Jean Raspail: Il campo dei santi
Jean Raspail
Ed. Panorama, Milano 2025
pagg. 384
Pubblicato per la prima volta nel 1973, questo di Jean Raspail, scrittore francese (5 luglio 1925 -13 giugno 2020), è un romanzo profetico perché, scorrendo le sue pagine, ci si rende conto che cinquant’anni fa – come sostiene Francesco Borgonovo nell’introduzione, definendolo come “il primo romanzo sull’immigrazione di massa e sulla disintegrazione dell’Occidente”– egli “descriveva perfettamente quel che accade ancora oggi in Italia e in Europa: i barconi carichi di disperati che arrivano sulle coste del Sud, le persone che sbarcano a migliaia, quando non restano sul fondo del mare, morte. E ancora l’esplodere delle tensioni sociali e religiose, la reazione ipocrita di politici e commentatori.”
Sullo sfondo, come scrive Maurizio Belpietro nella presentazione, un meccanismo rodato, anch’esso previsto dall’autore: “I migranti […] sono usati per fare propaganda e accusare di razzismo chi vuole respingerli. Ma delle loro reali condizioni, e dei disastri che l’immigrazione di massa produce, sono ben pochi a interessarsi. Che sarebbe finita così Jean Raspail lo aveva capito decenni fa.” È inutile sottolineare che, alla sua uscita, il libro fu criticato pesantemente da una certa parte politica oppure fu totalmente ignorato per provocarne la scomparsa dagli scaffali delle librerie.
La storia narrata è più attuale che mai e parte dall’arrivo, nel Sud della Francia, di un milione di migranti trasportati da cento navi, “un’incredibile flotta arrugginita arrivata dall’altra faccia della terra,” partite dall’India e arenatesi a cinquanta metri dalla riva. Un arrivo che provocò un esodo della popolazione del Mezzogiorno francese. “I ricchi, i leader, le elites, i militanti privilegiati del terzo mondo integrato” che, durante i cinquanta giorni di durata della traversata, colti da una specie di delirio, “avevano intensificato i comunicati, le conferenze stampa, le interviste, i dibattiti, le riunioni,” all’arrivo della flotta “avevano chiuso le loro finestre, barricato le loro porte, abbassato le cortine delle camere e degli uffici.”
L’uomo occidentale, appresa la notizia dell’esistenza di questa flotta, non avvertì subito la minaccia e pensò, invece, che si sarebbe potuto godere un bel teleromanzo. “Ma immaginiamoci un risveglio brutale. […] Il teleromanzo di colpo frantuma lo schermo che si sbriciola con il botto dentro il piatto della bistecca e delle patatine fritte e appaiono i suoi personaggi che irrompono in massa nel soggiorno, gli stessi che pochi secondi prima stavano nell’acquario a divertirlo. Ora però non recitano più, hanno fatto a pezzi il vetro protettivo e sono armati di miserie, di piaghe, di rivendicazioni, di odio e di mitragliatrici. Attraversano l’appartamento saccheggiato, distruggono la sonnacchiosa armonia, lasciano di stucco le famiglie in fase di digestione e s’espandono in tutta la città, in tutto il Paese, sul mondo intero. Le fotografie hanno preso vita, il problema si è improvvisamente materializzato e ora è in giro a scorrazzare.”
Ma l’uomo occidentale non si preoccupò più di tanto. “Ascoltava pacificamente i campanelli che agitavano i suoi maitres à penser. E che concerto! Che talento! Solamente roba classica, cresciuta nelle più solide tradizioni della grande musica umanitaria.” I temi principali trattati dalla stampa furono “il paradiso occidentale, l’armada dell’ultima chance e il contributo della civilizzazione del Gange al completamento dell’uomo.” E quando si trattò di rifornire l’armada, ci fu “una corsa ai primi posti! Un bocconcino prelibato di buoni sentimenti. Un’enorme torta d’altruismo. Un capolavoro di pasticceria umanitaria, infarcito di antirazzismo alla crema, ricoperto di un velo di zucchero egualitarista, guarnito di rimorsi alla vaniglia, con questa graziosa iscrizione decorata da ghirlande di caramello: mea culpa! Un dolce particolarmente nauseante. Tutti vollero essere i primi ad assaggiarlo. […] Esserci era fondamentale ed esibirsi importantissimo, poi evidentemente bisognava farlo sapere in giro.” Ma, anche di fronte alla reazione ostile della flotta del Gange, ci si rifiutò di vedere una verità che saltava agli occhi – occhi, però, offuscati dall’ideologia – pensando a un malinteso che aveva rimandato la fraternizzazione. Nel frattempo, l’ONU aveva approvato un documento che dichiarava l’abolizione delle razze.
L’ipocrisia collettiva – che si manifestò anche tramite persone che recitavano, come slogan, siamo tutti uomini del Gange! – arrivò a coinvolgere una scuola materna dove i bambini fecero uno sciopero dei giochi “per solidarietà coi bambini del Gange che hanno perso la voglia di giocare.” Provare a fermarli militarmente?“Le nazioni d’Occidente credono di possedere degli eserciti potenti ma in realtà non li hanno. Sono anni che, con tutti i mezzi, si inducono i nostri popoli a vergognarsi dei propri eserciti.” I cittadini del sud della Francia, quindi, corsero ai ripari, abbandonando le loro città. “Sommersi dall’esodo, i prefetti hanno lanciato un appello alla solidarietà dei loro amministrati. Accogliere a parole gli immigrati del Gange andava benissimo, ma accogliere veramente quelli che scappano da loro non era certamente stato messo in preventivo.” D’altronde, oramai, si era raggiunta la consapevolezza, da parte dei cittadini, che “i topi non molleranno il formaggio “Occidente” se non dopo averlo divorato tutto intero e siccome è un pezzo enorme, non finiranno domani.” Durante lo sbarco “i battelli si vuotavano come una vasca che debordasse. Il terzo mondo sgocciolava e l’Occidente gli faceva da fognatura.”
E “la conclusione più strana che si potè trarre […] è che mai la moltitudine sembrò prendere coscienza che questo paese dov’era sbarcata potesse appartenere ad altri.”
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