeree, terrestri e, nel caso, navali sono direttamente asservite ai teatri, la Forza di Supporto Strategico rimane alle dipendenze della Commissione Militare Centrale, per via delle implicazioni strategiche del suo impiego;
- 2) in seconda battuta, la FSS può essere impiegata in sé e per sé, in maniera indipendente. La visione non è più nel ruolo di ‘supportante’ ma di ‘auto-supportante’. In tal caso, l’integrazione dei diversi aspetti cibernetici gioca un ruolo portante. Al vertice della struttura, agli esordi era stato nominato un vero facilitatore, un generale molto speciale, Gao Jin.
Nel dicembre 2015, Jin presiedeva l’Accademia delle scienze militari, ma prima aveva comandato la Seconda Artiglieria, un’organizzazione capace di operare in appoggio alle forze locali oppure indipendentemente. Il commissario politico, Zheng Weiping, assicurava in passato la stessa funzione presso il teatro orientale.
Rimangono però in sospeso alcuni interrogativi. Forse la riforma della Forza di supporto strategico è ancora incompiuta. Altri passaggi sarebbero attesi entro la fine dell’anno. Le operazioni antisatellitari dovrebbero essere appannaggio del dipartimento spaziale, ma non c’è nessuna prova formale della loro attribuzione di fatto (vedi pg. 32).
Al tempo stesso rimane da chiarire la questione della responsabilità del dipartimento sulle operazioni antimissilistiche e di allerta balistica. Storicamente, la forza aerea e l’ex Seconda Artiglieria avevano cercato di ghermire la missione, la prima rivendicando il concetto di operazioni aeree e spaziali integrate, la seconda in virtù della sua esperienza balistica e del suo status strategico. John Costello e Joe McReynolds ritengono che ci sia un’altra questione irrisolta: chi avrà la competenza sull’interezza dello sviluppo e delle operazioni delle capacità di comunicazione spaziale?
Lo stesso discorso può farsi per il dipartimento dei sistemi nodali. Il suo spettro d’azione è ampio. Rimanda alla guerra informativa più che alle sole operazioni cibernetiche. Il Dipartimento integra tre centri di ricerca, l’Università di ingegneria dell’informazione e l’Istituto di lingue straniere Lyoyang. La protezione delle reti militari cinesi non sembra dipenderne, forse appannaggio dell’ufficio informazioni e comunicazioni dello Stato maggiore, quindi sottoposto direttamente alla Commissione Militare Centrale.
La Forza di Supporto Strategico sarebbe pertanto responsabile dei soli aspetti offensivi, non di quelli difensivi, ma sarà bene verificare se la distinzione permarrà. Anche la questione della guerra elettronica è poco chiara. In passato, il settore dipendeva dal 4° dipartimento dello stato maggiore. Ora una parte delle sue unità sono state riassegnate alla Forza di Supporto Strategico, ivi incluso il 54° centro di ricerca, che lavora sulle contromisure. Ma la guerra elettronica offensiva dovrebbe essere ancora sotto l’ombrello dell’ufficio per le reti e l’elettronica dello stato maggiore generale, ovvero l’ex quartier generale del 4° dipartimento.
L’articolazione fra il dipartimento delle reti della Forza di supporto strategico e il bureau dello stato maggiore, con tanto di rispettive responsabilità, è tuttora misterioso e fluido. Incertezze riguardano pure l’intelligence, che interessa tanto lo spazio quanto le reti. La Cina distingue in materia due categorie, che implicano sotto molti punti di vista la Forza di supporto strategico e i comandi di teatro. Da un lato, quanto qualificato come intelligence o qingbao comprende l’analisi di tutte le fonti in appoggio al processo decisionale nazionale; dall’altro lato, la ricognizione tecnica o jishu zhencha include l’informazione in supporto diretto alle operazioni militari (vedi pg. 31).
Ad ogni modo, l’autorità in materia è lo Stato maggiore generale, che dispone di un ufficio informativo, mentre nel campo strategico-politico la competenza è della Commissione militare centrale, così come i comandi di teatro hanno i rispettivi bureau d’intelligence. A parte queste incongruenze, in parte irrisolte, la nascita della Forza di supporto strategica tradisce l’importanza cruciale del concetto dei ‘tre domini’ nella strategia militare operativa cinese contemporanea: avere la superiorità nello spazio, nel cyber e nello spazio aereo è preludio alla vittoria.
Nel concreto, durante le operazioni, come agirà la Forza di supporto strategico nel rapportarsi con lo stato maggiore generale e i comandi di teatro: opterà per una centralizzazione o per una diffusione? Avendo un ruolo centrale nella visione delle operazioni non rischia di assumere un ruolo politico preponderante, sulla falsariga di quanto fatto dalle forze terrestri d’antan? Solo l’avvenire potrà dare risposte definitive.
Per ora occorre constatare che la Forza di Supporto Strategico è organicamente innovativa. Combina aspetti eterogenei, ed è una sorta di risposta cinese alle logiche del multidominio. L’osmosi fra il campo dello spazio e quello cyber-elettronico crea le premesse a un’integrazione ottimale fra le forze terrestri, navali e aeree. Negli USA e in Europa, il combattimento multidominio verte innanzitutto sull’interoperabilità delle reti e sulla loro sicurezza, un campo che in Cina non compete esclusivamente alla Forza di supporto strategico, incaricata di giocarvi un ruolo in materia concettuale e di definizione dei bisogni. L’integrazione di sistemi spaziali, di guerra elettronica, cibernetica e di operazioni psicologiche permette di travalicare il dibattito, offrendo una visione più centrata sulle operazioni, in primis su quelle offensive.
La flotta spaziale
Per sfidare la supremazia statunitense, Pechino sta battendo tutti i record. Aspira forse a proporre un modello superiore? Per ora deve colmare un ritardo. Gli Usa hanno in orbita 1.327 satelliti, di cui 965 civili, fra scientifici e commerciali, e 362 governativi e militari. La Cina segue da lontano, con 363 satelliti in funzione.
Ma con un record assoluto di 40 lanci riusciti nel 2018, 34 nel 2019 e 36 nel 2020 che hanno messo in orbita 85 satelliti, una mini-navetta e 2 capsule di rientro.
Pechino dispone di una capacità di intelligence spaziale ogni tempo e senza interruzione su scala globale. A complemento delle sue capacità di ricognizione, il sistema di geolocalizzazione Beidou è balzato a fine luglio da una copertura regionale a un livello mondiale, con 42 satelliti in orbita; senza contare la messa in orbita di una costellazione di satelliti a crittografia quantica, forieri di un Internet cinese duale ultra sicuro.
Con oltre 70 satelliti militari, Pechino sfida già la flotta spaziale militare statunitense. Il più noto dei programmi cinesi è senza dubbio quello della costellazione Beidou. Con 30 satelliti lanciati nell’ultimo triennio, il sistema di navigazione e di posizionamento Beidou-3, a copertura mondiale, ha iniziato a operare il 31 luglio scorso.
Hanno concorso al programma più di 400 aziende cinesi e 300.000 ingegneri. Scopo principale del programma è offrire alla Cina e ai suoi alleati una autonomia di posizionamento completo per le piattaforme da combattimento e le munizioni guidate. Diversamente dalle reti di navigazione GPS americano o Glonass russo, il Beidou dispone di una costellazione di satelliti in orbita media. Per le sue comunicazioni ultraprotette, l’Esercito popolare di liberazione dispone di tre satelliti Shen Tong-2 in orbita geostazionaria.
Ma la cosa più sorprendente è stata il lancio in orbita eliosincrona, a 500 km, del primo satellite mondiale dotato di una capacità di crittografia quantica: il Mozi, nel quadro del progetto QUESS (Quantum Experiments at Space Scale). Tutto risale al 16 agosto 2016. La tecnologia, preziosa, è tanto più strategica in quanto è stimata inviolabile, non intercettabile. Se i test, che si sono conclusi nell’autunno 2018, valideranno le comunicazioni a distanza di 1.200 km in ordine di combattimento, le forze armate finanzieranno la produzione di una ventina di satelliti da spedire in orbita media per disporre di una copertura mondiale.
Il Mozi è nato dai cervelli dell’Università cinese USTC (University of Science and Technology of China), dell’Accademia cinese delle scienze e del centro di microsatelliti di Shanghai.
Ha due scopi scientifici principali:
- 1) sperimentare la distribuzione quantica delle chiavi (QKD: Quantum Key Distribution) a grande velocità fra lo spazio e la terra e la fattibilità di una rete di comunicazioni a lunga distanza, maggiore di 1.000 km in trasmissione fra superficie-superficie; e maggiore di 500 km fra lo spazio e la Terra;
- 2) fare esperimenti sull’intersezione quantistica e la teleportazione quantistica, per confermare alcune teorie di fisica quantistica.
L’iter di Mozi è cominciato nel 2003, quando i ricercatori dell’università USTC, diretti dall’accademico Pan Wei, hanno palesato l’interesse di lanciare un satellite sperimentale ad hoc. Sei anni dopo, un dossier ufficiale è stato presentato all’Accademia cinese delle scienze. Nel gennaio 2011, l’Accademia delle scienze ha sussunto il dossier nel Programma prioritario strategico per le scienze spaziali, approvandolo nel dicembre seguente. Missione e specifiche del satellite, insieme allo sviluppo delle tecnologie chiave sono terminati nel 2012, seguiti nel settembre 2013 dai primi test elettronici dei componenti. L’assemblaggio fisico del primo prototipo è cominciato appena un mese dopo. A dicembre 2013 è stata la volta dei test termici. Mozi era ormai nato.
Conta quattro cariche utili principali: il distributore quantico delle chiavi, la fonte d’intersezione quantica, l’emettitore d’intersezione quantica e il computer di missione. Ha una massa di 620 kg. Trasmette alle 5 stazioni di controllo tramite laser in banda di 2,5 Gbps/5Gbps. I fisici europei hanno manifestato un fortissimo interesse per il progetto, anche perché il direttore della tesi di Jian Wei è il fisico austriaco Anton Zeilinger.
Il segmento terrestre si compone di un centro di un coordinamento e controllo a Shangai e di 5 stazioni al suolo, come anticipato. Le stazioni di Xinglong (Pechino), Nanshan (Urumqi), Delingha (Qinghai) e Lijiang (Yunnan) partecipano agli esperimenti della QKD e dell’intersezione quantistica, mentre la stazione di Ngari, in Tibet, ha contribuito ai test di teleportazione quantica fra il laboratorio spaziale TG-2 e il satellite Mozi.
Ne sapremo di più entro il 2021, quando saranno resi noti i risultati dei test, anche se a gennaio 2020 è stata già ottenuta una conferma intermedia.
Per ora accontentiamoci e andiamo oltre, visto che Pechino ha investito massicciamente sui satelliti da ricognizione, per rispondere segmento per segmento alle capacità americane, con un ritmo che accelera ormai da 42 mesi. In materia di immagine spaziale, sono già operativi un satellite cartografico 3D ZY-3 e quattro satelliti SAR JB7 e JBx con risoluzione inferiore al metro, affiancati da una costellazione di 12 Yaogan-30 per il complemento ottico. Grazie alla loro debole inclinazione orbitale di 35°, a un’altitudine di 600 km, gli Yaogan-30 hanno una buona copertura dell’Oceano Pacifico, dell’India, della Cina, della Corea del Nord e del Giappone, le aree di gravitazione primarie degli interessi strategici della Cina (vedi pp. 3-4).
Essendo 15, i satelliti hanno un’altissima frequenza di rivisitazione, per un uso tattico durante le operazioni militari. Offrono una copertura continua delle regioni intorno al 30° Nord, dotando la Cina di un vantaggio militare notevole. Una costellazione di quattro satelliti LKW ad altissima risoluzione nel visibile e nell’infrarosso è inoltre operativa dal 2018. La serie gemella degli LKW-x è costruita dalla Aerospace Dongfanghong Satellite Co., una filiale dell’Istituto CAST, del gruppo CASC (https://www.spacetechasia.com/china-launches-lkw-4-earth-observation-satellite/). Dalle immagini diffuse dalla CASC, si nota che l’LKW-4 si basa su una piattaforma in prisma esagonale con tre pannelli solari proiettabili sui lati. Al centro sembra esservi una grande camera, concepita proprio per le ricognizioni ottiche.
Il dispositivo di osservazione e allerta è poi potenziato da una costellazione di nove satelliti ELINT Yaogan-20, -25 e -31 di sorveglianza delle piattaforme navali simile al NOSS americano (vedi p. 10).
Possiamo dedurne che la Cina dispone di una triplice capacità radar, ottica e elettronica di detezione, identificazione e di inseguimento delle navi nemiche in mare. Senza prendere in considerazione la capacità di identificazione in tempo reale dall’orbita geostazionaria, la costellazione ottica a campo largo JB-9 e le costellazioni SAR JB-7 e JB-5/-x permettono di scansionare ogni giorno un’amplissima zona per trovare contatti interessanti, con buone possibilità di rinfrescare le piste dei contatti più problematici ogni poche ore, anche contro le navi con ridotte emissioni elettromagnetiche.
È molto inverosimile che un gruppo navale nemico possa nascondersi a lungo nell’oceano. In caso di copertura nuvolosa, potrebbero essere impiegati i soli satelliti SAR, con forti limitazioni nelle capacità di identificazione e di inseguimento.
Ma la Cina ha altri mezzi di detezione, come i radar transorizzonte e i pattugliatori a lungo raggio, che possono completare il sistema satellitare, mettendo in discussione l’invulnerabilità delle portaerei americane in mare. Intervenire a Taiwan sarebbe per gli USA molto più rischioso e, forse, meno probabile, in caso di crisi.
La Cina si sta spingendo anche più in là. Il 24 dicembre 2017, ha lanciato in orbita geostazionaria un satellite da allerta precoce da 2,4 t, il TJS-3, sulla verticale del territorio statunitense per monitorare l’eventuale tiro di missili intercontinentali. Dal 2015, le forze armate ‘hanno in linea’ un satellite geostazionario SIGINT dotato di un’antenna di 32 metri di diametro, il Qianshao-3, completato da una costellazione di 12 CX5 in orbita bassa. All’insieme va aggiunta una nuovissima costellazione ELINT, la Yaogan-2, dedicata esclusivamente alla sorveglianza dei sistemi C2 e dei sistemi terra-aria.
Cosa non meno importante, per irrobustire le sue maglie, la Forza di supporto strategico ha federato sotto la sua responsabilità l’insieme dei satelliti civili, le cui capacità offrono ormai un impiego duale. Basti pensare alla futura costellazione d’immagine spaziale Magpie, destinata a offrire con 510 cubesats una rivisitazione delle zone d’interesse per le forze armate ogni 10 minuti.
Per non dire del satellite geostazionario a campo largo Gaofen-4 posto sulla verticale del territorio cinese, o ancora del Gaofen-11, lanciato nel maggio 2017, sorta di replica del KH-11 americano, con uno specchio di 1,6 m, un’altitudine minima di 248 km e una risoluzione inferiore a 10 cm. Un satellite ottico GF-11-02 di risoluzione submetrica è stato lanciato il 7 settembre scorso dallo spazioporto di Taiyuan da un razzo CZ-4B. Si sa invece poco dello scopo reale dei nuovissimi Gaofen-13. Il primo di questi sensori è stato lanciato in orbita geostazionaria l’11 ottobre scorso, a bordo di un razzo CZ-3B decollato da Xichang. Ufficialmente, i Gaofen-13 svolgono missioni civili.
Ufficiosamente, avranno compiti di ricognizione militare. Infine, chiudiamo questa rassegna, con il satellite infrarosso Gaofen-5, dotato di sensori SWIR (Short-Wave Infrared) che, da maggio 2018, permette di sorvegliare gli spazi aerei e di identificare le piattaforme furtive come i droni, i missili da crociera o i bombardieri B-2.
I killer di Pechino: le capacità antisatellitari
Le missioni segrete della navetta automatica statunitense X-37A, a partire dal 2010, hanno insospettito, radicalizzandole, le posizioni russe e cinesi. Pechino ha risposto immettendo in servizio una serie di armi ASAT, come il veicolo d’attacco transorbitale manovrante Shiyan-7, il missile DN-3 nell’estate 2017, e sistemi ad energia diretta.
Washington ha contrattaccato creando la Space Force mentre in Cina c’è una concorrenza sfrenata tra la Forza di supporto strategico e la Forza missilistica, l’ex Seconda artiglieria, sul controllo dei dispositivi ASAT, dai centri di ricerca e sviluppo, fino all’impiego delle armi, e sulla lotta antibalistica. Sembra però che la FSS disponga di più di un asso nella manica. E’ responsabile dei sistemi d’attacco e di difesa spaziali e la sua creazione ha permesso di dirimere la guerra burocratica fra il Dipartimento generale dell’armamento, a lungo nume tutelare dei programmi spaziali militari, la Forza missilistica e l’aeronautica.
Nell’agosto 2017 il missile DN-3, destinato a distruggere i satelliti geostazionari è stato lanciato dallo spazioporto di Jiuquan, stazione spaziale sotto il suo controllo.
Gli armamenti antisatellitari sono divenuti prioritari in Cina a partire dagli inizi degli anni 1990, tramite il programma 863-409.
Per poter neutralizzare la totalità dei satelliti spia o di comunicazione nemici, l’Esercito popolare di liberazione )PLA) ha realizzato diversi vettori, schierandoli su rampe mobili, in grado di trattare la molteplicità delle orbite in cui gravitano i satelliti militari statunitensi, ma anche i satelliti da comunicazione civile che ritrasmettono i quattro quinti della banda di frequenza usati dal Pentagono per i suoi sistemi. Basti pensare che un solo drone Global Hawk utilizza sette volte tanto la banda di frequenza sfruttata dall’insieme dei sistemi americani nella campagna del Golfo del 1991.
Il primo dei vettori ASAT cinesi è stato ribattezzato SC-19 dalla Defense Intelligence Agency e ha distrutto nel gennaio 2007 un satellite meteo FY-1C situato a 850 km dalla Terra. L’SC-19 è un vettore ibrido, costituito da un lanciatore Kaituozhe-1 (KT-1), derivato dal missile balistico antinave a medio raggio DF-21, e dalla carica militare del missile terra-aria HQ-19, la versione locale dell’SA-21 russo. È dotato di un seeker radar e infrarosso. Si stima che siano stati prodotti finora almeno 40 missili SC-19. Con la loro testa simile all’EKW e il loro raggio compreso fra i 1.700 e i 2.500 km, questi vettori potrebbero distruggere i satelliti da ricognizione posti in orbita bassa e media, a 400-1.000 km, dispositivi critici nell’ordito d’intelligence statunitense. Si tratta dei due satelliti d’immagine EO7IR KH-11 di risoluzione centimetrica, dei tre satelliti di immagine radar Topaz, e della costellazione di satelliti ELINT NOSS che l’US Navy impiega per identificare i sistemi di difesa superficie-aria navali.
Quanto alle piattaforme di allerta precoce americane poste su orbite ellittiche, come gli SBIRS nell’infrarosso o i Trumpet 6-7 nel SIGINT, sarebbe in fase di sviluppo una versione ad hoc del missile JL-2 dispiegata a bordo degli otto SSBN classe Jin. Almeno una ventina di questi missili sarebbe stoccata nei bunker della base navale di Sanya, nell’isola di Hainan (vedi pg. 5). Se l’ultimo missile balistico antinave DF-21D è dotato quasi sicuramente di capacità ASAT, dal 2010, i cinesi stanno moltiplicando i test del loro Dong Neng-3, equivalente grosso modo all’SM-3 americano.
Parliamo di un atout critico che dovrebbe garantire a Pechino una capacità antimissilistica esoatmosferica per neutralizzare le minacce ipersoniche. Il DN-3 si distingue per velocità, traiettoria d’ascesa estremamente complessa e un veicolo di lancio ruotato, utile per sfuggire al targeting nemico.
Nel 2011, un reportage del canale militare CCTV-9 ha rivelato che questo missile è concepito ugualmente per montare un intercettore manovrante, dotato di seeker radar e infrarossi. Grazie all’energia cinetica prodotta dalla velocità ipersonica del DN-3, il missile e l’intercettore sarebbero capaci di distruggere i satelliti geostazionari a 36.000 km dalla Terra.
Non appena entrerà in servizio, il DN-3 sarà una spada di Damocle puntata sulla testa dei satelliti strategici americani e alleati, che si tratti della costellazione GPS, dei satelliti SIGINT, del futuro satellite IMINT a campo largo MOIRE (Membrane Optical Imager For Real Time Exploitation), dei satelliti d’allerta avanzata OPIR (Overhead Persistent Infrared) o dei dispositivi di comunicazione più sensibili del comando statunitense, come il CBAS o l’AEHF. Nell’ambito del Progetto 863, Pechino non sta lavorando solo ai missili antisatellite, ma a un’intera panoplia.
Parallelamente ai sistemi d’attacco cibernetico o di disturbo dei dispositivi di controllo spaziale nemici, il gruppo CETC ha pubblicato nel 2017 alcuni lavori finanziati dalle forze armate, che dimostrano le sue capacità di neutralizzare i detriti spaziali con un laser ad alta potenza. È il team dell’Istituto di ottica di Changchun che sembra lavorare sulle armi più promettenti.
Una delle pubblicazioni del 2013 ha svelato che la squadra è riuscita ad accecare ripetutamente un satellite orbitante a 600 km di altitudine con un laser da 100 kW. Il test parrebbe essere stato condotto da un centro speciale, presso la base di esperimenti di missili antibalistici e ASAT di Korla, a nord del deserto di Taklamakan.
Il satellite bersaglio altro non era che il sensibilissimo KH-11. Da allora, altri siti lavorano sull’armamento laser: l’Anhui Institute of Optics and Fine Mechanics di Hefei e la China Academy of Engineering Physics di Mianyang. Nel medesimo articolo, gli autori evocano la possibile spedizione in orbita, intorno al 2023, di un satellite da 5 t dotato di un laser COIL (Chemical Oxygen Iodine Laser) da 1 MW, dal raggio di oltre 5.000 km. L’obiettivo sarebbe ormai a portata, visto che i razzi Long March 5 sono capaci di lanciare in orbita bassa un carico di 25 t.
Sarebbero inoltre in corso negoziati con i russi per un finanziamento congiunto di un programma per un cannone HPM (High Power Microwave) Ranets-E, la cui portata sarebbe annichilente per i circuiti elettrici degli equipaggiamenti situati in un raggio da 5 a 40 km, a seconda del loro livello di protezione e indurimento.
Una soluzione che potrebbe neutralizzare le costellazioni o i satelliti maggiormente strategici dotati di sistemi di autoprotezione, se mai il Ranets-E avesse una piattaforma di trasporto. La cosa non sembrerebbe impossibile. L’Esercito popolare di liberazione dispone di veicoli ASAT coorbitali.
Fotografata per la prima volta nel 2008, la navetta automatica cinese Shen Long (nella foto sotto) sarebbe la risposta cinese all’X-37A statunitense. Ha effettuato il volo inaugurale di test nel gennaio 2011. Ma non è sola. Sarebbero disponibili altre piattaforme. Nel 2008, un microsatellite da 40 kg, il BX-1 è stato rilasciato dalla stazione Shenzou-7 su una traiettoria di collisione con la stazione spaziale internazionale, prima di essere intercettato (vedi pg. 6).
Ma è la famiglia di minisatelliti manutentivi Shiyan ad allarmare maggiormente gli occidentali. Manovranti e dotati di un braccio robotico, gli Shiyan sono destinati ufficialmente alle operazioni di riparazione e manutenzione, ma possono di soppiatto catturare un satellite e disorbitarlo, oppure alterarne le capacità d’allerta.
Piano piano Pechino si sta dotando di capacità simili a quelle degli americani, che hanno lanciato il satellite d’ascolto di satelliti Nemesis e la piattaforma ispettiva XSS. Insomma, la Cina si adopera per completare un arsenale spaziale onnicomprensivo, capace di neutralizzare con cortissimo preavviso la quasi totalità dei satelliti militari e duali nemici.
Un arsenale che le permetterà di infliggere danni incommensurabili tanto sul piano militare che su quello economico e politico. La Forza di supporto strategico, che federa l’insieme delle capacità spaziali e cibernetico-informative, costituisce uno strumento di guerra sistemica globale o, se preferite, una vera e propria forza di dissuasione.
La competizione con gli USA
La Cina si è lanciata in una vera e propria gara spaziale con gli USA. In ballo ci sono la “riconquista” della Luna e l’esplorazione di Marte, foriere di prestigio, di rinomanza internazionale, di ricadute scientifiche e di predominio geopolitico. Ci sono risorse minerarie ed energetiche da sfruttare e la Luna potrebbe essere utilizzata anche a fini militari, anche per colpire la Terra da una “piattaforma inaffondabile”.
Dopo la sonda Chang’e 1, che si era schiantata in modo controllato sulla superficie lunare nel Marzo 2009, è stata la volta di Chang’e 3 e del suo rover Yutu, nel Dicembre 2013. Ma il vero exploit si è compiuto cinque anni più tardi, con due mezzi cinesi che si sono posati sul nostro satellite, stavolta sulla sua faccia nascosta, dove nessuno era mai arrivato prima.
Lanciata l’8 dicembre 2018 dal centro spaziale di Xichang (XSLC), a bordo di un razzo Long March-3B, la sonda Chang’e 4 ha raggiunto l’orbita lunare 110 ore dopo, dopo una manovra di frenaggio effettuata a 129 km di altitudine dalla Luna. Contrariamente alla missione Chang’e 3, in cui il modulo di allunaggio e il rover avevano iniziato la discesa appena 8 giorni dopo aver approcciato l’orbita lunare, la sonda Chang’e 4 è rimasta 22 giorni in orbita prima di ricevere l’istruzione, il 3 gennaio 2019, di iniziare l’allunaggio.
Gli ingegneri cinesi hanno reputato utile il tempo aggiuntivo perché la sonda potesse verificare il suo stato e stabilire collegamenti con il satellite di comunicazione lunare Queqiao e la Terra. Alle 10,15 ora di Pechino, il personale del Beijing Aerospace Flight and Control Center (BACC) trasmetteva l’ordine di discesa alla sonda che, volando su un’orbita di 15 km x 100 km, attivava il motore di spinta variabile da 7.500N per ridurre la velocità relativa con la Luna da 1,7 km/s a zero. A 100 m dalla Luna, il modulo di allunaggio è rimasto sospeso per diversi secondi nell’atmosfera per scansionare con il telemetro laser l’andamento superficiale del sito preselezionato e scegliere il punto finale di allunaggio.
Circa 690 secondi dopo l’inizio della discesa, alle 10,26, la sonda cinese si è posata lievemente sulla Luna, sulle coordinate 177,6° E 45,5° S, nel bel mezzo del bacino Aitken, un cratere nel mantello lunare.
Secondo il comunicato ufficiale dell’Amministrazione spaziale nazionale cinese CNSA, le manovre di allunaggio sono state realizzate senza intervento alcuno del personale a Terra. Diversamente dalla sonda Chang’e 3, che aveva seguito una traiettoria di allunaggio inclinata, Chang’e 4 è scesa quasi verticalmente, in un sito circondato da montagne alte 10.000 metri e profondo 6.000.
Realizzato il “touch down”, il modulo di allunaggio ha dispiegato i pannelli solari e le antenne di comunicazione direzionali, per poi scattare una prima foto della faccia nascosta della Luna con la fotocamera di sorveglianza C, inviandola a Terra tramite il satellite di ritrasmissione Queqiao, ubicato sull’orbita Halo intorno al punto Lagrange L2. Erano le 11,40 a Pechino.
Dopo poche ore di preparazione, per confermare lo stato del satellite Queqiao, i parametri del sito di allunaggio e gli equipaggiamenti imbarcati, così come l’angolo d’incidenza del Sole, iniziava il processo di separazione del rover, alle 15,07. Solo alle 22,22, quasi 12 ore dopo l’allunaggio, il rover Yutu 2, o Coniglio di Giada 2, usciva dalle rampe e cominciava l’esplorazione. Diversamente dalla missione Chang’e 3, durante la quale ogni dettaglio era trasmesso alla televisione in tempo quasi reale, la Cina è rimasta in silenzio sui primi passi di Chang’e 4 e di Yutu 2 sulla Luna.
Sappiamo solamente che il modulo di allunaggio ha dispiegato alle 17 del giorno dopo le tre antenne da 5 metri dello spettrometro radio a bassa frequenza e cominciato i test dello strumento LND, Lunar Lander Neutrons & Dosimetry, concepito dall’Università Christian Albrecht di Kiel, in Germania, per intercettare le radiazioni delle particelle lunari.
Le immagini riprese dalle camere del rover sono state progressivamente trasmesse al suolo, ma i cinesi non le hanno rese pubbliche. Perché? Sono stati i primi ad arrivare sulla faccia nascosta della Luna e forse vogliono sfruttare i vantaggi competitivi della missione.
Non paghi, stanno già pensando al passo successivo. Il 19 settembre, il gruppo CASC ha avviato la fase preliminare di studio approfondito per il potenziale programma abitato lunare, che comprende un nuovo razzo abitato, un vascello abitato, un nuovo modulo di allunaggio, una stazione orbitale lunare e un laboratorio amovibile abitato.
Ma la Cina guarda oltre. Come gli Usa e altri, punta a Marte. Il 23 luglio ha lanciato la sonda marziana da 5 tonnellate Tianwen-1, con un vettore Long March-5, decollato dallo spazioporto di Wenchang.
L’arrivo nell’orbita del pianeta rosso è previsto per il febbraio 2021. Il 23 aprile il lander della sonda dovrebbe atterrare in una regione incognita del pianeta, Utopia Planitia. Ambiziosa, la Cina spera di fare con questo primo tentativo indipendente quasi tutto quello che gli Stati Uniti hanno realizzato in diverse missioni marziane e spaziali dagli anni 1960 a oggi: piazzare una sonda in orbita, posare un modulo su Marte e rilasciare un piccolo robot teleguidato affinché possa condurre analisi superficiali.
Il robot pesa oltre 200 kg ed è equipaggiato con quattro pannelli solari e sei ruote. Sarà operativo per tre mesi. Avrà per missione l’analisi del suolo e dell’atmosfera, dovrà scattare fotografie e contribuire alla cartografia del pianeta. ‘È un evento storico per la Cina.
È la prima volta che Pechino si avventura così lontano nel sistema solare’, sottolinea Jonathan McDowell, astronomo del centro Harvard-Smithsonian per l’astrofisica, negli USA (https://www.lesechos.fr/industrie-services/air-defense/la-chine-lance-a-son-tour-sa-premiere-sonde-vers-mars-1225820). Il 2 agosto, Tianwen-1 ha attivato per 20 secondi il motore principale da 3.000N per effettuare la prima correzione di traiettoria verso Marte. Erano le 7 a Pechino. In quel momento la sonda viaggiava a 3 milioni di km dalla Terra, dopo 9 giorni e 17 h di volo.
Quando arriverà in prossimità di Marte, per il rientro nell’atmosfera, il modulo di atterraggio potrà disporre di 3 tipi di materiali per la protezione termica: uno scudo ablativo, con resistenza di 1,5 MW/m2, compositi rinforzati di fibre continue e un rivestimento. Per il momento, sta mostrando le prime immagini, una sorta di taccuino fotografico di viaggio. Il 1° ottobre, la sonda ha rilasciato un sensore di 950 kg per le ‘misurazioni disgiunte’, con una parte separata di 680 kg che ha fotografato Tianwen-1 per intero.
Le foto da 800×600 e 1600×1200 sono state inviate verso la sonda via WiFi, una seconda correzione di traiettoria, come previsto, è avvenuta il 9 ottobre, verso le 23.00 ora cinese. La sonda ha acceso il motore principale per 480 secondi. E la cosa si è ripetuta il 28 ottobre alle 22.00. Stavolta però sono entrati in funzione tutti gli 8 motori da 25N, per aggiustare la rotta. In quel momento, Tianwen-1 era in volo da 97 giorni e si trovava a 44 milioni di km dalla Terra.
Mancano ancora quattro mesi di viaggio circa per raggiungere l’orbita del pianeta rosso. La corsa verso Marte risponde innanzitutto ad interrogativi scientifici. Marte e la Terra erano quasi identici cinque miliardi di anni fa. Perché poi hanno preso strade differenti? Che cosa è successo? Tre miliardi e mezzo di anni fa, Marte aveva ossigeno e acqua, propizi allo sviluppo della vita. Contrariamente alla Terra, non ha conosciuto una tettonica a placche, il che lo rende molto accessibile, sorta di trampolino di lancio verso altri pianeti, cugini antenati della Terra. L’obiettivo è rispondere agli interrogativi filosofici sull’uomo: da dove veniamo? Come è nata la vita? Ma la corsa verso Marte è anche un affare di potenza.
Durante la Guerra Fredda, USA e URSS si sfidarono senza respiro per arrivare primi sulla Luna. Ora è la Cina l’erede della Russia sovietica e i suoi obiettivi non divergono da quelli di altri paesi. Pechino vuole perfezionare le sue capacità, esplorare l’universo, investire nelle risorse future e incrementare influenza politica e prestigio. “L’esplorazione spaziale è una fonte di orgoglio nazionale. Cela anche l’ambizione di migliorare la conoscenza umana di Marte”, spiega Carter Palmer, specialista dello spazio per Forecast International.
Se la missione Tianwen-1 sarà un successo, “sarà la prima volta nella storia che un modulo di atterraggio e un robot teleguidato non americano funzionano su Marte”, osserva l’analista Chen Lan.
La Cina acquisterà allora lo status di grande potenza, terrestre e spaziale, dimostrando la potenza di fuoco delle sue università, cosa che ha sempre forgiato la supremazia statunitense. Il predominio a stelle e strisce sarà allora sempre più in bilico. Lo comincia a dimostrare anche il lancio del 4 settembre 2020. Da Jiuquan sarebbe partito un razzo Long March 2F con a bordo ‘un veicolo spaziale sperimentale e riutilizzabile’.
I cinesi hanno tenuto segreta la missione, non diffondendo immagini, né video. Solitamente il sito e i razzi di cui abbiamo parlato sono usati per i voli abitati. Se ne deduce che la Cina ha lanciato in un’orbita simile a quella dell’X-37B americano la sua navetta Shenlong o, forse, un nuovo sistema, da essa derivato. Sta di fatto, che il veicolo è tornato sulla Terra il 6 settembre, senza fanfare, foto, né video. Il mistero è durato fino a metà settembre, poi è stato svelato, almeno in parte.
La nuova navetta cinese può manovrare in orbita bassa, fra i 200 e i 700 km di altitudine. Imbarca in stiva molteplici carichi utili, che possono essere satelliti, sensori ISR o armi. Nella missione di inizio settembre non si è accontentata di orbitare in una traiettoria prossima a quella dell’X-37B americano, su 332×348 km e inclinazione di 50,2 gradi.
Poche ore prima di atterrare in prossimità del poligono di test nucleari di Lop Nor nel deserto del Taklamakan e di essere fotografata da uno dei satelliti della società Patent Lab, il North American Aerospace Defense Command (NORAD) statunitense ha scoperto che un secondo veicolo si è staccato dal primo. Un radio amatore russo avrebbe individuato in un satellite artificiale e non in un pannello solare il misterioso oggetto A, No 46395, capace di emettere in maniera regolare sulle frequenze di 4 Mhz e 2,480Ghz, secondo una modulazione raramente usata dai cinesi, almeno finora. Mentre scriviamo, il satellite è ancora attivo.
Sta continuando a trasmettere segnali in banda S. L’autore della scoperta iniziale, Dimitri Pashkov, non è sconosciuto fra gli specialisti. Ad aprile, aveva dimostrato che il primo satellite militare iraniano, Noor, altro non era che un Cubesat 6U di 20 x 30 cm di lato.
Secondo il dottor Marco Langbroek, il satellite artificiale orbiterebbe ad appena 50 km da un altro veicolo orbitale americano ancora più segreto dell’X-37B, l’USA 276, su cui il Pentagono non si è mai espresso. Un veicolo che aveva mostrato la sua manovrabilità nel giugno 2017, disegnando spirali a meno di 5 chilometri dalla stazione ISS e che potrebbe servire a proteggere le piattaforme spaziali americane più sensibili. Almeno così la pensa Emmanuel Chiva, direttore dell’Agenzia per l’Innovazione della Difesa francese, citato da Air&Cosmos.
Per il momento non si sa con precisione se l’oggetto 46395 sia destinato a missioni di test, di sorveglianza o di ispezione delle piattaforme transorbitali statunitensi. Se la navetta suborbitale cinese entrerà in servizio operativo, Pechino sarà in grado di lanciare microsatelliti da ricognizione, di condurre missioni antisatellite e, soprattutto, di realizzare in orbita bassa attacchi al suolo con armamenti ipersonici. Raid che non lascerebbero agli avversari che poche decine di secondi per reagire.