La Golden Fleet e le navi dell’ego: quando la strategia rischia di diventare autocelebrazione
L’annuncio della nuova Golden Fleet e della costruzione di una nuova classe di navi da battaglia da parte della U.S. Navy non può essere letto solo come un programma navale. È, prima di tutto, un fatto politico-industriale. E come tale va analizzato senza indulgenze, perché il rischio non è tecnologico, ma culturale e strategico.
Al centro della questione non vi è la nave in sé, né la legittima ambizione statunitense di riaffermare la propria supremazia marittima. La critica va rivolta allo smisurato ego del presidente, colto e valorizzato da un’industria che ha dimostrato di saper trasformare la simbologia personale in opportunità finanziaria.
Il protagonista politico è – nuovamente – Donald Trump, figura che ha sempre attribuito un valore centrale ai nomi, ai numeri, alla dimensione iconica del potere.
L’industria lo ha compreso perfettamente. Boeing, con il programma F-47, ha già dimostrato quanto possa essere redditizio allineare una piattaforma militare alla narrazione personale del “47° presidente”. Un’operazione che ha portato fondi, visibilità e consenso politico, prima ancora di produrre capacità operative.
La domanda oggi è se lo stesso schema si stia riproducendo in ambito navale.

Potenza marittima o oggetto simbolico
La nuova unità annunciata dall’amministrazione Trump è concepita come grande nave di superficie da circa 30.000–40.000 tonnellate, con l’obiettivo di concentrare in un’unica piattaforma capacità multiple. La prima, USS Defiant (BBG-1), dovrebbe entrare in costruzione all’inizio degli anni Trenta, all’interno di un programma che ambisce a realizzare fino a 20–25 navi, assorbendo e superando i concetti previsti per il futuro cacciatorpediniere DDG(X).
Una grande unità di superficie, fortemente armata, con capacità di comando, difesa aerea stratificata, integrazione di missili a lungo raggio e funzioni di deterrenza può avere una sua utilità. Nessuno lo nega. Ma la validità operativa dipende da una condizione essenziale: che il concetto operativo preceda il nome, non il contrario.
La guerra navale del XXI secolo non premierà l’iconografia. Premierà reti distribuite, resilienza, ridondanza, capacità di assorbire perdite, logistica robusta e produzione seriale. In questo contesto, il ritorno a grandi unità simboliche rischia persino di risultare anacronistico, se non sostenuto da una dottrina rigorosa e da un’integrazione reale con il resto della flotta.

L’industria fa il suo mestiere. Il problema è a monte
L’industria fa ciò che è razionale fare: intercetta il decisore politico, ne comprende le ossessioni, le traduce in programmi finanziabili. È accaduto nel dominio aereo, può accadere in quello navale.
Il rischio, però, è strategico:
- risorse sottratte a settori critici come munizionamento, scorte, cantieristica seriale e logistica;
- una flotta sbilanciata verso poche unità ad alta visibilità;
- una concezione della potenza militare sempre più personalistica, sempre meno sistemica.
La Golden Fleet viene presentata come rilancio industriale e operativo. Ma una flotta “dorata” non è automaticamente una flotta migliore. Si “indora” una pillola (o una supposta…)?

Precedenti storici
La storia militare offre numerosi precedenti di sistemi d’arma nati più per rappresentare il potere politico che per rispondere a una visione strategica coerente.
La corazzata Bismarck, simbolo della potenza del Reich, fu neutralizzata dopo una sola missione, diventando un bersaglio prioritario proprio per il suo valore iconico.
Le gigantesche Yamato (foto seguente) incarnarono l’illusione giapponese del duello navale decisivo, ma furono affondate dall’aviazione senza mai esprimere il ruolo per cui erano state concepite.
In ambito sovietico, gli incrociatori classe Kirov rappresentarono strumenti di prestigio strategico più che asset realmente integrabili, rivelandosi costosi e difficili da sostenere nel lungo periodo.
Anche l’Italia fascista seguì una logica simile: le corazzate classe Littorio furono tecnicamente valide ma concepite come emblemi di grandezza, prive però di un contesto operativo adeguato, mentre la portaerei Aquila arrivò troppo tardi, sacrificata per anni alla retorica della “portaerei naturale”.
In tutti questi casi, la ricerca di autocelebrazione produsse piattaforme imponenti ma concettualmente fragili, confermando che quando la politica precede la strategia, la tecnologia rischia di trasformarsi in monumento più che in strumento operativo.

La vera domanda per la U.S. Navy
La questione, quindi, non è se la U.S. Navy porterà a casa navi tecnicamente valide. È se porterà a casa navi pensate per i comandanti che dovranno usarle, o piattaforme pensate per celebrare una presidenza.
Se il criterio guida non sarà l’efficacia in uno scenario di guerra ad alta intensità, ma la capacità di rappresentare potenza, grandezza e continuità simbolica, allora il rischio è evidente: trasformare uno strumento dello Stato in un ennesimo e patetico specchio dell’ego.
Immagini: U.S. Navy
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