Il riflesso di Pavlov: la pace predicata sotto le bombe
Ricordate Pavlov? Era un fisiologo russo che, con i suoi esperimenti, mostrò come i cani finissero per salivare al semplice suono di un campanello, dopo averlo associato al cibo. Un riflesso condizionato: non contava la sostanza, ma il segnale.
Oggi, purtroppo, assistiamo allo stesso automatismo. Basta pronunciare la parola “pace” e scatta la salivazione collettiva: appelli, tavoli, articoli, manifestazioni, programmi. Eppure, come per i cani che reagivano a un suono anche in assenza di carne, così i nostri intellettuali e “buonisti” reagiscono a un concetto vuoto.
È comprensibile – e umano – voler stringere (o alzare) le mani mentre sibilano i proiettili. Ma è anche illusorio. Parlare di pace a guerra in corso equivale a discutere (magari sorseggiando tè e pasticcini…) il colore delle impalcature di un palazzo ancora in fiamme.
Una provocazione?
Facciamo un parallelo storico. Autunno-inverno 1941: le colonne corazzate tedesche avevano sfondato in punti oggi noti come Minsk, Smolensk, Kiev, per poi dirigere su Mosca. Quando Hitler arrivò alle porte della capitale russa avrebbe avuto senso un “accordo”? Che tipo di “cessate il fuoco” avrebbe potuto fermare un’operazione concepita a Berlino come guerra d’annientamento? Per i sovietici non fu mai raccontata così: divenne la “Grande Guerra Patriottica”, lotta di sopravvivenza, difesa del Paese, resistenza nazionale. Ma la sostanza non cambiava: l’invasore puntava a cancellare uno Stato, e solo la forza sul campo poteva fermarlo.
Allora bastò che delle anime candide affermassero che la sfida dei paesi dell’Asse era “INACCETTABILE” per terminare il bagno di sangue? O avvenne grazie a milioni di morti ed ai – sottovalutati (e poi sovieticamente “dimenticati”) – 17 milioni di tonnellate di rifornimenti, 375.000 autocarri, 14.000 aerei, 7.000 carri armati, locomotive, navi e milioni di tonnellate di cibo, esplosivi, carburanti e materie prime inviati dagli Alleati?
Pacifismo traditore o combattente?
Perfino Gandhi, icona della non-violenza, durante la Seconda guerra mondiale si trovò di fronte a un dilemma lacerante. Pur rifiutando di sostenere il conflitto senza la promessa di libertà (avviò il movimento Quit India nel 1942), lasciò che milioni di indiani combattessero sotto la bandiera britannica. Parliamo di oltre due milioni di uomini! Ma era Gandhi: un “guerriero”! Alzò la voce contro i diktat inglesi ed ottenne (anche se a carissimo prezzo) la libertà del suo paese in cambio del sacrificio di decine di migliaia di connazionali. Il massimo esponente della non-violenza comprese che, quando una guerra è in corso, la moral suasion da sola è fuffa. La pace si conquista, non si auspica.
Un altro personaggio, Lenin, rientrò invece in Russia nel 1917 con l’appoggio logistico e finanziario dei servizi tedeschi che puntavano a far collassare il fronte orientale. Lenin fermò, come da accordi, il conflitto: consegnò alla Germania vasti territori, industrie e risorse strategiche, infliggendo al suo stesso paese una mutilazione enorme. La rivoluzione pagò il suo pedaggio: poco nobile (d’altronde l’avversario era lo Zar) e ancor meno rivoluzionario.
“Cessate il fuoco”
Senza condizioni materiali – linee consolidabili, logistica sostenibile, deterrenza credibile – la semantica non sostituisce la strategia. Nel 1941, anche ammesso che le parti si fossero incontrate (ve li immaginate Hitler e Stalin a Berlino o Mosca???), quale confine avrebbero disegnato mentre il tritacarne era in funzione?
Ogni “proposta di tregua” lanciata mentre si combatte è, nei fatti, una richiesta di pausa operativa mascherata – e le pause, in guerra, hanno un costo strategico. Nel 1941 nessuno dei due contendenti aveva motivo di credere che l’altro si sarebbe fermato per “gentilezza”: i tedeschi puntavano alla decisiva rottura, i sovietici, alla resistenza ad oltranza in attesa del gelo.
“Ricostruzione” prima della vittoria o della sconfitta? L’ordine sbagliato delle cose
Piani per “la ricostruzione” sono indispensabili… dopo! Prima di un epilogo sono “fumo”, chiacchiere per distogliere la pubblica attenzione dalla propria irrilevanza.
In queste stesse settimane l’Asse dilagava in Ucraina: Kiev cadde il 19 settembre 1941 e le colonne avanzavano nell’immensità delle steppe. In un simile scenario, sarebbe stato ridicolo ascoltare intellettuali e “buonisti” ripetere “noi non vogliamo la guerra”. Si era già in guerra!
I carri armati allora (come oggi i droni) non leggevano editoriali, i convogli non si fermavano per un hashtag, le città non si ricostruivano con le “buone intenzioni”.
E la diplomazia?
L’arte delle relazioni internazionali è fondamentale come arma ausiliaria: costruisce coalizioni, isola l’avversario, gestisce escalation e percezioni. Ma non sostituisce il risultato sul campo. Nel 1941 nessuna telefonata discreta avrebbe potuto cambiare l’esito della controffensiva d’inverno sovietica; furono uomini, acciaio, fabbriche e soprattutto la logistica a invertire il vettore. I documenti (rese incondizionate comprese) arrivarono dopo, a fotografare ciò che le armi avevano reso inevitabile.
Parlare di pace in piena guerra è dunque ridicolo, pericoloso e controproducente: chi avanza non ha motivo di fermarsi, chi arretra firma solo ciò che non può rifiutare. Illude le opinioni pubbliche, offre coperture propagandistiche e inverte l’ordine naturale delle cose: prima la vittoria (o la sconfitta), poi la pace e la ricostruzione.
In guerra, le parole contano solo quando seguono i fatti, non ulteriori penultimatum. Tutto il resto è rumore tra due raffiche.
Da europei chiediamoci ora se i nostri “benpensanti” sono novelli Gandhi o Lenin. Ma non sottovalutate la differenza, le conseguenze potrebbero essere notevoli: un’inaspettata, unita e libera Europa… o semplicemente un misero “cambio di padroni”.
Foto: ministry of Defense of Ukraine
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Ricordate Pavlov? Era un fisiologo russo che, con i suoi esperimenti, mostrò come i cani finissero per salivare al semplice suono di un campanello, dopo averlo associato al cibo. Un riflesso condizionato: non contava la sostanza, ma il segnale. Oggi,…
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