Il fenomeno dei suicidi in divisa: dati, riflessioni e testimonianze
L’argomento è estremamente delicato e richiede il massimo rispetto, anche perché – nonostante la disponibilità di analisi epidemiologiche – rimane complesso reperire dati completi e omogenei. In Italia, secondo le più recenti elaborazioni dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), si registrano ogni anno circa 4.000 suicidi nella popolazione generale. Nel 2016, ultimo anno con una rilevazione epidemiologica strutturata, i decessi risultano pari a 3.780, con una netta prevalenza maschile (79%), valori più elevati nel Nord-Est e un quadro nazionale ancora privo di una strategia organica di prevenzione. Lo stesso ISS segnala inoltre una persistente frammentazione nella raccolta dei dati, elemento che limita una piena capacità di monitoraggio.
(Fonte: ISS – Sistema PASSI, Sorveglianza Epidemiologica Nazionale)
All’interno di questo quadro generale, i suicidi che coinvolgono personale delle Forze Armate e delle Forze di Polizia rappresentano una quota numericamente ridotta rispetto al totale nazionale, ma assumono rilievo se rapportati alla consistenza degli organici e alle attività operative. Le principali ricognizioni disponibili, provenienti da fonti associative e da memorie depositate presso la Camera dei Deputati, indicano un ordine di grandezza compreso tra 40 e 60 casi l’anno nelle diverse forze in divisa, per un totale stimato di circa 275 suicidi nel periodo 2019–2023 (in media oltre 50 l’anno). Per quanto riguarda il solo Esercito, le associazioni di categoria segnalano 5 suicidi nel 2023 ed un andamento analogo nel 2024. (Fonti: UNARMA; Osservatorio Nazionale Suicidi – memoria alla Camera; Associazione “Siamo Esercito”)
Va tuttavia precisato un punto fondamentale, cioè, non esiste ad oggi una banca dati nazionale che consenta di distinguere in modo sistematico se un suicidio avvenga in servizio, in caserma o fuori dall’orario di lavoro. Lo stesso lavoro di UNARMA richiama esplicitamente tale criticità, evidenziando che il monitoraggio risulta frammentato e basato su fonti diverse, con conseguente difficoltà nel delineare un quadro statistico realmente omogeneo. Si tratta quindi di un ambito in cui, pur essendo oggetto di crescente attenzione istituzionale, la disponibilità di dati pubblici rimane limitata e non facilmente confrontabile, circostanza che, secondo alcune associazioni, alimenta la percezione di una scarsa trasparenza sul fenomeno.
Per valutare se il fenomeno in divisa sia un’eccezione oppure rispecchi una tendenza più generale, è utile guardare anche ad altri settori dove i dati – per quanto frammentari – risultano più strutturati.
Nel settore sanitario, ad esempio, recenti analisi attribuiscono a infermieri e operatori socio-sanitari un tasso di suicidio di circa 16,2 ogni 100.000 abitanti, mentre fra i medici il tasso stimato è di circa 13 ogni 100.000. Questi valori risultano sensibilmente superiori rispetto al tasso medio di suicidio nella popolazione italiana, che secondo le statistiche nazionali si attesta su circa 7 decessi ogni 100.000 abitanti. (Fonti: rassegna di letteratura scientifica nazionale e internazionale; dati pubblicati su riviste di settore e analisi epidemiologiche richiamate dal Ministero della Salute)
Testimonianza di un operatore di polizia
La testimonianza raccolta mette in luce una criticità ricorrente nel racconto di diversi operatori delle forze dell’ordine e assimilate, quello del peso della gerarchia e le modalità di gestione del personale. Secondo l’interlocutore, il principale fattore di sofferenza sarebbe spesso il comportamento dei superiori. Quando un comandante “prende di mira” un subordinato, riferisce la fonte, le conseguenze possono diventare pesanti, con episodi percepiti come mobbing velato, denigrazione davanti ai colleghi, pressioni continue e un clima psicologico capace di logorare profondamente.
L’operatore sostiene che tali dinamiche risulterebbero particolarmente accentuate nelle realtà più piccole, dove l’ambiente ristretto può assumere la forma di una “famiglia chiusa”. In assenza di una gestione equilibrata, prosegue il testimone, si creerebbero facilmente “figli e figliastri”, e chi viene emarginato rischierebbe un vero crollo emotivo.
Il racconto include anche altri fattori di stress, come i procedimenti disciplinari o penali talvolta percepiti come strumentali e potenzialmente in grado di compromettere la carriera, oltre alle difficoltà familiari legate ai trasferimenti lontano da casa, che possono rendere complessa una “doppia vita” tra il paese di origine e il luogo di servizio.
Secondo il testimone, alcuni colleghi giunti allo stremo psicologico non si sarebbero sentiti adeguatamente sostenuti e alcuni casi gravi sarebbero sfociati nel suicidio. Si tratta di dinamiche che, a giudizio della fonte, nascono prevalentemente dal contesto di lavoro, più che da problemi personali esterni.
Seconda testimonianza di un militare volontario
La testimonianza evidenzia che non esiste una causa unica che spiega i suicidi nelle forze dell’ordine e militari. Secondo l’intervistato, molti giovani militari si trovano a vivere lontani da casa, spesso con stipendi modesti e in condizioni che non corrispondono alle aspettative idealizzate con cui avevano sognato l’ingresso nel mondo militare.
Lo scarto tra il “sogno” e la realtà quotidiana, unito alla solitudine e al peso emotivo del trasferimento, può diventare difficile da reggere. L’intervistato sottolinea comunque che i motivi possono essere molteplici, non necessariamente legati solo al lavoro.
La preoccupazione di un padre
L’interlocutore è padre di una giovane carabiniera con meno di quattro anni di servizio. Pur mostrando tenacia e motivazione verso il proprio lavoro, la ragazza racconta al padre di sentirsi talvolta meno coinvolta rispetto ai colleghi uomini, soprattutto nelle informazioni operative e nell’assegnazione di alcuni servizi. Secondo quanto riferito, questa percezione incide anche sulle sue scelte relative ai compiti di ordine pubblico.
Il padre precisa che la figlia affronta con determinazione le dinamiche della stazione in cui opera, una realtà del Nord Italia, pur avvertendo che la condizione femminile può comportare limiti e opportunità differenti.
L’uomo confida la propria preoccupazione, spiegando di temere che eventuali situazioni di esclusione possano avere ripercussioni emotive sulla figlia nel lungo periodo, ma non gesti estremi.
Suicidi in epoca di leva vs oggi
È bene ribadirlo, l’argomento non è molto gradito, seppur affrontare i dati significa riconoscere che, a suo tempo, esisteva già una notizia ufficiale e un dibattito pubblico.
Durante gli anni della leva obbligatoria, il tema dei suicidi tra i militari – quasi sempre giovanissimi – attirò attenzione mediatica e politica. Uno studio specifico sul periodo 1986-1998 documenta 122 suicidi e 136 tentativi, con fasce d’età particolarmente vulnerabili, soprattutto tra 19 e 22 anni (OUP Academic; IRIS Sapienza).
In quegli stessi anni era discusso il fenomeno del cosiddetto “nonnismo”, cioè atti di vessazione tra coscritti e, considerato talvolta, come possibile concausa di alcuni episodi.
Una fonte giornalistica internazionale dell’epoca riferiva che diversi casi erano stati ricondotti a episodi di hazing, cioè riti di iniziazione praticati dai militari di leva più anziani nei confronti dei nuovi arrivati, talvolta presentati come goliardici ma spesso percepiti come vere e proprie forme di vessazione (UPI, 1986).
Con la professionalizzazione delle Forze armate e l’abolizione della leva, il quadro cambia sensibilmente. I dati pubblicati dall’Osservatorio Epidemiologico della Difesa (OED) mostrano che tra il 2006 e il 2018 si sono verificati 228 suicidi e 21 tentativi tra il personale militare e l’Arma dei Carabinieri. Secondo lo stesso Osservatorio, il tasso di suicidio – adeguato per età, sesso e struttura demografica – non risulta significativamente più alto di quello della popolazione civile italiana. In precedenza, invece, nel periodo in cui era attiva la leva obbligatoria, lo studio Suicide in the Italian Military Environment (1986-1998) documentava 122 suicidi e 136 tentativi in quegli anni – con la fascia più colpita tra i 19 e i 22 anni.
Questo evidenzia come il picco in quegli anni coincidesse con la struttura sociale e le condizioni tipiche della leva obbligatoria, in cui fattori come la disciplina rigida, l’integrazione forzata e il cosiddetto “nonnismo” – segnala parte della bibliografia – potevano rappresentare elementi di vulnerabilità.
Oggi le Forze armate non mostrano dati che indicano un rischio di suicidio significativamente superiore rispetto alla media nazionale, ma la comparazione con il passato – quando la leva era obbligatoria – lascia intravedere come contesto, età e modalità di servizio possano influire in maniera diversa.
Resta però il limite strutturale più volte richiamato: non esiste una banca dati nazionale unica e trasparente per un confronto storico–contemporaneo.
Fonti
Min. Difesa (OED 2006–2018) (https://www.difesa.it/smd/approfondimenti/benessere-e-salute/prevenzione-suicidio/i-dati-del-suicidio/35852.html)
Mancinelli et al. – “Suicide in the Italian Military Environment” (1986–1998)
(https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/11437824)
ISS (https://www.epicentro.iss.it/ben/2020/4/mortalita-suicidio-italia)
UPI (1986) Fenomeno del “nonnismo” (https://www.upi.com/Archives/1986/09/14/…)
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