L’autunno nero dell’Eliseo
Non ci sono più le mezze stagioni. Anche le movenze politiche sono ormai indistinte, non hanno distacchi. Parigi non ne è immune; il tepore dell’autunno incipiente torna a fondersi con le brezze roventi di uno scontro che, voilà, in un 8 settembre transalpino, data fisiologicamente fatale, come ben si sa nella parte cisalpina anche se si nicchia spesso in modo ridicolo e cerchiobottista, rischia di estremizzare una crisi che si protrae dalle ultime elezioni.
La legge di bilancio è di fatto, per l’Eliseo, la cambiale in protesto recapitata da alleati estemporanei che, accantonato (forse) il pericolo Lepen, non mancano di presentare un conto salato, talmente sapido che non può escludere il ricorso ad un ritorno elettorale. Quel che è certo, è che improntare per l’ennesima volta una campagna elettorale trasversale unicamente contro un solo soggetto politico potrebbe segnare una debacle definitiva, un vero e proprio carnage.
Mentre per la sinistra di Melenchon le prossime settimane saranno utili per programmare l’assalto ad una nuova Bastiglia, per la destra, comunque ispirata da una pur giudiziariamente interdetta Lepen, si tratterà di presentarsi quale ragionevole contraltare a spinte centrifughe e incontrollabili. La richiesta di fiducia di Bayrou, la vittima presidenziale predestinata, non lascia alternative a fronte di un debito pubblico in crescita esponenziale allarmante per il quale la cura consiste, come ovunque, in indigeribili tagli alla spesa, nel blocco delle assunzioni e nel congelamento delle pensioni. Insomma, lacrime, sangue e non meno di 44 miliardi di euro, sporchi e subito.
Il piano di Bayrou è stato talmente perfetto da riuscire a compattare d’incanto l’arco parlamentare contro quello che rimane un tentativo da ultima spiaggia sostenuto – forse – solo dai socialisti a patto di modifiche legislative sostanziali e, ça va sans dire, improbabili. Come in Le Prénom (Cena tra amici), pur in una generale avversione alla destra, le posizioni si inaspriscono internamente tra loro fino a non riuscire più a trovare punti di incontro.
Se Bayrou fosse sfiduciato, Macron dovrebbe nominare un nuovo premier con la propensione al martirio, politico ovviamente, o sciogliere il parlamento, due strade pericolose e foriere di instabilità e vulnerabilità economica. Mentre il divario con lo spread italiano si riduce, pur a fronte di convocazioni di ambasciatori che hanno il sentore del “de minimis” latino, la borsa parigina va in sofferenza visto il possibile declassamento di rating ed una sempre più marcata assenza di una vera maggioranza.
Mentre Melenchon agita lo spauracchio delle dimissioni di Macron, comincia a paventarsi quale extrema ratio il rischio di un intervento del FMI, prima evocato poi contenuto dallo stesso ministro Eric Lombard.
Sorrisi ammalianti e ammiccamenti presidenziali da podi internazionali sembrano ormai appartenere ad altri tempi. In ogni caso il debito mette lo stato dei conti sotto la lente delle agenzie di rating, mentre si vorrebbero congelare la spesa per il welfare e le aliquote fiscali ai livelli del 2025 senza procedere ad alcun adeguamento all’inflazione.
Insomma: un’ingovernabilità che costringe a ricorrere all’articolo 49.3 della Costituzione, che consente sì l’approvazione di una legge senza discussione parlamentare, ma espone alla paralisi politica ed all’indebolimento anche in ambito europeo, dato l’aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato.
Le soluzioni ci sono, ma sono tutte complesse: un altro governo di minoranza, buono per soluzioni estemporanee; un esecutivo evergreen di unità nazionale che ricalchi il tecnicismo di Draghi, da affidare a Trichet o Lagarde; l’incognita di nuove elezioni da tenersi però non prima di luglio 2026 con la crisi costituzionale di una Repubblica, la V, ora di fatto né presidenziale, né parlamentare strictu sensu.
Chi rimane allora al centro del proscenio? Monsieur le President, l’ex enfant prodige che, tra un azzardo e un imbarazzante buffetto coniugale, sembra aver perduto il suo tocco magico, neutralizzato dai contro incantesimi delle opposizioni e dai risultati delle elezioni europee, aggravati dallo spettro della sindrome italiana del 2011.
In questo momento la credibilità è davvero tutto, ma andrebbe rafforzata da un’azione politica coerente e dalla capacità di conservare un ruolo centrale in ambito europeo, pur tenendo conto della spirale tedesca e delle difficoltà inglesi. Come direbbe Flaiano, la situazione è grave ma non seria, con Bayrou che consiglia l’assunzione di una pesantissima responsabilità per evitare un caos peggiore, magari ricorrendo ad un’astensione dal voto. Tanta roba davvero.
Se, come sembra, la maggioranza voterà la sfiducia, il governo dovrà dimettersi, costringendo Macron, che ha promesso di non recedere di un millimetro dal suo mandato, a nominare il terzo premier in un anno.
Mentre i socialisti, ago erratico della bilancia, escludono sia un nuovo accordo programmatico con la sinistra radicale di Melenchon, sia un impeachment presidenziale, il 72% dell’elettorato auspica invece la crisi di governo, non ravvisando elementi di concreto allarmismo, dato che il francese medio ritiene che la situazione, già di suo pessima, non possa peggiorare. Insomma, un lavoro che potrà anche “fare schifo” purché non piova. Chissà, intanto crisi politica ed economica si sovrappongono gravando sulle società quotate in borsa.
Politicamente, l’immagine della Francia è quella di un Paese in mezzo al guado di uno dei suoi momenti più complessi, dove anche il sistema semipresidenziale viene chiamato in causa, data la distanza che ha creato tra istituzioni e cittadini specie in periodi di frammentazione parlamentare e dove Macron ha accentuato eccessive rigidità optando per una tecnocrazia elitarista. Comunque vada, la sua leadership è in discussione.
La situazione di stallo, perdurante ormai da oltre 10 mesi, alimenta la sfiducia sociale e la frammentazione del quadro complessivo, dove non basta riconoscere priorità condivisibili per giungere a soluzioni comuni, mentre i centristi scompaiono e si acuiscono le polarizzazioni.
In questo contesto, il voto di fiducia chiesto da Bayrou è uno strumento estremo che mette tutti davanti alle proprie responsabilità, ma che può innescare dinamiche imprevedibili sia sul piano interno che internazionale. Il passo tra crisi di governo e crisi di regime della V Repubblica sarebbe brevissimo, anche perché un governo tecnico, per quanto pragmatico e di preparazione elettorale, assumerebbe sembianze commissariali verso cui la reazione parlamentare potrebbe non essere così pacifica, visto anche l’astensionismo. La Francia, di fatto, è prigioniera della sua stessa struttura istituzionale, per cui potrebbe auspicarsi una revisione che agevoli un nuovo equilibrio tra poteri, in particolare tra esecutivo e legislativo. Ad oggi, l’unica via d’uscita meno dolorosa passa per la strada del compromesso.
È qui che la misura del dubbio di Auteuil scorre per i titoli di coda del film di una politica in sofferenza; è la misura dell’incertezza che caratterizza ogni passo e rende vulnerabile ogni possibile tentativo.
L’articolo L’autunno nero dell’Eliseo proviene da Difesa Online.
Non ci sono più le mezze stagioni. Anche le movenze politiche sono ormai indistinte, non hanno distacchi. Parigi non ne è immune; il tepore dell’autunno incipiente torna a fondersi con le brezze roventi di uno scontro che, voilà, in un…
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