Il compromesso ucraino e l’irrilevanza europea: cronaca di una pace dettata da altri
Roma, 15 dicembre 2025 – Cinque ore di colloquio a Berlino tra Zelensky e gli inviati di Trump, e alla fine Steve Witkoff esce dall’albergo con il sorriso: “Molti progressi, ci rivediamo domani”. Oggi tocca ai leader europei – Meloni, Macron, Merz, Starmer e gli altri – sedersi allo stesso tavolo. Ma c’è un problema: la sensazione, ormai difficile da ignorare, è che il tavolo che conta sia un altro. E che l’Europa, su questa partita, stia giocando un ruolo da comparsa.
La notizia vera delle ultime ore non arriva infatti da Berlino, ma da una chat WhatsApp con i giornalisti in cui Zelensky ha fatto trapelare quello che fino a poche settimane fa sarebbe stato impensabile: Kiev è pronta a rinunciare all’adesione alla NATO. In cambio, ovviamente, di garanzie di sicurezza “sul modello dell’Articolo 5” da parte americana, più un ombrello europeo che coinvolga anche Canada e Giappone. “È già un compromesso da parte nostra”, ha detto il presidente ucraino. Un eufemismo.
La mossa risponde a una richiesta storica di Mosca, quella che nel 2022 aveva contribuito a far saltare i negoziati di Istanbul. Ma se tre anni fa l’Occidente gridava al ricatto, oggi si parla di “realismo negoziale”. I tempi cambiano, e con Trump alla Casa Bianca cambiano in fretta.
Il presidente ucraino ha messo sul piatto anche un’altra proposta: congelare il fronte sulle posizioni attuali. “L’opzione più giusta è restare dove siamo”, ha spiegato. Sa bene che ai russi non piacerà – e infatti non piace – ma punta a ottenere il sostegno americano su questo punto prima di affrontare il nodo vero, quello del Donbass.
Perché è lì che si gioca tutto. Il consigliere di Putin, Yuri Ushakov, non ha lasciato spazio a interpretazioni: il Donbass “prima o poi passerà sotto il pieno controllo russo”, con le buone o con le cattive. Il cessate il fuoco? Solo dopo che gli ucraini se ne saranno andati. La proposta americana di una “zona economica libera” senza soldati di nessuna delle due parti è stata accolta con scetticismo da entrambi i contendenti. Mosca l’ha inserito in Costituzione, quel territorio. Kiev non ha nessuna intenzione di abbandonare Pokrovsk e le altre città-fortezza che hanno retto per anni. Trovare una quadra sembra un esercizio di equilibrismo politico ai limiti dell’impossibile.
E l’Europa? Merz ha provato a ritagliarsi un ruolo da padrone di casa, dichiarando che “gli interessi ucraini sono anche interessi europei”. Giusto, ma suona più come una petizione di principio che come una linea politica. Il vertice di oggi riunirà i pezzi grossi del continente – c’è anche la Meloni, oltre ai soliti franco-tedeschi e ai nordici – insieme ai vertici NATO e UE. Però il copione sembra già scritto altrove.
Washington detta i tempi. Mosca mette i paletti. Kiev cerca di sopravvivere. E Bruxelles? Discute se e come usare i 180 miliardi di asset russi congelati, con mezza Europa che frena e l’altra metà che spinge. La decisione è stata rinviata al Consiglio europeo di fine settimana, il 18-19 dicembre. Nel frattempo, Witkoff e Kushner fanno la spola tra le capitali, trattano con Ushakov (che secondo la Bild sarebbe “indirettamente presente” a Berlino tramite canali riservati), e costruiscono un piano di pace che è già alla ventesima versione.
Il punto è che questa pace – se mai arriverà – porterà la firma di Trump, non di Bruxelles. L’Europa si ritroverà a ratificare un accordo negoziato sopra la sua testa, su un conflitto che si combatte a poche centinaia di chilometri dai suoi confini orientali. Potrà dire la sua sulle sfumature, limare qualche comma, mettere a verbale qualche riserva. Ma il disegno strategico lo stanno tracciando altri.
Qualcuno potrebbe obiettare che è sempre stato così, che l’ombrello americano è il pilastro della sicurezza europea dalla fine della Seconda guerra mondiale. Vero. Ma c’è una differenza tra affidarsi a un alleato e scoprirsi irrilevanti. E in questi giorni, a Berlino, la differenza si vede tutta.
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