Il Sudan post-golpe tra tensioni interne e interessi internazionali
Dopo il 25 ottobre in Sudan si potrebbe dire che abbia avuto luogo un colpo di stato per definizione, oppure si è trattato semplicemente di un cambio di regime al potere o, in misura appropriata, una presa del potere politico sotto la minaccia delle armi altrimenti detto un cambiamento incostituzionale del governo e del potere statale.
Al di là delle discussioni di carattere accademico, il Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, il generale Abdel Fattah al-Burhan (nella foto sotto), come primo passo, in un annuncio ha dichiarato pubblicamente lo stato di emergenza e ha sospeso sia il Consiglio che il governo. Tuttavia, ha difeso l’iniziativa come un passo necessario per prevenire la guerra civile e mantenere in essere il processo di normalizzazione del paese.
Ha inoltre sospeso una serie di disposizioni della dichiarazione costituzionale, che fissa le cornici del periodo interinale dopo il rovesciamento del presidente Omar al-Bashir, che aveva governato il paese per 30 anni, e determina i rapporti tra le autorità militari e civili, ma aveva promesso il mantenimento delle prossime elezioni politiche previste per luglio 2023 e che dovrebbero riportare il paese africano alla normalità democratica costituzionale e completare il processo post-Bashir.
L’obiettivo dichiarato del Generale Abdel Fattah al-Burhan era quello di salvare l’accordo di pace di Juba: risolvere lo stallo tra le forze politiche e l’esercito, rimodellare la dichiarazione verso la transizione al governo civile e le elezioni politiche. Il Consiglio Sovrano Consiglio di Transizione, organismo di presidenza collettiva, che comprende sia civili che leader militari, ha registrato pesanti tensioni sin dalla sua istituzione dopo il rovesciamento di Omar al-Bashir.
Usualmente, dopo la presa del potere da parte dei militari, sono piovute critiche e inviti a ristabilire il quadro istituzionale da organizzazioni internazionali, regionali e stati e da ONG, che temono che il colpo di stato rappresenti una inversione dei piccoli ma importanti guadagni realizzati nel corso degli ultimi due anni sotto il governo di transizione ora dissolto.
Ma il colpo di stato è molto di più che un semplice passaggio di mano delle leve del potere e/o del suo riassorbimento nella legalità internazionale e interna, a causa dell’enorme, ma spesso sottovalutato, peso e influenza del Sudan.
Vi sono molte sfide economiche, geopolitiche e geostrategiche nella regione del Mediterraneo allargato, di cui Khartoum fa parte. Al crocevia di tre continenti, l’area è da tempo in tensione, con importanti questioni strategiche: vecchie e nuove rivalità, fenomeni di neo-colonizzazione, decolonizzazione incompleta (nei fatti), influenze esterne, controllo di snodi geografici, ricerca e gestione di risorse di ogni tipo (principalmente acqua e idrocarburi).
Resta uno spazio di confronto tra potenze regionali, e potenze lontane (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia) continuano a cercare di avere un ruolo. La regione, che è una delle più antiche aree di commercio marittimo del mondo è quindi soggetta a molte sfide, accresciutesi nell’era della globalizzazione.
Il Sudan, che si affaccia sul Mar Rosso, è di interesse non solo per l’Egitto (a causa del Canale di Suez), ma anche per alcuni hub di containerizzazione della regione. Continuando a percorrere dalla costa dal Sudan all’Eritrea, dall’Etiopia alla Somalia, ci sono molti interessi in competizione, crisi aperte e gravissime.
Il generale Burhan, presidente del Consiglio Sovrano di Transizione dall’aprile 2019 e comandante in capo delle forze armate è stato a lungo uno dei luogotenenti più fedeli di Bashir.
Nato nel 1960 in una famiglia sufi in un villaggio a nord di Khartoum, Burhan ha studiato in un college dell’esercito sudanese, poi in Giordania e all’accademia militare egiziana del Cairo, dove ha conosciuto il futuro Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, a cui è strettamente legato nonostante abbia affiliazioni con i movimenti islamisti che Sisi ha bandito e duramente perseguitato. Il primo viaggio internazionale del Generale Burhan, dopo essere diventato de facto il capo di stato del Sudan è stato proprio in Egitto nel maggio 2019.
Da lì è andato negli Emirati Arabi Uniti (EAU) e in Arabia Saudita. All’inizio della sua vita lavorativa, Burhan ha prestato servizio per breve tempo come addetto alla difesa presso l’ambasciata del Sudan a Pechino, ma la sua carriera militare sotto il governo di Bashir è stata definita dai ruoli di spicco svolti nelle dure guerre civili in Sud Sudan, Darfur, ma anche in Yemen, dove ha guidato il Contingente Sudanese nel quadro della coalizione a guida saudita anti Houti (e, indirettamente, contro l’Iran).
Forze Armate e RSF
Il periodo di Burhan in Darfur è significativo anche perché lo ha messo in contatto con il signore della guerra Mohamed Hamdan Dagolo, conosciuto come ‘Hemeti’, il capo delle famigerate milizie arabe dei Janjaweed, che devastarono il Darfur per poi assumere dal 2013 la denominazione di Rapid Support Forces – RSF – una forza che assomma a circa 40-50.000 unità, al tempo stesso di supporto ma anche rivale delle forze armate.
In qualità di capo rispettivamente delle forze armate sudanesi e delle RSF, Burhan e ‘Hemeti’ sono sia alleati che rivali. Infatti ‘Hemeti’ è anche vicepresidente del Consiglio Sovrano di Transizione, ma la sua famiglia e le RSF beneficiano enormemente del controllo delle miniere d’oro nel Darfur, nonché del patrocinio degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita.
L’esercito del Sudan, oltre a 120.000 militari, ha, in teoria, un budget maggiore e controlla un significativo complesso industriale militare. Queste varie fonti di potere e ricchezza sarebbero minacciate dal governo a guida civile del Sudan e si pensa che questo sia in parte il motivo per cui Burhan e ‘Hemeti’ lo abbiano rovesciato o sospeso, come è stato dichiarato, unitamente alla promessa di mantenere l’impegno a tenere le elezioni politiche generali previste per il 2023.
Ma vi sono altre ragioni dietro il tentativo di cambio di regime in Sudan. Infatti, sia Burhan che ‘Hemeti’ erano consapevoli che il governo civile li riteneva responsabili degli eccessi in Darfur, dove i Janjaweed sono stati spesso affiancati dalle truppe regolari nelle persecuzioni contro I darfuriani.
Inoltre ‘Hemeti’ seppur una figura più carismatica dell’apparentemente grigio Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione, è strettamente associato alle atrocità che hanno preceduto la transizione alla democrazia – in particolare, il massacro di oltre 130 persone a Khartoum nel giugno 2019.
Ma proprio il 21 novembre Burhan e il deposto Primo MInistro Abdalla Hamdok, hanno siglato un accordo per la normalizzazione della situazione sudanese nelle prossime settimane (e subito dopo rilasciato dagli arresti domiciliari dove era stato trattenuto dopo il colpo di stato ed è comunque sintomatica la foto dell’accordo di pacificazione dove Hamdok, sembrava uno pover’uomo a fronte dei due Generali Burhan e ‘Hemeti’).
Tutto porta a pensare che vi sia stato, dietro la solita raffica di critiche e di sospensioni da parte di organizzazioni internazionali e regionali dopo la presa di potere da parte dei militari, una fortissima pressione internazionale, un accordo sulla incolumità personale e istituzionale sia dei Generali Burhan e (forse), ‘Hemeti’ e della incolumità finanziaria delle forze armate (e probabilmente, delle RSF, specialmente se transiteranno nell’orbita delle forze armate, come aspirerebbe Burhan).
Con buona pace di un certo mainstream, l’opposizione popolare, benchè sia stata molto “mediatizzata”, questa volta non sarebbe stata in grado di rappresentare una sfida al potere come nel 2018.
L’opposizione popolare sudanese fu protagonista sia nell’Ottobre 1964, quando ha deposto il President Ibrahim Abboud, sia nel 1985 quando un colpo di stato, ha seguito di massicce dimostrazioni, depose il Presidente, e anche lui generale, Gaafar Nimeiry.
La prospettata ‘normalizzazione’ sudanese, tuttavia non chiarisce quali saranno le evoluzioni di Khartoum. Innanzitutto nella dimensione interna. Infatti la coalizione dei partiti d’opposizione, i cui leaders sono in via di liberazione a seguito dell’accordo tra Hamdok e i generali, ha respinto l’accordo e ha chiamato la popolazione a proseguire e sue proteste.
Gli interessi internazionali
Come accennato, il Sudan è da tempo al centro di un intricatissimo gioco di potere da parte di diversi attori che cercano di accrescere la loro influenza sul paese, che per la sua posizione geografica sta diventando sempre più importante.
La dimensione regionale è estremamente complessa. Innanzitutto Arabia Saudita, UAE, Egitto e Israele hanno tutti i loro interessi nel mantenimento dei loro interessi. Arabia Saudita ed UAE, nonostante le loro rivalità, hanno entrambe necessità di tenere agganciata Khartoum alle operazioni in Yemen.
L’Egitto ha una storia controversa di relazioni con il Sudan, ma attualmente il Cairo è alla ricerca di alleati per corroborare la sua posizione nel confronto con l’Etiopia per la irrisolta gestione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD).
Israele, vuole mantenere agganciato il Sudan agli accordi di Abramo e, grazie alla storica influenza di Khartoum sul continente, averne l’appoggio per la sua offensiva diplomatica in Africa configurata per ora (ma le prospettive sono assai ambiziose) nella difesa dello status di osservatore presso l’Unione Africana.
Iniziativa contrastata da diversi stati africani e arabofoni, tra cui proprio l’Egitto e la Mauritania che è al centro di una offensiva diplomatica degli UAE, divenuto un solido alleato di Israele.
Sotto al-Bashir, Khartoum e Mosca hanno avviato colloqui sulla creazione di una struttura navale russa in Sudan sul Mar Rosso. Un accordo correlato è stato firmato con il Consiglio sovrano del Sudan dopo la cacciata di al-Bashir, ma non è stato ratificato e nel giugno 2021, il capo di stato maggiore delle forze armate sudanesi aveva affermato che il paese africano prevedeva di rivedere le condizioni dell’accordo.
Washington, nonostante una strutturalmente incerta posizione rispetto all’Africa, resta un attore chiave nella scena sudanese.
Anche la Francia ha grossi interessi, soprattutto finalizzati nell’allontanare la pressione russa, arrivando a organizzare una conferenza finanziaria per il Sudan nel maggio scorso e condonare il suo debito. Parigi teme che Mosca, attraverso il trampolino del Sudan, ampli ulteriormente la sua influenza negli stati vicini, dove a fianco nella Repubblica Centrafricana, già pesantissima, si estenda al Chad, snodo della ‘FranceAfrique’ o di quel che ne resta.
In questo Parigi può contare sulla solidarietà e appoggio statunitense. Senza cadere nell’isterismo antirusso, oramai merce comune su molte testate, è importante comprendere la particolare interesse di Mosca per il Sudan. La Russia ha avuto “relazioni amichevoli” con il Sudan, a partire da Bashir, che aveva governato il Paese per 30 anni.
La base navale russa sul Mar Rosso
Prima del suo rovesciamento, Bashir aveva compiuto un importante viaggio in Russia nel novembre 2017, dove erano stati raggiunti accordi sull’assistenza della Russia nella modernizzazione delle forze armate sudanesi. Khartoum aveva anche affermato di essere interessato a discutere la questione dell’utilizzo delle basi del Mar Rosso con Mosca. Quella proposta aveva spinto Mosca a firmare un documento, dopo diverse discussioni e trattative, sulla possibilità di costruire una base navale a Port Sudan.
Il documento stabiliva che un massimo di quattro navi da guerra possano rimanere nella base logistica navale, comprese “unità con sistema di propulsione nucleare a condizione del rispetto delle norme di sicurezza nucleare e ambientale”.
Quel documento, presentato dal Ministero della Difesa di Mosca, sottolineava che la struttura logistica della Marina russa in Sudan “consegue gli obiettivi di mantenere la pace e la stabilità nella regione, è difensiva e non è diretta contro altri paesi”.
L’ex ministra degli Esteri del Sudan, Mariam Al-Sadiq Al-Mahdi, a seguito dei colloqui a Mosca del 12 luglio, quest’anno, insieme a Lavrov, approvava la ratifica del documento sia da parte della Duma di Stato della Federazione Russa che dal Parlamento del Sudan. Il 1° luglio, il Presidente russo Vladimir Putin sottoscriveva un accordo sulla costruzione di una stazione navale russa in Sudan per la ratifica da parte della Duma di Stato. In precedenza, il Sudan aveva annunciato la sua decisione di rivedere l’accordo di 25 anni, mediato da Bashir durante il suo viaggio in Russia nel 2017.
Dopo quell’incontro però, il progetto non è diventato operativo, ma la Russia, piaccia o meno, ha in mano un documento importante e cercherà di farlo valere anche con il governo (in prospettiva) civile.
L’opzione di una base navale russa a Port Sudan è di una importanza enorme e metterebbe una ipoteca enorme sulla tranquillità dei traffici da/per il Canale di Suez, con tutte le conseguenze e le ipoteche che rappresenterebbe per la sicurezza dell’Arabia Saudita.
Ma questa iniziativa deve essere letta in una prospettiva più ampia. Durante il primo vertice Russia-Africa tenutosi a Sochi nel 2019, il Presidente Vladimir Putin ha tenuto diversi incontri proprio con il Generale Burhan, che prevedibilmente resterà un elemento centrale della vista politica e del sistema decisionale sudanese.