Il “nemico necessario” e gli indispensabili odio e paura: perché dobbiamo temerne l’assenza…
Ogni guerra, palese o subdola che sia, non è soltanto scontro fisico o informatico ma un confronto di volontà. La determinazione di un popolo a resistere o a combattere non si regge unicamente sulla strategia o sulla forza materiale: richiede la costruzione di un “nemico” da cui trarre le energie dell’odio e della paura. Sono proprio questi sentimenti, quando innescati, a trasformarsi in un collante potentissimo: muovono masse, silenziano le critiche, giustificano sacrifici e annullano i dubbi.
La storia insegna che, senza un avversario percepito come minaccia esistenziale, la volontà collettiva stenta e si dissolve in poco tempo. È in questa cornice che si inserisce la costruzione – spesso artificiale – del nemico, un elemento necessario sul campo di battaglia, ieri come oggi, quanto se non più delle armi stesse.
Nella Prima guerra mondiale, la figura del nemico fu una costruzione semplice ma potentissima. In un’epoca di scarsa alfabetizzazione, con giornali e manifesti come uniche fonti di informazione per la maggioranza della popolazione, era sufficiente associare all’avversario immagini di crudeltà e barbarie per generare odio duraturo.
Per i francesi e i britannici, il tedesco era “l’unno”, brutale, devastatore di città, stupratore e assassino di civili.
Per i tedeschi, il francese era decadente e corrotto, il britannico ipocrita e imperialista.
Nelle trincee, dove le condizioni di vita disumane alimentavano rabbia e disperazione, quell’immagine serviva a dare un senso al sacrificio e a sopportare ordini che significavano, spesso, andare incontro alla morte. L’odio era “naturale” perché costruito su un’ignoranza diffusa e su un contatto quasi inesistente con l’altro. Il nemico era una sagoma lontana, definita dalla propaganda e mai contraddetta da esperienze personali.
Con la Seconda guerra mondiale, la propaganda migliorò ulteriormente e diventò scienza.
Sul fronte occidentale, quella statunitense e britannica rappresentava il nazifascismo come un cancro da estirpare, capace di schiacciare la libertà e cancellare ogni traccia di civiltà. Sul fronte orientale, l’Unione Sovietica trasformò il “nazista” in una minaccia esistenziale alla patria, alla famiglia, alla stessa sopravvivenza del popolo russo.
Il nemico non era più solo una figura geografica o etnica: era un’ideologia, un pericolo assoluto e universale.
Anche il Giappone imperiale operò in questa direzione: la propaganda dell’epoca non si limitava a descrivere gli americani come barbari senza onore ma li dipingeva anche come assassini, saccheggiatori e stupratori (demonizzazione già usata in precedenza contro cinesi e russi).
Le narrazioni d’odio e di terrore avevano una doppia funzione: cementare il fronte interno e dare un significato morale alla sofferenza. Ogni bombardamento subito, ogni carestia, ogni lutto trovava un colpevole da identificare altrove.
Oggi, in un’epoca di informazione globale e accesso immediato a versioni alternative dei fatti, ricreare lo stesso livello di acredine è enormemente più complicato. L’opinione pubblica è frammentata, scettica, se non insensibile o indolente. Insomma è incapace di allinearsi a una narrazione unica, fosse anche Verità incarnata.
Questo, purtroppo, è inevitabilmente visto da chi deve innescare una guerra, come una “debolezza”, un vulnus fatale.
La storia racconta di “provvidenziali” eventi traumatici e catalizzatori
L’attacco giapponese a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, rappresentò per gli Stati Uniti il momento di svolta che trasformò un’opinione pubblica in gran parte isolazionista in una nazione determinata alla guerra totale. La sorpresa dell’attacco, la devastazione della flotta e le oltre duemila vittime civili e militari alimentarono un’ondata immediata di odio collettivo verso il Giappone imperiale. La propaganda americana seppe capitalizzare quell’evento, dipingendo i giapponesi non solo come aggressori sleali, ma come un popolo intrinsecamente crudele, pericoloso e disumano. Manifesti, cinegiornali e giornali diffusero immagini e racconti – veri o amplificati – di atrocità commesse in Asia e nel Pacifico, consolidando l’idea che la guerra contro il Giappone fosse una crociata morale, indispensabile per la sopravvivenza della civiltà americana.
Gli attacchi dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti segnarono uno dei più potenti catalizzatori di odio collettivo dell’epoca contemporanea. Il crollo delle Torri Gemelle, il colpo al Pentagono e il dirottamento del volo United 93, trasmessi in diretta in tutto il mondo, produssero un trauma di proporzioni senza precedenti. Nel giro di poche ore, un Paese frammentato su molte questioni interne si trasformò in una comunità unita dalla rabbia e dalla sete di giustizia. La narrativa ufficiale identificò in Al-Qaida e nei talebani non solo il nemico immediato, ma l’incarnazione stessa del male, descritta come una minaccia globale alla libertà e alla sicurezza occidentale. Le immagini dei corpi tra le macerie, le storie delle vittime e il linguaggio politico-militare adottato – dalla “guerra al terrore” alla “crociata contro il male” – cementarono un consenso quasi unanime per interventi militari massicci, dall’Afghanistan all’Iraq, accettati da gran parte dell’opinione pubblica come necessità ineluttabili.
L’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre 2023 contro Israele ebbe un effetto immediato e devastante sull’opinione pubblica israeliana. Le incursioni dalla Striscia di Gaza, con l’uccisione di centinaia di civili, il rapimento di ostaggi e la diffusione di immagini cruente, trasformarono all’istante una società già sotto tensione e politicamente divisa in un blocco compatto, determinato alla vendetta e alla distruzione totale dell’organizzazione islamista. La leadership israeliana sfruttò la portata dell’evento per rafforzare il senso di minaccia esistenziale, assimilando Hamas non solo a un nemico armato ma a un’entità votata allo sterminio degli ebrei. I media nazionali amplificarono ogni testimonianza e immagine delle violenze, alimentando un odio collettivo che – inizialmente – rese accettabili, per larga parte della popolazione, operazioni militari estese e prolungate, anche a costo di gravi perdite umane e diplomatiche.
L’elemento inquietante è che, dove idee e valori autentici scarseggiano (o esistono solo come facciata…), la necessità di un nemico può “indurre” simili eventi.
La storia mostra che non sempre potrebbero essere frutto del caso o esclusivamente della volontà dell’avversario. Non serve aderire a teorie complottiste per riconoscere che, in certe circostanze, un attacco subito può essere usato come leva politica, se non addirittura “lasciato accadere” o provocato, pur di ottenere una mobilitazione che, altrimenti, sarebbe semplicemente impossibile.
2025
Oggi il mondo si sta preparando a un conflitto fuori scala. Si spendono budget che nell’ultimo secolo sono stati raggiunti solo alla vigilia di guerre aperte.
Eppure manca qualcosa. Manca la figura nitida del nemico. Non certo in Israele o in Ucraina, dove odio e paura sono radicati da generazioni, ma nel mondo globalizzato, dove le informazioni e le opinioni viaggiano a velocità prossime a quella della luce e finiscono per neutralizzarsi a vicenda.
È proprio questa assenza di un avversario definito a rendere il presente tanto fragile quanto pericoloso.
La storia insegna – mi ripeto – che quando le società smettono di temere e di odiare, qualcuno – o qualcosa – trova sempre il modo di restituire loro un “motivo” per farlo. Laddove la paura svanisce, eventi traumatici tornano a scuotere le coscienze; laddove l’odio si spegne, nasce il bisogno di riaccenderlo.
Forse la guerra del futuro, dominata da droni autonomi e sistemi d’arma intelligenti, ci salverà parzialmente da noi stessi. Non serviranno più soldati motivati, ma opinioni pubbliche disposte ad accettare decisioni prese da algoritmi. Il costo umano sarà minimo, quello politico e morale enorme. E chissà, forse a evitare nuovi “provvidenziali” corsi e ricorsi della storia non sarà la coscienza, ma la freddezza delle macchine.
Nel frattempo, nell’attesa dei campi di battaglia integralmente robotici, i veri pericoli non sono l’odio o la paura, ma la loro assenza. Perché è proprio nel silenzio delle emozioni collettive che maturano i peggiori risvegli…
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