Israele divide e impera: drusi in campo, Damasco in crisi
Nelle dinamiche geopolitiche, accanto all’assertività degli egemoni si impone all’attenzione la presenza di minoranze che, malgrado la loro relativa debolezza, caratterizzano i contesti entro cui si incastonano. Il Medio Oriente, sotto questo aspetto, malgrado posizione strategica e risorse, di fatto una iattura, si presenta quale regione tra le più travagliate: gli interessi rendono impossibile qualsiasi soluzione atta a prevenire o mitigare le crisi.
I drusi, con curdi, yazidi, e mandei rientrano in pieno in una casistica in cui il modello coloniale e postcoloniale impostosi dalla caduta dell’impero ottomano è quello proprio di soggetti politici per i quali l’appartenenza etnica o confessionale costituisce il passepartout necessario per l’apertura del portale di accesso al palazzo dei diritti.
Nel corso della storia sono stati perseguitati, dispersi, considerati sì eretici dall’ortodossia sunnita, ma con un’innata capacità di adattamento strategico alle contingenze; attualmente si trovano in Siria dove costituiscono il 3% della popolazione, Israele, Libano dove, da kingmaker, hanno combattuto contro un’altra minoranza, quella Maronita tra il 1975 ed il 1990, protagonisti di scontri propri di una realtà assurta a base di instabili punti di faglia settari.
In Siria, con l’avvento dell’alawita Assad, sembravano aver conquistato un’utile influenza politica, tuttavia affievolitasi nel tempo. La guerra civile del 2011 ha visto i drusi schierarsi su posizioni defilate, salvo poi essere costretti a subire l’avvento dei fondamentalisti di Isis, risoluti nel castigare la loro eresia. I 152.000 drusi-israeliani vivono principalmente sulle alture del Golan, occupate da Tel Aviv dopo le 130 ore della Guerra dei sei giorni,alture da dove, per esercizio geopolitico, Israele potrebbe estendersi ad oriente passando per il Corridoio di Davide1, per la drusa Suwayda, per il confine con Amman, per arrivare alla Mesopotamia della Giazira al confine con l’Iraq. L’interesse sta lì, nello studio delle ambizioni storiche di Israele in comparazione con gli sviluppi siriani ed in concorso con un realismo crudo ed onnipresente. Il Corridoio potrebbe dunque costituire sia un tentativo di estensione egemonica israeliana proiettata verso territori fisiologicamente instabili, sia di continuare a coltivare legami con minoranze regionali utili a compensare l’ostilità degli stati arabi.
Quella drusa è un’anima divisa in due: un’entità socio-politica con pervasività ed importanza inversamente proporzionali alla demografia; si tratta di una comunità chiusa, impermeabile, che non permette conversioni, tenuta su dalla malta di su coesioni profonde. In Israele, l’integrazione ha consentito a diversi drusi di raggiungere posizioni di rilievo nelle FA e in Polizia. La lealtà verso Tel Aviv crea inevitabili isteresi quando i drusi libano-siriani versano in situazioni di pericolo, cosa che ha spesso indotto i drusi israeliani ad esercitare pressioni sul governo per intervenire in difesa dei fratelli oltreconfine, pur nel costante timore di divenire strumenti inseriti in più ampi squilibri di potere. Il problema druso è sempre lo stesso: l’autonomia, obiettivo che ogni volta che appare a portata di mano si smaterializza diventando evanescente. In Siria, più lo stato si centralizza più le minoranze corrono il rischio di cruente eliminazioni.
Il settarismo però è come il fuoco, divampa facilmente; nel sud della Siria il casus è stato offerto dal presunto sequestro2 di un commerciante druso, capace di provocare violentissimi scontri tra milizie locali e beduini sunniti. La violenza, dopo i massacri di marzo della minoranza alawita a Latakia, dunque esplode di nuovo e colpisce e insanguina la comunità siriano-drusa.
Dalla caduta di Assad i drusi si sono resi impermeabili ai tentativi di imporre l’autorità centrale, alternando una cautela moderata a più decisi rifiuti fino a resistere all’integrazione nelle FA per affiliarsi alle milizie locali. Del resto, le FA governative sono accusate di aver partecipato ad esecuzioni sommarie; difficile fidarsi di Damasco. Non è un caso che, dopo la caduta di Assad, Israele si sia ulteriormente accostato alla comunità drusa confinaria al fine di stringere alleanze con le minoranze. Gli attacchi portati a Damasco dai velivoli con la Stella di Davide sono stati un avvertimento, mentre Gerusalemme incassa l’accusa di fomentare divisioni settarie per promuovere le proprie aspirazioni espansionistiche regionali.
Del resto Tel Aviv non può non temere la presenza di mujaheddin al limitare del suo confine settentrionale, lungo le alture del Golan. Proiettare gli attacchi da Suwayda a Damasco ha un significato che non può essere trascurato, posto che si tratta della più potente escalation dal dicembre 2024, inevitabile oggetto degli strali arabo-turco-iraniani. Mentre si evidenzia la fragilità securitaria e politica siriana, Israele continua a percepire le nuove autorità damascene come una minaccia esistenziale. Dal suo canto, il ministero degli Esteri di Damasco ha condannato gli attacchi israeliani poiché mirati a minare la stabilità nazionale.
Attualmente, Al-Sharaa non controlla più del 70% del territorio nazionale, aspetto che rende comprensibile come ad aprile siano esplose altre violenze settarie tra comunità drusa e forze governative, o come si sia giunti all’attacco alla chiesa di Mar Elias, che ha causato la morte di almeno 25 fedeli. Si tratta di paradossalità che evidenziano le difficoltà di un governo che mentre si dibatte tra enormi difficoltà, ha il tempo di indossare grisaglie e cravatte per prendere contatto con l’Occidente per assicurare un incerto possesso di capacità necessarie a garantire gli investimenti di cui la Siria necessita. Non c’è dubbio che Damasco sospetti che Israele punti a sfruttare i punti faglia interni per qualificarsi come forza di garanzia nei confronti delle minoranze, fiaccando gli sforzi volti ad assicurare il controllo del paese.
Il caos generato dalla situazione mediorientale è attribuibile alla competizione egemonica che vede impegnati Iran e Israele, quanto mai attento ad impiegare la leva della guerra per ampliare la zona smilitarizzata oltre il Golan, pur in presenza dell’attività diplomatica statunitense, votata a rassicurare al Sharaa.
Se esiste un momento più favorevole per ridefinire gli equilibri mediorientali, ponendo Tel Aviv al centro, è arrivato. Attenzione ai rischi però: mentre Israele mirava a eliminare le minacce, non solo si è alimentata una resistenza via via crescente, ma si è anche accorciata la strada che tanto potrebbe frammentare la Siria in enclave etniche o settarie quanto costringere al confronto lo Stato ebraico con la Turchia, destinataria di messaggi che intendono segnalare che Tel Aviv non tollererà limitazioni alla sua operatività, un impasse superabile laddove si considerasse che Damasco potrebbe diventare sede di accordi cooperativi anti Teheran. Il problema è che la maggiore vulnerabilità politica risiede nel fatto che la nuova leadership siriana è dominata da gruppi che giustificano le aggressioni in nome di ideologie religiose, cosa che porta a domandarsi se il governo di Ahmad Al Sharaa non punti di proposito ad un calcolo politico teso ad evitare attriti con i radicalismi insinuati nei gangli del suo apparato di potere.
Al di là del fatto che Israele abbia qualificato il governo siriano come espressione di jihadisti mal mascherati, i vari cessate il fuoco mascherano prospettive che rimangono incerte, dato che rivalità settarie, sfiducia verso l’autorità centrale e interferenze straniere sono ancora ben presenti, posto che i massacri alawiti pesano sulla credibilità di al Sharaa e che la protezione offerta da Israele copre un progetto che mira a disegnare una nuova architettura securitaria, unitamente ad un elevato livello di prontezza bellica.
Mentre il consesso internazionale si volge al dialogo con il nuovo esecutivo damasceno, Israele, ancora preda dell’indelebile trauma del 7 ottobre, ha preferito concentrarsi su unilateralità militari che al momento allontanano qualsiasi intento riconducibile agli Accordi di Abramo. Di fatto Damasco potrebbe puntare a stabilire patti di non aggressione aggiornando il complesso degli accordi di disimpegno del 19743, posto che tutto discenderebbe sia dalla normalizzazione dei rapporti israelo-sauditi, sia dalla percezione della spinosissima querelle del Golan, talmente recettiva da conferire o privare gli esecutivi del sostegno popolare da ambo le parti.
Quale sarebbe il ricavo generato da intese dirette tra Damasco e Tel Aviv? Per la Siria, un accordo potrebbe sia condurre al riconoscimento ufficiale del nuovo regime, sia auspicare un ritiro israeliano dal meridione del Paese, cosa che, però, determinerebbe forti incertezze correlate all’instabilità del regime damasceno, non così improbabile oggetto di crollo politico interno. Se Al-Sharaa cadesse, un Israele concessivo potrebbe ritrovarsi ad aver perduto importanti vantaggi militari, trovandosi ancor più esposto lungo il confine. Insomma, una normalizzazione è ancora di là da venire, benché dal 2023 non ci sia stata alcuna escalation al di fuori dal contesto regionale. Il confronto tra Teheran e Tel Aviv, pur stigmatizzato dal conclusivo intervento americano, non è proseguito con un intervento sino-russo a difesa dell’Iran, elemento che induce a ritenere che esista ancora una razionalità volta a sconfessare le più crude ipotesi parcellizzate di conflitti mondiali sparsi.
Regionalmente, per quanto già accennato, ecco che Tel Aviv si ripropone quale succedaneo securitario per le comunità residenti nelle zone contigue al Golan, tanto da inviare in territorio siriano il generale Ghassan Alian4, arabo e druso capace di esaltare l’elemento comunitario. Se da un lato Israele divide et impera proteggendo i drusi mentre bombarda Damasco, dall’altro evidenzia l’assenza di uno stato siriano in grado di proteggere la sua popolazione o, al limite, capace di raggiungere accordi con i curdi ad Aleppo per giungere poi a spartizioni territoriali fondate sulle appartenenze comunitarie. Di fatto, Tel Aviv esercita una pressione, militare e politica tra sunniti e drusi, finalizzata a disarmare il governo siriano, ed inseribile in un contesto più ampio che tocca le dinamiche libanesi relative a Hezbollah e Hamas.
1 Il Corridoio di Davide è riferito ad un’ipotesi atta a stabilire un corridoio terrestre esteso dal Golan attraverso la Siria meridionale fino al fiume Eufrate. Ipoteticamente il tracciato attraverserebbe i governatorati di Deraa, Suwayda, Al-Tanf, Deir Ezzor e l’area di confine tra Iraq e Siria di Albu Kamal, garantendo un canale strategico via terra nel cuore dell’Asia occidentale. Di fatto si estenderebbe dal Nilo egiziano all’Eufrate iracheno.
2 L’altra versione vuole che Le violenze siano cominciate dopo che in Siria sui social media era circolato un audio in cui una persona insultava il profeta Maometto. Era stato attribuito a un religioso druso, anche se non ci sono prove dell’autenticità dell’audio.
3 Pose fine ufficialmente alla Guerra del Kippur
4 Dirige l’ufficio di coordinamento delle attività nelle aree di Gaza e Cisgiordania
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