Il lato oscuro dell’esercito romano: gli ammutinamenti di epoca repubblicana
All’alba del 10 gennaio del 49 avanti Cristo, Giulio Cesare passava il fiume Rubicone, confine fra la Gallia Cisalpina (le terre della Padania) e l’Italia peninsulare, alla testa di una delle sue legioni più fedeli, la Legio XIII, dando inizio alla sfida col rivale Gneo Pompeo nella più celebre delle guerre civili della storia romana. Varcare la frontiera con una legione in armi rappresentava un’aperta ribellione militare nei confronti del Senato.
Cesare sapeva quanto fossero irrequieti i legionari, spesso pronti a sfidare le severissime regole della decimazione, ovvero l’uccisione di un decimo degli uomini di un reparto ammutinato o fuggiasco, se esasperati dal prolungarsi di una guerra o dalla mancanza di stipendio. Ma aveva saputo guadagnarsi la fiducia delle truppe con le sue vittorie e anche con discorsi di rara maestria oratoria. Tuttavia, anch’egli subì ammutinamenti nelle sue stesse file. Sul finire del 49, mentre lottava contro i pompeiani nella Gallia Narbonese, gli giunse notizia che la Legio IX di stanza a Piacenza gli si era ribellata, accusandolo di non aver garantito i pattuiti bottino e riposo. Cesare dovette così recarsi a Piacenza per sedare la rivolta nel modo più lieve.
Nel pieno della guerra civile, non poteva permettersi di perdere troppi uomini e la decimazione avrebbe portato all’uccisione di 600 soldati sul totale di 6000 della legione. Così, dopo aver trattato coi legionari riottosi, isolò un primo gruppo di 120 facinorosi, e solo fra essi applicò la decimazione, sacrificando appena 12 uomini.
Episodi simili costellano un po’ tutta la storia di Roma e a illustrarne nello specifico le cause e le dinamiche arriva il nuovo libro “Il lato oscuro dell’esercito romano: gli ammutinamenti di epoca repubblicana”, che Roberto Chiavini ha scritto per le edizioni Odoya (pagine 192, euro 14,00). Scopriamo così che l’altra faccia del tenace esercito legionario, conquistatore dell’intero “mondo conosciuto” attorno al Mediterraneo, era fatta di una sotterranea insofferenza verso operazioni interminabili, in scacchieri sempre più lontani da casa e spesso vedendo disattese le speranze in premi e riconoscimenti.
Il quadro è plausibile se pensiamo che l’esercito romano fu la prima forza militare “globale”, con contingenti spediti in nazioni remote che duemila anni fa apparivano lontane come la Luna, data la lentezza dei trasporti e delle comunicazioni. Oggi un soldato americano in Afghanistan può “incontrare” la propria famiglia su Skype ogni giorno, con innegabile beneficio sul morale. Nel 206 a.C, invece, i legionari della guarnigione di Sucrone, in Spagna, impantanati laggiù da una dozzina d’anni a combattere i cartaginesi con rifornimenti a singhiozzo e senza stipendio, ne ebbero a un certo punto le tasche piene.
Già sapevano che il loro comandante, Publio Cornelio Scipione, poi detto l’Africano, era malato. Quando si diffuse la falsa notizia della sua morte, si ammutinarono. Ma Scipione si presentò a loro, vivo e vegeto, ed essi si arresero. Il perdono fu quasi totale, salvo la condanna a morte dei soli 35 primi istigatori della rivolta.
Anche dopo la disfatta di Cartagine, la Spagna, definita dall’autore “il Vietnam romano” obbligò le legioni a ben 60 anni di operazioni, dal 197 al 133 a.C., contro la guerriglia dei popoli locali, celtiberi e lusitani. Essere destinati fra le vallate iberiche doveva suonare come una maledizione per qualsiasi legionario del II secolo a.C., tantopiù che, per tenere i ranghi, i generali eccedevano in severità. Nel 140 a.C. il console Quinto Servilio Cepione mandò i suoi uomini a rifornirsi di legna in un pericoloso territorio occupato dal nemico, intendendo punirli per una sciocchezza. Tornati al campo, i soldati ammucchiarono la legna attorno alla tenda di Cepione e appiccarono il fuoco per bruciarlo vivo.
Il console si salvò e pare che da allora si decise a trattar meglio la truppa. In generale, il lavoro di Chiavini ha il merito di mostrare come il ribellismo militare fra i romani fosse molto più diffuso di quanto comunemente si creda. Fu come un “filo rosso” che, a un certo punto, venne sfruttato politicamente quando, con la lotta fra Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, iniziò dall’83 a.C. la lunga stagione delle guerre civili.
Comandanti ambiziosi cominciarono a fare promesse lusinghiere alle truppe scontente, secondo un processo di addomesticazione degli ammutinamenti, ora finalizzati alla presa del potere. Il culmine fu raggiunto con Cesare e i suoi epigoni Ottaviano e Antonio, il cui scontro alla fine affossò la Repubblica portando all’Impero.
Ma anche oltre l’orizzonte temporale del libro, che si concentra sul periodo repubblicano, ben sappiamo che simili fenomeni si sarebbero ripetuti nei numerosi periodi di crisi dinastica imperiale, come alla morte di Nerone nel 68 dopo Cristo. O come durante la prolungata “anarchia militare” durata dalla fine dei Severi, nel 235 d.C., fino perlomeno all’ascesa al trono di Aureliano nel 270, e al riconsolidamento dell’impero con Diocleziano, dal 284 al 305 dopo Cristo. Sebbene appena pochi anni dopo, nel 312, già si vedessero di nuovo legioni contro legioni alla battaglia del Ponte Milvio vinta da Costantino su Massenzio.
Roberto Chiavini
Il lato oscuro dell’esercito romano: gli ammutinamenti di epoca repubblicana
Odoya
pagine 192