Italiani uccisi in Congo, il punto su indagini e auto blindata. Fusi (Gruppo Effe Srl): irrealistico portare nel Nord Kivu un’auto blindata da Kinshasa
Dopo l’attacco che il 22 febbraio ha portato all’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista congolese Mustafà Milambo, molti osservatori hanno evidenziato le gravi carenze nella protezione del nostro ambasciatore che si muoveva in una zona ad alto rischio privo di una vera scorta e su un veicolo non blindato.
Per approfondire il tema Analisi Difesa ha incontrato Emanuele Fusi, esperto di sicurezza e responsabile commerciale della Gruppo Effe Srl di Barlassina, in provincia di Monza e Brianza. Si tratta dell’azienda che lo scorso gennaio ha vinto la gara d’appalto indetta dall’ambasciata italiana di Kinshasa per la fornitura di una nuova auto blindata.
“Anzitutto va ricordato che la responsabilità della protezione dell’ambasciatore in quella zona spettava all’ONU e che, comunque, l’ambasciata italiana già disponeva di due auto blindate” – dichiara Fusi. “Ma Attanasio non avrebbe potuto realisticamente utilizzarle per arrivare fino alla provincia del Nord Kivu. Rendiamoci conto della realtà del Congo. Il Nord Kivu dista dalla capitale Kinshasa circa 2.500 chilometri, da percorrersi via terra su strade che, come spesso in Africa, possono essere accidentate. Attanasio è dunque giunto in aereo in quella provincia e lì si è affidato agli enti che gli hanno messo a disposizione due veicoli i quali non solo non avevano protezioni balistiche, ma non erano nemmeno dotati di semplici finestrini oscurati, espediente che almeno avrebbe potuto confondere gli assalitori impedendo loro di capire quale dei due mezzi ospitasse il diplomatico.
Per quanto riguarda la nostra auto blindata, dalla data dell’8 gennaio 2021 in cui la Gruppo Effe Srl si è aggiudicata la gara d’appalto, mancava ancora la firma definitiva del contratto. Firma che, comprensibilmente, con il dramma che è successo nei giorni scorsi, non è ancora stata effettuata, dato che l’ambasciata italiana in Congo ha dovuto affrontare questo drammatico evento. Da quando sarà apposta la firma, la consegna effettiva del veicolo si avrà, come regola, entro i 180 giorni seguenti”.
Quindi la ricostruzione secondo cui mancava poco tempo alla consegna di un’auto blindata che avrebbe potuto salvare l’ambasciatore appare semplicistica. Ma cosa ci può dire sul tipo di veicolo blindato che è stato giudicato adatto alle esigenze dell’ambasciata?
“Come la stampa ha già sottolineato, un requisito fondamentale era una protezione di classe VR6, che garantisce contro le raffiche di fucile d’assalto AK-47 Kalashnikov, sul presupposto che è l’arma più diffusa in quella regione. E’ bene premettere che la maggior parte delle auto blindate destinate al mercato africano vengono realizzate a Dubai e poi esportate in quel continente.
Ma si tratta di prodotti che, sebbene sotto il profilo della protezione possano garantire il livello VR6, sono tuttavia carenti sotto vari altri aspetti. Banalmente, hanno magari i finestrini con vetri fissi. La forza del nostro progetto sta in soluzioni particolari, che non posso rivelare nei loro dettagli tecnici, per fornire una identica protezione balistica senza sacrificare comfort, praticità e mobilità.
Un prodotto come il nostro è di un livello non comune al mondo. In Africa non hanno mai visto mezzi come i nostri. L’ambasciata peraltro ha stabilito nella gara d’appalto proporzioni di punteggio ripartite fra un 60% in favore della sicurezza e un 40% sotto l’aspetto del costo. In sostanza si ricercava, sì, il miglior compromesso qualità/prezzo, ma sempre con una precedenza alla qualità, quindi alla sicurezza. Confermo comunque che il prezzo, come indicato dagli stessi documenti divulgati dall’ambasciata, è di circa 200.000 euro”.
Di che tipo di veicolo si tratta?
“Per essere precisi, la è un automezzo Toyota Land Cruiser LC 200. La nostra azienda opera acquisendo i veicoli che fanno da base ai blindati finali, smontandoli nelle loro più piccole componenti e poi ricostruendoli con l’aggiunta delle parti blindate. In genere, per modelli diffusi come quelli Toyota, su cui abbiamo già esperienza, non impieghiamo troppo tempo per tutta la procedura di smontaggio e ricostruzione.
Ci vuole molto di più quando affrontiamo per la prima volta un modello per cui dobbiamo ex-novo progettare e calibrare ogni singola parte blindata, calcolando esattamente la distribuzione dei pesi, la cinematica, l’integrazione dei volumi, eccetera. Per blindare un veicolo del tutto nuovo, ci vogliono sicuramente più di tre mesi, ogni lastra blindata va progettata al computer e adattata minuziosamente nei volumi esistenti. Anche perchè, di regola, un’auto blindata non deve far trasparire all’esterno il fatto di esserlo. In parole povere, chi attacca non deve sapere in anticipo che l’auto è blindata.
La Toyota LC200 destinata all’ambasciata di Kinshasa è in versione tropicalizzata e, oltre alla mera protezione, è completa di tutta una serie di accorgimenti di sicurezza e praticità, che non sto a rivelare, studiati nello specifico per il clima e l’ambiente dell’Africa. In generale, alla Gruppo Effe Srl ci è capitato di blindare a richiesta dei clienti i tipi di automobile più disparati. Una volta, ricordo, perfino una piccola utilitaria Smart”.
Quali sono, nel blindare veicoli di origine civile, i maggiori problemi tecnici da superare?
“Partirei dalle portiere e dai finestrini, che generano particolari difficoltà. Da un lato, si immagini come sia arduo inserire nel volume di una portiera un vetro speciale, magari dello spessore di diversi centimetri, che deve essere anche mobile, per cui bisogna posizionare i meccanismi per alzarne e abbassarne il peso. La portiera, poi, risulta a maggior ragione ulteriormente appesantita, fra lastre e vetro. Essa deve essere perfettamente equilibrata perchè le persone possano aprirla e chiuderla a mano con la stessa facilità che in un’auto normale.
Ebbene, coi sistemi della nostra azienda, riusciamo a realizzare portiere blindate che praticamente sono a peso zero, nel senso della maneggevolezza.
Riguardo ai materiali, usiamo sia acciai balistici, sia compositi di derivazione aeronautica. I compositi, in particolare, tendiamo a utilizzarli più per le parti alte della vettura, ad esempio il tetto, che per quelle basse.
Ciò per motivi di peso, essendo i compositi più leggeri dell’acciaio. Coi compositi nella parte alta, infatti, c’è meno peso in alto e il baricentro dell’auto blindata si mantiene in posizione più bassa. In tal modo, evidentemente, si evitano i rischi di ribaltamento del mezzo in curve ad alta velocità, oppure in corrispondenza di forti pendenze”.
Fino a che livello di protezione è possibile blindare automezzi di origine commerciale? In che misura, eventualmente, vi ispirate a soluzioni tecniche come quelle adottate nei blindati militari?
Un’auto blindata, intesa come “auto” a uso di funzionari civili o VIP, è ben diversa da un’auto blindata militare come può essere il Lince, la protezione balistica deve essere maggiormente bilanciata con altre caratteristiche. Per esempio, la protezione di grado VR6 è stata giudicata adatta per il nuovo mezzo che consegneremo all’ambasciata di Kinshasa, sulla base delle minacce più probabili in quello scacchiere.
Su richiesta avremmo anche potuto blindarla a un livello VR9, ma all’aumentare del peso possono sorgere inconvenienti di altro tipo. Un’auto blindata troppo pesante può diventare pericolosa per gli stessi occupanti nel malaugurato caso di un incidente stradale. Pensiamo alla difficoltà di uscire da un veicolo del genere cappottato o rovesciato su un fianco, oppure a soccorritori che non riescano ad accedere all’interno del mezzo per estrarre persone ferite. Ecco perchè ogni aumento di peso va comunque ponderato in base alla situazione”.
Circa le inchieste in corso in Italia e Congo, già il 26 febbraio, l’affranta vedova dell’ambasciatore Attanasio, Zakia Seddiki, aveva espresso dichiarazioni che accreditano diffusi sospetti: “Qualcuno che conosceva i suoi spostamenti ha parlato, lo ha venduto e lo ha tradito. Mentre io ho perso l’amore della mia vita”.
Nel complesso pare attendibile, come matrice del misfatto, un quadro di corruzione endemica intrecciata alla labilità della tenuta statale del Congo e alle intrusioni dei paesi vicini per accaparrarsi le risorse minerarie.
Pochi giorni dopo l’uccisione di Attanasio, il governo congolese ha incaricato un investigatore militare, il maggiore William Mwilanya Asani, revisore dei conti presso la Procura militare di Rutshuru, affinchè facesse luce sull’accaduto.
Si è trattenuto a Goma per circa una settimana, poi, il 4 marzo, Asani si è mosso dalla città sulla medesima strada RN2 che vide l’agguato agli italiani. Asani viaggiava verso Kaunga su un convoglio di automezzi la cui scorta era costituita da fanteria del 3409° Reggimento dell’esercito congolese, al comando del colonnello Polydor Lumbu.
A un certo punto, presso il villaggio di Katale, uomini armati hanno attaccato il convoglio, uccidendo il procuratore Asani e ferendo il colonnello Lumbu. Inizialmente si è data la colpa a ribelli ruandesi Hutu dell’FDLR, che battono la regione da anni, ma poi è stato detto che i responsabili sarebbero altri soldati “regolari” del Congo, inquadrati nel 3416° Reggimento, un reparto, per così dire, “rivale” di quello di Lumbu nello spadroneggiare nella zona. Pista emersa perchè uno degli assalitori morti nella sparatoria, da documenti trovatigli addosso, risultava essere tal sergente Okito Longonga, in servizio appunto nel 3416° Reggimento.
Poco dopo, il 7 marzo le ben informate fonti dei missionari Comboniani, da decenni in prima linea nell’aiutare le popolazioni locali, hanno sostenuto che i mandanti dell’imboscata ad Attanasio sarebbero miliziani legati al governo del Ruanda.
E’ stato lo stesso direttore della rivista comboniana “Nigrizia”, padre Filippo Ivardi Ganapini, a spiegare che “fonti ruandesi, verificate nel dettaglio e confermate da diversi congolesi contattati” indicano il mandante il responsabile della morte di Attanasio, Iacovacci e Milambo in un “signore della guerra ruandese, il colonnello Jean Claude Rusimbi, indagato dalla corte internazionale per crimini contro l’umanità”, nonché “uno dei responsabili dell’intelligence ruandese nel Nord Kivu”. Secondo padre Ganapini e le sue fonti, Rusimbi e i suoi miliziani sarebbero la longa manus del governo del vicino Ruanda per accaparrarsi le risorse congolesi.
Non dunque l’FDLR dei ribelli Hutu fuoriusciti dal Ruanda dopo aver causato il genocidio del 1994, bensì altri ruandesi, stavolta a prevalenza etnica Tutsi, affiliati al Fronte patriottico RPF che da oltre vent’anni, dal 2000, esprime a Kigali la longeva presidenza di Paul Kagame. Per i missionari, il colonnello Rusimbi avrebbe mandato una piccola squadra comandata da un certo “luogotenente Didier” a tendere l’agguato ad Attanasio per “zittirlo”, poiché il diplomatico italiano sapeva delle uccisioni di massa di civili perpetrate dalle milizie nella zona.
Didier sarebbe arrivato il giorno precedente all’agguato, il 21 febbraio, sul luogo insieme a quattro suoi uomini, predisponendo l’azione. Il piano prevedeva di uccidere Attanasio e di ritornare poi in Ruanda, a Rubavu, per riferire ai propri superiori. In tal caso, emerge una contraddizione con la pista del fallito rapimento, forse a scopo di riscatto, dedotta dal fatto che Attanasio e Iacovacci non sono stati subito assassinati, ma portati via e uccisi dai rapitori alcuni chilometri più in là, sotto il pressante inseguimento dei regolari congolesi. Ma si sa che anche quella sparatoria è poco chiara.
Conclude padre Ganapini: “Minerali in cambio di Kalashnikov: chi vive nella zona lo sa bene come funziona. Più regna il caos e meglio si ruba. Sono quasi 90 le multinazionali coinvolte nell’estrazione di cobalto, coltan, oro, diamanti, stagno, gas. E innumerevoli sono i siti informali dove scavano con le mani tantissimi minori. C’è anche petrolio da estrarre proprio in quel parco del Virunga, noto per gli ultimi esemplari di gorilla da montagna, in cui i ranger sono corsi in difesa di Attanasio dopo aver sentito gli spari”. Il mosaico resta caotico, ma l’uccisione dell’inquirente congolese Asani da parte di elementi “deviati” dello stesso esercito di Kinshasa, lascia intuire complicità locali, per denaro, fra questi e gli infiltrati ruandesi.
Per quanto concerne le indagini italiane, testimoni ascoltati dai Ros su delega del procuratore di Roma Michele Prestipino e dei due pm titolari delle indagini, Sergio Colaiocco e Alberto Pioletti, hanno riferito che i due italiani sono stati uccisi nel corso di un intenso conflitto a fuoco dal gruppo che voleva sequestrarli lo scorso 22 febbraio nella Repubblica Democratica del Congo.
Tra le persone ascoltate, durante la missione di 5 giorni dei carabinieri del Ros sul posto, anche Rocco Leone, vice direttore del Pam in Congo, sopravvissuto all’agguato. La sua testimonianza, nell’ambito della collaborazione con Pam e Onu, è stata raccolta nell’ambasciata di Kinshasa. Le versioni dei testimoni avvalorano la ricostruzione secondo cui i due italiani sono morti non in un’esecuzione ma colpiti dagli assalitori mentre il carabiniere tentava di portare l’ambasciatore fuori dalla linea di fuoco tra i sequestratori e i ranger, intervenuti immediatamente.
Per quanto riguarda il gruppo di assalitori, gli inquirenti italiani vogliono fare luce sulla matrice dell’agguato e sul motivo del sequestro che era stato organizzato. Anche a questo fine, si sta valutando di inviare a Goma una terza missione dei Ros per acquisire elementi sulla dinamica dei fatti e fare i necessari accertamenti balistici. I pm di Roma hanno inviato una rogatoria in Congo con cui si chiede di trasmettere gli atti delle indagini svolte finora dalle autorità congolesi.
La Procura di Roma indaga anche per omicidio colposo, oltre che per tentato sequestro con finalità di terrorismo. La nuova ipotesi di reato è legata alla necessità di condurre accertamenti che possano appurare eventuali negligenze sul rispetto dei protocolli di sicurezza Onu e Pam nell’organizzazione della missione dell’ambasciatore italiano nella zona del Parco di Virunga. Gli inquirenti vogliono verificare in particolare se ci siano state falle nella comunicazione tra le due strutture nell’ambito delle norme che regolano le attività delle security.
Elementi utili potrebbero arrivare dalle analisi condotte sul tablet dell’ambasciatore trovato sul fuoristrada su cui si trovava Attanasio e gli inquirenti nei giorni scorsi hanno anche sentito la moglie del diplomatico. Proprio in merito all’organizzazione della missione a Goma, i carabinieri del Ros, inoltre, hanno ascoltato il personale dell’ambasciata italiana.