Iran senz’acqua: la crisi idrica che può travolgere il regime
L’acqua è di fatto un elemento caratterizzante la geopolitica assolutamente non sottovalutabile; elemento dell’esercizio di potere, ricchezza ed arma al contempo, diventa perfetta base di negoziazione diplomatica. Il fatto che l’accesso all’acqua più che tra i diritti rientri tra i soddisfacimenti di un bisogno, ha reso l’acqua quale potenziale fattore d’instabilità ed elemento costitutivo dell’idropolitica o, per meglio dire, di una geopolitica a sé stante che ne studi il valore strategico affine a quello delle risorse primarie. Esempio ne sia il progetto della diga cinese di Yarlung Zangbo, simbolo di un’idro-egemonia padrona dei flussi attraverso più confini internazionali. Non è più mera sicurezza energetica, ma inaugurazione di un sistema d’arma capace di stravolgere e controllare intere regioni.
Di fatto, la politica dell’acqua diviene una politica a somma zero, specie in terre dove i sistemi fluviali sono spesso a carattere transfrontaliero e seguono profonde linee di faglia geopolitiche che rifiutano qualsiasi multilateralità.
Per un Paese che gestisce acqua ed energia in quantità tali da soddisfare, solo con una diga, il fabbisogno annuo del Regno Unito, eccone un altro per cui la crisi idrica sta assumendo i contorni sempre meno sfocati del giorno zero, tanto da suscitare una rabbia popolare montante, animata dall’accusa verso un regime imputato di aver sperperato danaro per finanziare nucleare, equipaggiamenti bellici, velleità espansionistiche pasdaran in tutto il Medio Oriente tra Hezbollah, Houthi, Hamas, Jihad islamica.
Il livello delle acque nel bacino della diga di Amir Kabir lungo il fiume Karaj è sempre più basso; Teheran per la prima volta sta affrontando una carenza d’acqua mai registrata negli ultimi 46 anni. È vero, le precipitazioni sono state estremamente scarse, le estati torride, ma un ruolo decisivo è stato interpretato dalla pessima gestione delle risorse, dalla corruzione e dai colpi inferti dagli attacchi israeliani, che hanno infranto le strutture strategiche. Complessivamente, le riserve idriche iraniane, custodite dal sistema fondato su 19 grandi invasi, sono scese sotto il 20%. L’unica soluzione adottabile rimane quella della riduzione dei consumi del 30 – 40%, un’ipotesi drammatica per una città densamente popolata come Teheran. Il settore pubblico chiude dunque i battenti in 31 province, contenendo sì i consumi ma tagliando la produzione dei servizi essenziali, mentre nella capitale i livelli dei bacini si attestano a 414 milioni di metri cubi, a fronte della metà media stagionale di 925 milioni. Lo stress idrico è senza alcun dubbio estremo.
Se manca l’acqua, manca anche l’elettricità, impattando sulla quotidianità dei cittadini iraniani e sull’economia, paralizzando il commercio, provocando licenziamenti di massa, costringendo le famiglie a ricorrere a misure d’altri tempi – taniche e secchi – per soddisfare i bisogni primari.
La crisi idrico-energetica iraniana non ha un carattere ciclico, ma è causata da una defaillance strutturale causata da pessima gestione ambientale, da trivellazioni di pozzi incontrollate, da politiche agricole poco accorte. Quel che non hanno colpito i missili israeliani lo sta colpendo la mancanza d’acqua. Il collasso ambientale sta passando dallo stato di rischio a certezza, visto che mancano studi e riforme capaci di contenere il consumo agricolo e di regolare le estrazioni sotterranee. Inevitabile ricordare ora una delle promesse di Khomeini che, nel 1979, assicurò acqua ed elettricità gratuite.
Secondo il Jerusalem Post, diversi ricercatori cinesi affermano che il regime potrebbe trovarsi presto sull’orlo del collasso a causa sia della crisi idrica, sia delle proteste, sia per il timore di un nuovo attacco israeliano. Se Khamenei appare come un leader in difficoltà, d’altro canto parte dei pasdaran sembra pronta a trarre beneficio dalla sua debolezza per porre al comando un fedelissimo, contrastando così le voci che vorrebbero la revanche monarchica di Ciro Reza Pahlavi. Khamenei ha bisogno che l’Occidente revochi le sanzioni che hanno messo in ginocchio l’Iran, mantenendo tuttavia la capacità di sviluppare il suo programma nucleare, indispensabile per l’egemonia nel mondo islamico.
Dopo Donna, Vita, Libertà, ecco un’onda di rara potenza, seppur priva di acqua, generatrice di uno tsunami sociale e politico, cominciato con la perdita di deterrenza in Siria, con la caduta di Assad, elemento che potrebbe aver acuito la presa dell’ala pasdaran favorevole ad un regime change interno senza troppa teocrazia. Da non trascurare la lobby economica dei bazaari, da sempre fiancheggiatrice del regime, che guarda ora sempre più ai pasdaran, affini ad uno stato vicino a quello pakistano, e sempre meno al clero. Dalla crisi idrica ecco l’ipotesi di uno stato con un presidente, un primo ministro, ma senza guide supreme. Lo sciismo, a maggior ragione con il ritorno della monarchia, perderebbe in ogni caso i suoi connotati politici.
In Iran ci sono 192 dighe, 10 volte di più di quelle esistenti 40 anni fa, un numero che testimonia il fallimento della politica infrastrutturale perseguita, visto che in un paese arido troppa acqua in un serbatoio evapora troppo velocemente. Malgrado gli avvertimenti l’intellighenzia iraniana è rimasta inerte, visto che comunque sono stati tratti profitti immensi dalla costruzione di invasi poco scientifici, dalla deforestazione necessaria alla vendita di legname, dalla gestione di fabbriche inutili per gli iraniani, senza contare che le centrali elettriche come quella Mofateh ad Hamedan hanno contribuito ad un’insostenibile insorgenza della salinità del suolo ed al contestuale abbassamento della falda1. Eppure l’acqua è spesso stata al centro del vissuto del paese considerando che, peraltro, la stessa civiltà persiana è stata al vertice delle innovazioni tecnologiche e architettoniche con i Qanat, canali sotterranei che portano l’acqua dal pozzo alla superficie; si tratta di reti sotterranee risalenti anche a 2700 anni fa che, tuttora, consentono una distribuzione idrica purtroppo insufficiente.
Diversi dunque i problemi: un violento incremento demografico spinto da una politica da baby boom che ha portato la popolazione dai 37 milioni del 1979 agli oltre 80 del 2016, fino agli auspicati 150, fortemente voluti dalla Guida Suprema che, tuttavia, non ha dato indicazioni circa il loro mantenimento; un’agricoltura non adattata alle contingenze; fenomeni climatici senza precedenti; a Teheran subsidenza fino a 31 cm per anno2; aumento della frequenza delle inondazioni; inquinamento dovuto alle acque reflue degli stabilimenti industriali; la capitale a secco. Del resto, l’Iran, è il primo paese nella regione per emissioni totali di gas serra, nonché il settimo al mondo. Si potrebbe dire che Teheran abbia tentato di curare i sintomi piuttosto che le cause, acuendo gli attriti con i paesi confinanti, in primis la Turchia. La crisi non è dunque solo di natura ambientale o tecnica, ma anche politica, e sistemica ed avrebbe bisogno di riforme economiche che mettano fine agli alti consumi idrici in agricoltura per puntare sui servizi e su consumi industriali più contenuti.
Non c’è dubbio che il presidente Pezeshkian abbia dovuto affrontare difficoltà notevoli fin dall’inizio del suo mandato, come non può esserci dubbio che facciano parte del legato ereditario ricevuto, sia in politica estera che in politica interna; un menage, quello interno, segnato peraltro da proposte palliative, come quella ricevuta dal governo di istituire periodi di riposo aggiuntivi in un contesto in cui una doccia è diventata un lusso. Secondo Mohsen Ardakani, amministratore delegato del Dipartimento per l’Acqua e le Acque Reflue di Teheran, le riserve nelle dighe chiave che forniscono quasi tutta l’acqua potabile della città sono scese al 5% della capacità. Issa Kalantari, già capo dell’Organizzazione per la protezione ambientale dell’Iran, ha dichiarato che: “Se le risorse idriche sono viste come beni – l’acqua di superficie come conto corrente e le acque sotterranee come risparmio – l’Iran ha esaurito le sue riserve, lasciando il pubblico con una situazione pari a un conto in banca scoperto”.
Mentre il fumo della guerra dei 12 giorni ancora deve dissolversi, riecheggia persistente un interrogativo, ovvero se il momento post bellico possa definirsi quale reale opportunità politica, visto come il regime abbia risposto finora alle istanze sociali più basilari. Già prima della guerra, le pressioni politiche sono state molteplici, provenendo da rivendicazioni culturali e socio-economiche, immancabilmente trasformate in richieste di cambiamenti politici. Economicamente la popolazione ha dovuto patire anni di povertà, di inflazione, di disuguaglianza, con una sensibile crisi dei mezzi di sussistenza; il bellicismo avventurista del regime, all’estero, ha imposto costi elevatissimi privando la nazione di risorse che avrebbero potuto essere investite nel welfare. La guerra, di fatto, ha solo attutito le proteste e lo stato sta rendendo le conseguenze delle proteste, funzionali al rafforzamento del potere ed al contenimento delle fratture interne. Senza parlare del crollo del mito autocelebrativo della supremazia militare del regime. Ecco che si acuiscono le rivalità tra fazioni; poco tempo fa, un articolo del quotidiano statale Jomhuri Eslami ha criticato diverse figure interne al regime, svelando una perdita di coesione tra l’élite al potere. Ma la fonte di timore più grande rimane il popolo. Secondo Parvaneh Salahshouri, ex parlamentare, l’Iran è attualmente come un vulcano dormiente. Qualsiasi scossa, qualsiasi evento spiacevole, qualsiasi scintilla potrebbe portare a un’esplosione.
Ecco che il dopoguerra passa dall’essere un’opportunità per il regime ad una resa dei conti operata dal popolo.
1 L’autarchia, puntando all’autosufficienza ha portato ad un maggiore consumo agricolo di acque sotterranee. Pompare acque sotterranee a un ritmo più veloce del loro reintegro determina un aumento dei livelli di sale nel suolo, che influisce sulla sua fertilità.
2 A Isfahan, Khashan e Yazd, qualsiasi terreno sotto autostrade e aeroporti rischia di cedere.
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