La lezione da apprendere dallo scontro Israelo Palestinese
Il 7 ottobre 2023 ha segnato una delle giornate più drammatiche della storia recente di Israele. L’attacco lanciato da Hamas dal cuore della Striscia di Gaza ha colpito in profondità non solo obiettivi militari, ma anche civili, generando un trauma collettivo e costringendo il governo israeliano a una risposta immediata.

Da quel momento, la narrativa ufficiale di Tel Aviv si è concentrata su un obiettivo prioritario: smantellare completamente l’organizzazione islamista. La liberazione degli ostaggi – sebbene centrale sul piano umanitario e politico – è apparsa sin dall’inizio come un obiettivo subordinato, sacrificabile rispetto alla distruzione delle capacità militari e amministrative di Hamas. Una scelta discutibile, che ha innescato non poche polemiche all’interno sia della comunità internazionale che della società civile Israeliana: quale scopo si è perseguito con l’azione militare? Annullare la forza militare di Hamas o assecondare l’estrema destra di governo nelle proprie mire espansionistiche territoriali?
Colpevole o negligente che sia stato il governo israeliano nel non prevenire quell’attacco, come è stato riportato dal documento pubblicato dal New York Times 40 pagine arrivate sul tavolo dell’intelligence Israeliana ben un anno prima dell’evento e che le autorità israeliane chiamarono in codice “Muro di Gerico”, documento che descriveva, punto per punto, esattamente il tipo di devastante invasione che ha portato alla morte di circa 1.200 persone. Come se non bastasse tre mesi prima degli attacchi, un analista veterano dell’Unità 8200, l’agenzia israeliana di intelligence, avvertì che Hamas aveva condotto un’intensa esercitazione di addestramento di un giorno che sembrava simile a quanto delineato nel piano.
Ma un colonnello della divisione di Gaza respinse le sue preoccupazioni, secondo le e-mail crittografate visualizzate dal Nyt. “Nego assolutamente che lo scenario sia immaginario”, replicò l’analista negli scambi di posta elettronica. L’esercizio di addestramento di Hamas, osservò, corrispondeva pienamente “al contenuto del piano Muro di Gerico”. “È un piano progettato per iniziare una guerra, non è solo un’incursione in un villaggio”, fù l’ammonimento dell’analista. Ma gli indizi che portano a pensare che qualcuno possa aver atteso un casus belli eclatante che potesse consentire di raggiungere gli obiettivi territoriali previsti nei programmi dei partiti estremisti attualmente al governo, non si fermano qui Shalom Sheetrit, combattente della Brigata Golani in un intervista rilasciata all’emittente nazionalista di destra Israel National News – Channel 7, ha raccontato di uno “strano ordine” trasmessogli dal suo comandante, che a sua volta dichiara di averlo ricevuto dai suoi superiori, in cui si imponeva di fermare le pattuglie nella zona della recinzione di confine con la Striscia di Gaza dalle 5:20 alle 9 del 7 ottobre 2023.
Quello che accadde il 7 ottobre è tristemente noto, la ferocia di Hamas dilagò senza alcuna pietà, uccidendo a sangue freddo innocenti, catturando ostaggi e segnando di fatto un cambio radicale nella politica Israeliana. Gli interrogativi e le zone grigie di questa vicenda appaiono ancor più paradossali se confrontate con le attività poste in essere da parte di Israele nei confronti dell’Iran, successivamente coinvolto nel conflitto, in questo caso l’intelligence Israeliana è apparsa efficiente e all’altezza della propria proverbiale fama, riuscendo a colpire con chirurgica precisione obiettivi mirati. Ma nella vicenda del 7 ottobre nulla sembrerebbe aver funzionato, calcolo machiavellico? Sottovalutazione? Quanto successo il 7 ottobre con tutte le sue ombre ha cambiato i connotati di una regione che sembrava destinata, dopo gli accordi di Abramo a diverso epilogo.Offrendo al Governo Netanyahu in piena difficoltà dopo le proteste dei riservisti e quelle della società civile per le contestate riforme della giustizia un’occasione perfetta per giustificare una strategia militare che, secondo molti analisti, era già in cantiere, e che di sicuro era presente nei programmi elettorali di quelle frange estremiste che in quei mesi tenevano in ostaggio il governo Netanyahu.
Ad oggi, 148 ostaggi sono stati liberati vivi (105 durante la tregua 2023, 5 rilasciati unilateralmente, 8 con operazioni israeliane e 30 nella tregua 2025). 75 sono stati confermati morti o dati per deceduti. Restano 50 in cattività, di cui 27 si ritiene già deceduti.
L’argomento militare per l’occupazione
Sul piano strettamente operativo, l’idea di un’occupazione totale di Gaza e della Cisgiordania trova una sua logica interna direttamente correlata alle politiche portate avanti fino dagli anni 70/80 da Israele che avevano come obiettivo quello di delegittimare ed indebolire le fazioni laiche come l’OLP, furono infatti numerose le iniziative volte a sostenere sia dal punto di vista organizzativo che finanziario gruppi Islamici come Mujama al-Islamiya, precursore di Hamas, che successivamente ha contribuito ad isolare operativamente e politicamente l’autorità nazionale Palestinese delegittimandola agli occhi del proprio popolo. Hamas non è soltanto un gruppo armato: è un sistema radicato nel tessuto urbano e sociale, con un’infrastruttura, e una logistica, che comprende una vasta rete di tunnel, depositi di armi, officine per la produzione di razzi, centri di comando e un apparato amministrativo che fornisce servizi di base alla popolazione. Una popolazione stremata come raccontano le cronache, ridotta alla fame, segnata da lutti e privazioni, che certamente avrebbe difficoltà a riconoscere come amica la divisa israeliana, qualora le intenzioni del Governo Israeliano fossero unicamente quelle della neutralizzazione di Hamas.
Questi terribili mesi hanno fatto emergere un Israele poco conosciuta in occidente, lasciando spazio ad un Israele che sta progressivamente allontanandosi da molti tratti fondamentali di una democrazia liberale “occidentale” di matrice illuminista (separazione delle poteri, primato del diritto, tutela eguale dei diritti individuali e delle minoranze), soprattutto per effetto di politiche di nazionalizzazione etnica, spinte di forze politiche religiose-nazionaliste e dell’espansione dei coloni. Tuttavia non è (ancora) un regime teocratico pienamente consolidato: mantiene elezioni competitive, una società civile vivace e istituzioni che resistono.
Questa valutazione è frutto di una semplice analisi.
Cosa intendiamo per “democrazia illuminista”?
Per farlo ci basta usare alcuni criteri classici:
- Stato di diritto e indipendenza giudiziaria;
- Tutela universale dei diritti civili e delle minoranze;
- Separazione dei poteri e controlli istituzionali;
- Neutralità laica dello Stato rispetto alle leggi religiose;
- Pluralismo politico e libertà di associazione/manifestazione.
Le evidenze che mostrano un’erosione di questi criteri, sono molteplici
Partendo dagli attacchi ai controlli e all’indipendenza giudiziaria. Negli ultimi anni ci sono state proposte e tentativi di riforma giudiziaria che mirano a ridurre il ruolo del sistema giudiziario come controllo sul potere esecutivo (limitando la valutazione di “ragionevolezza”, cambiando la composizione delle nomine): osservatori e studi accademici hanno definito queste mosse potenzialmente destabilizzanti per i contrappesi democratici.
Norme di nazionalizzazione e discriminazione istituzionale. La Legge fondamentale sullo «stato-nazione del popolo ebraico» (2018) e altre politiche sono state criticate perché formalizzano la priorità nazionale e mettono in secondo piano l’eguaglianza civile delle minoranze, cambiando il rapporto Stato-cittadino verso una base etno-nazionalista.
Espansione delle colonie e approvazioni governative recenti. Il governo ha continuato ad approvare nuovi insediamenti e legalizzare avamposti in Cisgiordania nonostante le condanne internazionali; decisioni recenti (es. autorizzazioni del 2025) indicano una politica attiva di ingrandimento del controllo territoriale. Questo alimenta un sistema in cui diritti politici e civili dei Palestinesi rimangono subordinati e ineguali.
Crescita della violenza dei coloni e impunità percepita. Organizzazioni internazionali e think-tank hanno documentato un’impennata di violenza dei coloni contro i palestinesi e una percezione diffusa di scarsa responsabilizzazione statale, trasformando gruppi di coloni in attori non statali violenti che operano con tolleranza o sostegno implicito.
Abusi e limiti ai diritti umani in contesti di sicurezza. Rapporti internazionali documentano detenzioni amministrative, condizioni carcerarie e restrizioni che colpiscono gravemente i diritti dei Palestinesi; in tempo di guerra emergono politiche che erodono ulteriormente garanzie fondamentali.
Queste tendenze insieme mostrano che, sul piano pratico, lo Stato esercita con sempre maggiore forza prerogative che privilegiano un’identità nazionale e una maggioranza etnica, a scapito di pluralismo, laicità e tutela universale dei diritti.
Alcune politiche punitive e dichiarazioni di leader nazionalisti mostrano atteggiamenti ritorsivi e collettivi (vedi politiche detentive, limitazioni e risposte militari dure) inoltre la religione soprattutto nei partiti che sostengono l’attuale maggioranza viene utilizzata come fonte di legittimazione politica: forze politiche di ispirazione religiosa usano valori religiosi per giustificare espansione territoriale e trattamenti differenziati, riducendo la sfera della laicità. Questo sposta il baricentro politico verso un ethos meno illuminista ed “Occidentale”
Ma attenzione: non è un passaggio univoco verso una teocrazia formale — è piuttosto l’uso politico della religione come ideologia nazionale che erode principi laici.
E in un simile contesto rimane difficile ipotizzare “soluzioni” vicine a principi di diritto e può risultare più probabile il ricorso a soluzioni più drastiche ed in linea con le affermazioni di molti leader dei partiti estremisti dell’attuale maggioranza.
La visione nazional-religiosa e il progetto territoriale
«E poi Davide tolse la testa a Golia dalle spalle e allontanò l’umiliazione da Israele. Allontaniamo gli arabi da Israele e portiamo la redenzione. Loro devono andare».
Queste furono le parole scritte nel saggio intitolato “Loro devono andare” dal rabbino Meir Kahane negli anni 80, e sulle sue teorie, prima fra tutte quella di far “trasferire l’intero popolo palestinese dal Giordano al mare per consentire la creazione di uno Stato ebraico che si fonda la politica del governo Israeliano degli ultimi 3 anni.Gli stessi ministri del governo di Benjamin Netanyahu non hanno mai fatto mistero delle loro intenzioni, ovvero conquistare Gaza ed annettere la Cisgiordania. Con questo programma nel 2022 sono stati vinti i 14 seggi che consentono alla maggioranza di governare, ma che hanno anche fatto sì che per la prima volta nella storia di Israele, molti paesi occidentali si schierassero apertamente contro le politiche israeliane. Una situazione difficile soprattutto per chi verrà dopo, per le nuove generazioni che si troveranno ad affrontare un’eventuale difficilissima convivenza con i sopravvisuti palestinesi oppure l’onta di aver allontanato un intero popolo dalle proprie terre.
Tuttavia, negli ultimi giorni, resistenze esplicite sono emerse ai vertici delle IDF. Il capo di stato maggiore, generale Eyal Zamir, ha definito l’occupazione una possibile “trappola strategica” che costringerebbe Israele a gestire due milioni di persone, affrontare una guerriglia urbana prolungata e rischiare la vita degli ostaggi ancora prigionieri. Ex vertici militari e dell’intelligence hanno avvertito che, anche distruggendo Hamas, si rischia di produrre una “Hamas 2.0” più piccola ma più fanatica, capace di attrarre nuove generazioni di militanti.
La storia recente suggerisce prudenza. L’occupazione israeliana di Gaza, terminata nel 2005, non portò alla pacificazione: al contrario, contribuì a rafforzare Hamas. Esperienze simili — dall’Iraq all’Afghanistan — mostrano che eliminare un’organizzazione armata non significa estirpare la sua ideologia: il nemico si frammenta, si adatta, si radicalizza, e a pagarne le spese potrebbero essere le popolazioni civili di paesi lontani dalle zone di conflitto, dove sono presenti comunità non ancora integrate e quindi più facilmente inclini a processi di radicalizzazione.
La recente dichiarazione del premier Israeliano
“non li stiamo cacciando, stiamo permettendo loro di andarsene… date loro l’opportunità di lasciare, prima dalle zone di combattimento e, se vogliono, anche la Striscia”
appare più un’operazione “hasbara” che un’autentica intenzione di ridurre le perdite civili durante l’operazione militare annunciata.
La narrativa del Governo Israeliano stride con quanto avviene sul terreno e con le dichiarazioni dei propri membri oltre ad i pronunciamenti “tecnici” degli stessi apparati di Intelligence Israelani l’obiettivo sembra essere sempre più quello di rimuovere con ogni mezzo la popolazione palestinese da Gaza, al fine di annettere definitivamente e prima che a settembre molti paesi occidentali riconoscano la Palestina come Stato.
La statualità palestinese è già stata riconosciuta da circa 150 dei 193 membri delle Nazioni Unite, la maggior parte dei quali lo ha fatto decenni fa ma la continua sfida del governo Netanyahu al diritto internazionale ha smosso qualcosa sopratutto in occidente portando paesi come l’Australia,Francia, Gran Bretagna e Canada ha dichiarare la propria decisione di riconoscere lo Stato palestinese, riconoscimento che verrà formalizzato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre portando ad oltre ¾ , il numero dei membri ONU favorevoli alla soluzione di due popoli e due Stati.
Quando il 13 ottobre del 2023, a soli sei giorni dal brutale attacco di Hamas, il Ministero dell’Intelligence Israeliano avanzò la proposta di trasferire 2,3 milioni di abitanti della Striscia di Gaza in Sinai, Benjamin Netanyahu minimizzò il rapporto dell’intelligence, definendo la proposta come un “concept paper”.
La soluzione alla problematica Israelo Palestinese sembra volgere sempre più ad una soluzione formale, anche grazie alle pressioni internazionali, pressioni che in passato non hanno impedito ad Israele di portare avanti le proprie politiche incurante delle risoluzioni Internazionali, anche grazie all’esplicito silenzio assenso dei propri alleati occidentali.
Ora qualcosa è cambiato, ma per rendere stabile il cambiamento occorre un cambio anche all’interno della politica Israeliana, i segnali ci sono:
Nel sondaggio di Maariv (2-3 luglio 2025) si è registrato un calo dei consensi verso il partito del Likud che otterrebbe 27 seggi, in calo rispetto alle elezioni del 2022, rimanendo il primo partito. Tuttavia la sua coalizione alla Knesset non raggiungerebbe la maggioranza di 51 seggi. Le proteste inoltre iniziano a diventare sempre più frequenti e numerose, l’ultima manifestazione a Tel Aviv (9 agosto 2025) ha visto la partecipazione di oltre 100.000 israeliani contrari alle decisioni del governo, chiedendo il cessate il fuoco. Un rilevamento del febbraio del 2025 del Israel Democracy Institute – Israeli Voice Index, riporta che 72,5 % degli israeliani ritiene che Netanyahu debba assumersi la responsabilità per gli eventi del 7 ottobre 2023 e dimettersi (48 % subito, 24,5 % dopo la guerra). Allo stesso tempo però va registrato un’altro dato durante la guerra con l’Iran (giugno 2025), Netanyahu ha ricevuto un’inaspettata spinta, accordando sostegno anche da parte di figure critiche come Gantz e Lieberman: l’offensiva è stata sostenuta dall’83 % della popolazione ebraica.
Il conflitto nel dominio cognitivo e tecnologico
Un’ultima riflessione sulla guerra israelo-palestinese combattuta simultaneamente sul piano cinetico, dell’intelligence e del dominio cognitivo. Questa guerra dopo quella in Ucraina a seguito dell’aggressione Russa, ha ampliato e costretto alla revisione nelle operazioni cinetiche e cyber nel ruolo dell’intelligence e dell’importanza del dominio cognitivo. Se pure L’azione militare resta centrale: l’aviazione, le forze di terra e le operazioni di occupazione in corso, con piani e attacchi su Gaza City mirati a sconfiggere Hamas, l’intelligence apparentemente dormiente pre 7 ottobre ha dimostrato il proprio ruolo chiave.
L’unità Gospel (Habsora), un sistema AI sviluppato dall’Unità 8200, si è occupata di generare decine di obiettivi di attacco ogni giorno in base a dati automatizzati. L’Unità 8200 ha addestrato anche un modello di linguaggio in arabo, simile a ChatGPT, con un ampio dataset di comunicazioni palestinesi intercettate per scopi operativi, inoltre, l’impiego di AI da parte dell’IDF — come “Lavender” e “Gospel” — ha ampliato la capacità di identificare obiettivi, alzando il livello tecnologico dei processi decisionali a livelli mai raggiunti prima.
Per quanto concerne invece il dominio cognitivo israele ha attivato una robusta campagna informativa globale (hasbara), mobilitando decine di dipartimenti governativi, coi media internazionali, influencer e campagne sui social per contrastare disinformazione e plasmare l’opinione pubblica a proprio favore, con la creazione di vere e proprie “bolle narrative”: es. incidenti come quello all’ospedale al-Ahli sono diventati terreno di guerra delle narrative, in cui ogni fatto è stato contro-interpretato. Il governo israeliano ha inoltre finanziato campagne tramite AI e “bot farms” per diffondere messaggi pro-Israele, anche influenzando membri del Congresso USA; ciò ha coinvolto account fasulli e chat GPT-like per generare contenuti. Nelle PsyOps militari si è fatto ricorso all’ invio di SMS e volantini per avvisare civili di evacuazioni, con l’obiettivo di limitare vittime ma anche di minare la capacità operativa di Hamas. Le unità dedicate come la Information Operations Branch o Malat hanno operato ed operano come vere e proprie “agenzie pubblicitarie” interne all’IDF, impiegando copywriter, psicologi e creativi per manipolare percezioni e condurre campagne cognitive mirate, ma le operazioni non si sono rivolte esclusivamente verso l’esterno degno di nota è anche il fronte interno con campagne nazionali per rinforzare la resilienza della popolazione israeliana contro il terrorismo e la disinformazione, con supporto mentale, messaggi di solidarietà e rafforzamento dell’ossatura morale dello Stato.
La lezione da imparare dal conflitto Israelo Palestinese e Russo Ucraino è che la dimensione bellica odierna ha attraversato una metamorfosi profonda che ridefinisce i parametri stessi dell’analisi strategica. Non parliamo più di teatri operativi circoscritti geograficamente, bensì di uno spazio conflittuale permeabile che si estende attraverso molteplici domini interconnessi.
Le manifestazioni ostili contemporanee penetrano con crescente sofisticazione negli interstizi dei sistemi sociali, economici e informativi delle società democratiche. Questa evoluzione richiede una rilettura completa delle categorie interpretative tradizionali: il conflitto non si limita più alla dimensione cinetica convenzionale, ma si articola in strategie di erosione sistemica che colpiscono i fondamenti stessi della coesione sociale.
Le democrazie occidentali si trovano esposte a forme inedite di destabilizzazione che sfruttano paradossalmente i principi di apertura e pluralismo che ne costituiscono il DNA. Gli attori ostili hanno sviluppato metodologie raffinate per infiltrare il dibattito pubblico, manipolare le percezioni collettive e amplificare le fratture interne preesistenti.
Questa vulnerabilità strutturale richiede una risposta altrettanto articolata: l’integrazione tra capacità di intelligence, innovazione tecnologica e protezione dello spazio cognitivo emerge come imperativo strategico inderogabile. Non si tratta semplicemente di potenziare singoli strumenti, ma di costruire un ecosistema difensivo capace di operare simultaneamente su più livelli.
La preservazione delle istituzioni democratiche passa necessariamente attraverso la capacità di anticipare, identificare e neutralizzare minacce che si manifestano in forme sempre più ibride e sofisticate. Questo richiede un salto qualitativo nella concezione stessa della sicurezza nazionale: da approccio reattivo a strategia proattiva, da difesa settoriale a protezione sistemica. L’obiettivo diviene dunque la costruzione di una resilienza che non si limiti a resistere agli attacchi, ma che sia capace di adattarsi dinamicamente alle trasformazioni del panorama minaccioso, preservando al contempo i valori fondamentali su cui si reggono le nostre società.
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