La parata di Pechino e l’illusione di un nuovo ordine anti-occidentale
La parata di Pechino rivela l’ambizione cinese di un nuovo ordine anti-occidentale, ma dietro la propaganda emergono fragilità e contraddizioni
Le visioni offerte dalle circostanze sono generalmente divergenti a seconda della lente indossata da chi contempla il panorama. Le distorsioni cognitive, come sempre, sono all’ordine del giorno.
Ecco dunque che il possibile futuro può offrire diverse prospettive; mentre tra Shanghai e Pechino si delineava una proiezione di potenza che ribadiva la desiderata entrée di un nuovo ordine incentrato su Cina e Russia e sulla ancora poco nota Iniziativa per la Governance Globale, a Parigi si cercava il difficile completamento di un mosaico che dovrebbe riportare in effigie una cohalition of willings volta a garantire sovranità ed indipendenza ucraine secondo il paradigma in vita dal 1945.
Incontri peraltro caratterizzati dalla pietrificazione del convitato statunitense, silenzioso eppur udibile con la sua sorta di caotica e personalissima arte diplomatica ed una politica economica che, nel difendere lo Zio Sam da un debito insostenibile, colpisce gli alleati secondo la ratio di un equilibrio instabile, senza contare il discutibile salvacondotto offerto a Putin con l’invito in Alaska; tutto questo a meno che nel 2025 non si ritorni a visioni imperiali alla Metternich, posto che il Principe non si sarebbe certo fatto sfuggire gli intrinseci vantaggi offerti dalla debolezza russa e, soprattutto, che di Principi, dalla dipartita di Kissinger, non se ne scorgono.
Peccato che gli analisti finanziari vedano la politica monetaria ed economica come una ulteriore ragione di indebolimento della divisa americana e di un rafforzamento dell’oro; insomma, un qualcosa che ha portato a credere che la fase della dedollarizzazione potesse essere iniziata pur a fronte del fatto che la moneta statunitense negli ultimi 20 anni, ha smentito ogni previsione. A meno che Washington non desideri una nuova Bretton Woods, per cui servirebbero altri e più fini ingegni, i dazi servono a garantire nuove entrate fiscali avendo in previsione volatilità e fluttuazione dei mercati.
Nel frattempo Pechino prova a cavalcare l’onda, visto che proprio in Asia molti Paesi stanno riducendo le riserve in dollari per proteggere le proprie valute, vista anche la crescente polarizzazione economica, con la Cina che cerca una maggiore integrazione economica con il sud-est asiatico per accedere alle catene del valore globali.
Più pragmaticamente, ridurre la dipendenza dal dollaro appare complicato, anche perché mancano valide alternative, considerato che poche valute potrebbero assurgere al ruolo di riserva. Il problema è che però la politica cinese del controllo dei capitali priva il renminbi del necessario appeal, posto che essa stessa ha bisogno di riserve in dollari per assicurare stabilità.
In ogni caso, Pechino sta puntando ad aumentare l’uso della sua moneta come mezzo di pagamento per Paesi che devono trovare alternative ad un dollaro da un lato troppo costoso ma dall’altro ancora insostituibile.
La sovrapposizione dei summit evidenzia la cristallizzazione degli ordini politico-economici in competizione, nell’attesa di comprendere quale maschera intenderà indossare il player washingtoniano che, talvolta, dà la sensazione di essersi lanciato in una guerra commerciale senza averne curato la conveniente preparazione¹.
Il problema, semmai, risiede ora in una sorta di revisionismo storico che, secondo refrain discutibili da tempo in voga anche altrove e molto vicino, punta ad un riequilibrio politico tra USA, Cina Russia che contempli i contributi offerti alla stabilità globale anche dall’est, ma che non tiene conto né degli eventi succedutisi a cominciare dal 1938, con Cecoslovacchia e Polonia, né del diverso valore che i trattati vantano e posseggono, come quello di San Francisco del 1951, rispetto a proclami o dichiarazioni di intenti, eleganti ma privi di vincoli cogenti.
Un revisionismo che sta lì a rammentare che, dove hanno cantato ieratici coristi e sfilato a passo da parata disciplinatissimi soldati, nel 1989 un uomo con due shopper di plastica fermò per un attimo infinito carri armati che aprirono poi il fuoco per un massacro che di pace celeste ha sempre avuto molto poco.
Beninteso, la commemorazione cinese della fine del conflitto se da un lato esalta un bellicismo alternativo a quello americano, dall’altro non attenua il disgelo con l’India che non intende perdere il ruolo di mediazione tra Est e Ovest. È evidente che Xi intenda condurre Pechino ad essere il perno eurasiatico di una politica spinta fino ad Oceania ed Asia Centrale, che costringa Mosca in una posizione minoritaria e ancillare e che tenga in un limbo Pyongyang sempreché Washington accetti compartecipazioni.
Insomma, nulla poi di così facile, visto che gli USA non hanno ancora abdicato, che il Giappone si sta riarmando, che l’India, che cura l’AUKUS, non cela affatto i punti di attrito sino-pakistani d’alta quota kashmira, che Iran ed Arabia Saudita non coltivano ancora alcun sentimento propriamente amichevole, che l’economia non marcia come desiderato²; basti pensare che gli investimenti SCO della Cina, ammontanti a circa 280 miliardi di dollari, sono indirizzati in Asia Centrale, luogo confliggente con gli interessi russi che, pure, puntano al gasdotto Power of Siberia 2, destinato a transitare per la Mongolia.
Pare opportuno ricordare che la potenza sanzionatoria rivolta contro l’economia russa non richiederebbe né il tempo né gli investimenti miliardari necessari al gasdotto, laddove però proprio il gas russo ha permesso di diminuire le importazioni cinesi estese anche al greggio, visti i dazi americani al 125% uniti ad un endogeno rallentamento economico.
Tra l’altro Power of Siberia 2 è tra i progetti di periodica rianimazione in funzione del leverage cinese su Mosca, per cui nulla è stato indicato su tempistiche o su obblighi dell’acquirente cinese, o sui dettagli finanziari.
Power of Siberia 2 è di fatto sia una diversificazione approvvigionativa cinese volta ad ovviare ai rischi del conflitto israelo-iraniano, sia l’attestazione dell’assoggettamento russo a Pechino.
Se è vero che Mosca resiste alle sanzioni grazie alle vendite di combustibili fossili a Pechino, forse più che di Siberia, bisognerebbe parlare di Power of China.
In ogni caso, il regno di mezzo rimane leader nella produzione di tecnologie verdi, benché tuttavia sia la principale fonte di emissioni di gas serra, visto che rimane fortemente dipendente dal carbone secondo le necessità imposte da un bisogno di energia costante che giustifica l’auspicata integrazione economica dell’IA nel 90% entro il 2030, in accordo con logiche che gli americani farebbero bene a non limitare ad analisi di breve respiro.
Seguendo l’esempio BRICS, la SCO ha anche determinato di crearsi una Development Bank, atta a sostenere progetti economico-infrastrutturali, benché sia rimasta la sensazione di un organismo che ha perso smalto con la nascita di BRICS e BRICS+.
Ma la SCO, malgrado tutto, se non basta a certificare rotture tra Delhi e Washington, può però suggerire l’adozione di politiche daziarie meno gravose. Quel che è certo è che se l’America da un lato ha perso la cognizione dell’applicazione della regola aurea del divide et impera dall’altro, se Pechino si ritraesse, Russia, Corea, Iran crollerebbero.
Detto che le politiche americane seguono un andamento disforico tipo carezza in un pugno, rimane da vedere come ed in quale posizione intenda porsi l’Europa in un contesto sempre più multicentrico o, peggio, a-centrico, dove gli antagonisti si coalizzano non tanto per capacità politiche proprie, quanto per incapacità altrui.
In un momento di esaltazione, Pechino è costretta a guardare anche a teatri più vicini, così prossimi da ravvivare i contatti in via tripartita con Pakistan e Afghanistan talebano, sia in relazione agli investimenti effettuati sia al Corridoio del Wakhan, che collega per 350 km la regione autonoma dello Xinjiang e la provincia afghana del Badakhshan, una via che darà ad una Cina riluttante per motivi securitari legati alla presenza uigura, l’accesso a nuovi mercati europei, ed all’Afghanistan il modo di curare l’import-export con Pechino.
Attenzione però, perché l’Islamic State of the Khorasan Province, peraltro ben armato, malgrado le parate di Pechino, reputa i cinesi infedeli e atei, ragion per cui l’unica speranza uigura risiede ancora e sempre nello stato islamico.
Altro teatro interessante in prossima accezione futura è il Tibet, che la Cina governa autoritariamente dal 1950 e dove attende ansiosamente la morte dell’attuale Dalai Lama, spina nel fianco attuale e futura, a meno che non riesca ad imporre un anti Dalai Lama, incorrendo tuttavia nel rischio di lasciare libere le istanze radicali ed indipendentiste tibetane non più contenute da un’autorità autoctona, stabilizzante e riconosciuta.
Come nello Xinjiang, la repressione diretta potrebbe innescare forze disgregatrici interne sostenute peraltro da diaspore più o meno pronunciate proprio verso l’India, più preoccupanti di quelle che animano le relazioni internazionali, dove l’indigesta idea suprematista statunitense sta facilitando il compito cinese, pur a fronte del fatto che, in ambito SCO, la democrazia non brilla in modo particolare.
Per oltre 10 anni la politica cinese è stata definita da Xi Jinping, che ne ha incoraggiato una visione muscolare; c’è da chiedersi chi potrebbe succedergli, facendo attenzione a come potrebbe svolgersi la transizione, specie in presenza di una lotta per il potere difficilmente contenibile entro i confini cinesi, sotto il controllo implicito delle FA, e facendo in modo che i delfini in corsa, in un empito d’affetto, non attentino anticipatamente al potere del Vecchio Timoniere creando crepe nella Grande Muraglia del Partito tali da replicare la repressione del 1989, visto che peraltro incombe l’incomodo della provincia ribelle: solo l’ipotesi di essere ricordato come il leader che ha fallito nella riunione con Taiwan fa ipotizzare una successione da incubo, prodromica ad un epilogo affine a quello toccato all’URSS.
Il problema è che ormai da qualche anno le teste di generali e ammiragli rotolano nella polvere, vittime di epurazioni eccellenti malgrado siano stati promossi proprio dall’attuale Presidente, vittime di campagne anti corruzione o, forse, visti come possibili outsider nella corsa al potere.
I problemi possono essere 2: la corruzione o una ben più profonda crisi di fiducia da parte della leadership politica, laddove l’esercito è invece fondamentale, visto il ruolo politico rivestito dai militari, capaci di rafforzare o indebolire il potere del leader.
Non è un caso che recentemente la Commissione militare centrale abbia invitato ad eliminare le influenze tossiche, e ripristinare l’immagine e l’autorità degli ufficiali politici.
Tiriamo qualche somma. Russi e cinesi condividono un’attrazione morbosa per la storia, sublimata nelle parate militari, funzionali ad una costante guerra della memoria, dove ciascun giocatore vede l’altro come un revisionista.
Anche il dress code seguito da Xi, con il suo Sun Zhongshan suit, l’abito iconico di Mao Zedong, ha ribadito il desiderio di mantenere le linee guida più ortodosse, inserite in un contesto che più anti occidentale non si sarebbe potuto, malgrado, a suo tempo, siano stati proprio gli americani i maggiori sostenitori dello sforzo anti giapponese.
Il successo su Tokio ha generato narrative tali da riservare al Partito un ruolo storico centrale, strumentalizzando gli eventi così come fatto da Putin per giustificare l’invasione ucraina.
Che tutta la manifestazione, animata da una grandeur che richiamava molto di quella immortalata da Leni Riefenstahl nel 1936, fosse indirizzata ad evidenziare una volontà di potenza e non un’ecumenica celebrazione irenica alla Papa boys, era abbastanza chiaro, così come è evidente che la diplomazia del guerriero lupo ben si coniuga con l’aggressività militare, sublimata in un goffo speronamento tra unità cinesi stesse, lanciate al disturbo di una corvetta filippina nei pressi dello Scarborough Shoal.
Che poi le fonti ufficiali parlino di operazione professionale e legittima la dice lunga gettando qualche ombra sull’efficienza, tanto da far pensare che Xi, sui militari, forse, tutti i torti non li abbia.
Sfatiamo dunque miti di pace ad ogni costo: non hanno senso; l’unica cosa sensata è la proiezione di potenza e la politica che la sostiene, al netto delle pillole indorate, come è del resto del tutto impoliticamente logico non tralasciare né le problematiche interne, per quanto impopolari, né la storia più o meno recente.
¹ La comparsa di cinque rompighiaccio cinesi vicino all’Alaska evidenzia una difficoltà strategica per gli USA, mentre Pechino inaugura la Via della Seta Polare. Lo scioglimento dei ghiacci sta aprendo nuove rotte marittime trasformando l’Artico in un’area di competizione geopolitica.
² Il settore immobiliare è crollato, il tasso di disoccupazione giovanile supera il 17%, la fiducia dei consumatori sta calando, con i controlli sulle esportazioni che colpiscono il settore tecnologico cinese, ed i dazi che minacciano l’economia più ampia.
Foto: Xinhua
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