Le forze italiane nella task force Takuba mentre il Sahel si tinge di sangue
La strage da 137 morti attuata il 21 marzo dai jihadisti in villaggi del Niger al confine col Mali, è la punta dell’iceberg dell’instabilità della fascia del Sahel e fa scalpore proprio nei giorni in cui stanno prendendo posizione i militari italiani che partecipano alla missione Takuba sotto comando francese.
Il Sahel è la regione probabilmente più povera dell’intera Africa, soprattutto a causa della sua endemica aridità, aggravata dall’inesorabile avanzata del deserto. Questa vasta fascia di territorio attraversa in senso longitudinale il continente per una lunghezza di circa 5.400 chilometri dalle sponde dell’Atlantico a quelle del Mar Rosso, ed è compresa, nel senso della latitudine, suppergiù fra il 14° e il 20° parallelo.
Anche se, geograficamente, si spinge fino in Sudan e in Eritrea, da un punto di vista geopolitico è soprattutto nella sua parte centrale e occidentale che questa zona ha acquisito negli ultimi anni una sua identità strategica grazie alla formazione nel 2014 del cosiddetto G5 Sahel, che raggruppa i governi di Mauritania, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mali.
Non è un caso che questi paesi abbiano avviato una stabile coordinazione nel campo dello sviluppo economico e anche della sicurezza proprio mentre la loro potenza egemone di riferimento, la Francia del cui impero coloniale facevano parte fino a metà del XX secolo, avviava quella missione militare tuttora in corso, l’Operazione Barkhane, per affiancarli nella lotta alla complessa costellazione di gruppi jihadisti locali, alcuni afferenti ad al-Qaeda, altri allo Stato Islamico.
Proprio la combinazione fra povertà, fanatismo religioso e un ambiente difficile, da percorrere e da sorvegliare, perfino per gli stessi nativi, rende questa regione una delle culle privilegiate del terrorismo islamico, col suo corollario di traffici illeciti, sfruttamento dell’immigrazione clandestina e contrabbando di armi, questo in gran parte legato al saccheggio degli arsenali libici dopo la caduta di Gheddafi nel 2011.
Per rafforzare questa politica di sicurezza si è reso necessario varare una missione parallela, la missione Takuba, che coinvolge anche l’Italia, oltre ad altri paesi europei, i cui uomini sono sottoposti al comando francese.
Nonostante l’Italia avesse annunciato fin dal 2020 la partecipazione alla Takuba, nome pittoresco che evoca un particolare tipo di spada in uso ai Tuareg, i nostri contingenti stanno solo ora, fra marzo e aprile 2021 arrivando in Mali, la nazione che vedrà il posizionamento del quartier generale italiano vicino alla frontiera col Burkina Faso. In questi stessi giorni si è assistito a una recrudescenza del terrorismo mentre il generale assetto del Sahel resta di per sé politicamente instabile.
Frontiere della barbarie
Domenica 21 marzo 2021 è stata forse la giornata più drammatica che la storia del Niger ricordi. Nella regione di Tahoua, che si trova ai confini col Mali, ben tre villaggi sono stati attaccati in poche ore da un gruppo di terroristi in sella a motociclette che hanno sparato all’impazzata, presumibilmente con gli onnipresenti e rustici fucili d’assalto kalashnikov, sui civili inermi che capitavano loro a tiro.
Bersaglio sono stati i centri abitati di Intazayene, Bakorat e Akifakif, dove nel complesso si sono registrati ben 137 morti, fra i quali almeno 22 erano bambini e ragazzini di età compresa fra 5 e 17 anni. Si trattava di famiglie di pastori che come altri milioni di abitanti del Sahel cercano di giorno in giorno di sopravvivere con le loro capre e col piccolo commercio.
Ma sulle cui teste pende la spada di Damocle delle milizie jihadiste che contendono ai legittimi governi il controllo della popolazione. Anche perchè, il Niger e i suoi vicini sono formazioni statali ancora deboli e dal potere istituzionale non capillare sul territorio, al confronto con le autorità ben più solide delle nazioni occidentali, il che richiede a maggior ragione l’intervento di forze esterne, alleate, per sostegno e addestramento.
Fra le prime testimonianze a caldo raccolte dalle autorità nigerine sul luogo della strage, spiccava la constatazione agghiacciante che “i terroristi sparavano a tutto ciò che si muoveva”.
Per il portavoce del governo nigerino, Zakaria Abdourahamane: “Trattando i civili sistematicamente come obiettivi, questi banditi armati sono andati un passo avanti verso l’orrore e la brutalità”. Il governo di Niamey ha dunque proclamato dal 23 marzo tre giorni di lutto nazionale, trattandosi del peggior attacco terroristico nella storia del paese.
Non è stato ancora accertato se i responsabili siano membri di una diramazione di al-Qaeda denominata AQIM, Al Qaeda per il Maghreb Islamico, erede del precedente Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento e operante anche in Mali, oppure una particolare costola dell’ISIS, il cosiddetto Stato Islamico del Grande Sahara.
Certo, come spesso accade quando si ha a che fare con gruppi armati irregolari, il fatto che le azioni principali avvengano nelle vicinanze delle frontiere con un altro stato risponde a una precisa esigenza tattica dei terroristi, cioè sfruttare santuari fuori portata, in termini di competenza, delle forze di uno stato, per poi passare e ripassare, in entrambe le direzioni, il confine a piacimento, per agire o ritirarsi.
Lo si vede, del resto, anche con gli efferati Boko Haram della Nigeria, che sfruttano le foreste lungo la fascia di confine col Camerun come rifugio. E’ proprio per questo che la coordinazione fra tutti i governi dell’area è fondamentale affinchè i terroristi non si sentano al sicuro una volta oltrepassato un confine.
Vero è che anche un’alleanza fra stati offre un minimo, e forse ineliminabile, “attrito” di coordinamento in corrispondenza del punto, fisico o simbolico, di contatto fra un esercito e l’altro, allo stesso modo in cui, nella classica strategia di guerra come elaborata nel corso dei secoli, viene considerato sempre vulnerabile, in uno schieramento militare, il punto di contatto fra due reparti diversi. Pertanto, è intuibile che non si lavorerà mai abbastanza per affinare il coordinamento, in azioni, procedure e comunicazione, in primis fra gli stati del G5 Sahel e inoltre fra essi e i contingenti europei giunti in loro soccorso.
Anche nel caso della strage del 21 marzo, è plausibile, anche se non è stato specificato nelle notizie diffuse apertamente, che i terroristi in motocicletta siano giunti da oltrefrontiera, dal Mali, per poi rifugiarvisi una volta compiuti i loro misfatti.
E ciò anche per un altro motivo, più “politico”. Un elemento centrale delle formazioni jihadiste locali è il costante richiamo a entità come il “Maghreb Islamico” o il “Grande Sahara”, che travalicano gli stati esistenti, visti come una prosecuzione di sistemi amministrativi fondati in epoca coloniale dagli “infedeli” europei.
Il terrorismo sahariano e saheliano, dunque, lancia anche sottili messaggi di sfida proponendo una sua “geopolitica personale” in cui da un lato i confini vengono utilizzati come fratture che dovrebbero ostacolare e dividere i nemici, cioè gli stati legittimi. Ma dall’altro lato, i confini vengono contemporaneamente sbeffeggiati e annullati da questo incessante scorrazzare che è anche la rivendicazione di uno spazio unificato di dominio fondamentalista.
D’altronde, sempre nei pressi del confine col Mali, per citare un altro esempio, si è avuta in Niger un’altra strage di civili, questa assai meno ricordata dai media occidentali, appena 6 giorni prima. Il 15 marzo nella regione di Tillaberi, nuclei jihadisti hanno ucciso indiscriminatamente 58 persone, fra cui 6 bambini, che stavano tornando a casa dopo essersi recati al mercato settimanale di Banibangou. Ancora prima, il 2 gennaio 2021, erano stati circa 100 i civili uccisi nella medesima zona di Tillaberi, in villaggi del distretto di Mangaize. Tutto per esasperare un clima già teso nel paese.
Travagli politici
Le azioni jihadiste si sono verificate nel pieno di una delicata transizione politica del Niger, dove è giunta a scadenza la presidenza di Mahamadou Issoufou, che durava dal 2011 e che, fatto raro nell’Africa dei “padri-padroni”, egli ha limitato a due soli mandati. Successore è il suo fidato Mohamed Bazoum (nella foto sotto), già ministro degli Esteri e poi degli Interni, ha potuto affermarsi dopo un travagliato processo elettorale. Infatti, il 21 marzo, nelle stesse ore in cui i civili della zona di Tahoua venivano mitragliati, circa 400 km più a Sudovest, nella capitale Njamey, la Corte Costituzionale nigerina assegnava definitivamente la vittoria del ballottaggio presidenziale del 21 febbraio a Bazoum, a dispetto del rivale Mahamane Ousmane, i cui sostenitori hanno protestato per settimane dato l’annullamento del voto in molti seggi.
Con l’insediamento ufficiale del 2 aprile 2021, quindi, Mohamed Bazoum subentra a Issoufou alla guida del paese. Il nuovo presidente nigerino è un esponente del partito di governo Pnds, di ispirazione democratica e socialista, e si è affermato al ballottaggio con il 55,66% dei voti, mentre lo sconfitto Ousmane, già presidente del paese dal 1993 al 1996, quando fu rovesciato da un golpe, ha corso per il partito di “rinnovamento repubblicano” Rdr-Tchanji, incassando il 45,34% delle preferenze.
Il tutto con un’affluenza attestata sul 62,9%, tutto sommato buona, per gli standard africani. In precedenza, al primo turno elettorale del 27 dicembre 2020 si erano presentati ben 30 candidati, fra i quali Bazoum e Ousmane avevano prevalso accedendo al secondo turno con, rispettivamente, il 39,3% e il 16,98%.
Dal primo turno era stato però escluso uno dei capi dell’opposizione, Hama Amadou, che in seguito ha deciso di sostenere Ousmane. Amadou è stato fra gli animatori delle proteste di piazza seguite al ballottaggio di febbraio, dopo che Ousmane ha sostenuto di aver raccolto un 50,4%, gridando ai brogli.
Ne sono seguiti nelle scorse settimane scontri fra opposizione e polizia a Njamey e altre città con uso di lacrimogeni, la morte di almeno due manifestanti e l’arresto di oltre 470 persone, fra cui Amadou, che il 1° marzo.
Particolare curioso, sembra che nei torbidi sia stata incendiata perfino la casa del corrispondente di Radio France International, in segno di protesta contro la “tutela” egemonica esercitata da Parigi.
Del resto, la Francia ha interesse a un Niger stabile e amico per garantirsi i giacimenti di uranio gestiti dal colosso d’Oltralpe Orano, l’ex-AREVA, specialmente nella regione di Agadez, dove peraltro il 23 luglio 2019 il presidente Issoufou aveva inaugurato un nuovo impianto estrattivo a Madaouèla.
Sebbene fin dal 1968 i francesi estraggano laggiù l’uranio per il loro atomo, militare e civile, dal 2018 si stanno affacciando in Niger anche i cinesi della Zijing Heuchuang, che hanno iniziato a scavare il minerale fissile. La Cina, del resto, è presente pure col suo gigante petrolifero CNPC, che sta estraendo greggio ad Agadem e sta completando un oleodotto di 1900 chilometri da quei pozzi fino al porto di Semè, sulla costa del Benin, per l’imbarco sulle petroliere. I jihadisti fanno quindi il loro gioco (forse strumentalizzati?) in un’arena affollata di interessi concorrenti.
Fra i suoi ultimi atti da presidente in carica, Issoufou, appena appreso della strage a Tahoua, ha ordinato l’invio nella zona di 500 soldati nigerini, assicurando che “il governo sta facendo di tutto per garantire che questi crimini non rimangano impuniti”.
Il limitrofo Mali, ricco di miniere d’oro, non è certo più tranquillo, anzi, fin dal 2013 è presente la forza di Caschi Blu ONU MINUSMA, insieme alle missioni europee di addestramento dei maliani, EUCAP Sahel Mali ed EUTM Mali. Ma nei combattimenti sono impegnate più che mai le forze francesi dell’Operazione Barkhane, a fianco dell’esercito locale nella repressione del terrorismo.
Fra i risultati più significativi, il 3 giugno 2020 è stato ucciso il capo della divisione di Al Qaeda per il Maghreb, l’algerino Abdelmalek Dorukdel, centrato da una pattuglia di 15 commandos francesi mentre si trovava con un gruppo di seguaci a Nordovest della città di Tessalit, vicino alla frontiera con l’Algeria. L’operazione, nota come “battaglia di Talahandak”, è stata condotta dai francesi con 4 elicotteri, fra cui un Tiger da combattimento, e un drone Reaper, oltre a un supporto di intelligence, probabilmente satellitare, degli Stati Uniti.
Poichè tuttavia nel paese si è rivelato particolarmente ostico vigilare sulla nevralgica area del Liptako-Gourma, vicino all’ansa del fiume Niger presso il confine fra Mali e Burkina Faso, il presidente francese Emmanuel Macron ha lanciato fin dal novembre 2019 l’idea di una missione supplementare, l’Operazione Takuba appunto, concretizzatasi poi dopo il vertice di Pau tra i francesi e i capi di governo dei paesi del G5 Sahel, il 13 gennaio 2020. A Takuba hanno aderito via via Estonia, Repubblica Ceca, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia, Portogallo.
E anche l’Italia, la cui partecipazione è stata concordata fra Macron e l’allora premier Giuseppe Conte durante il loro vertice bilaterale del 27 febbraio 2020 a Napoli. Anche se i primi estoni, cechi e svedesi sono arrivati in Mali già fra luglio e dicembre 2020, il turno degli italiani è arrivato solo nel marzo 2021.
E nel frattempo il Mali si è dimostrato un terreno ancor più insidioso per beghe interne. Il 12 luglio 2020 l’allora presidente Ibrahim Boubacar Keita ha sciolto la Corte costituzionale, dopo giorni di violente proteste popolari nella capitale Bamako, che avevano causato almeno 4 morti, e ha fatto arrestare vari politici locali.
Poco più di un mese dopo, il 18 agosto, si è verificato un colpo di stato da parte di una giunta militare guidata da un tal colonnello Assimi Goita, che ha arrestato Keita chiedendo libere elezioni.
Nei mesi seguenti, la giunta militare, sotto la pressione dell’ONU e delle organizzazioni internazionali africane, ha lasciato il posto a un governo di transizione misto civile-militare, il cui presidente è dal 21 settembre Bah Ndaw, con Goita suo vice.
Un compromesso fra il governo provvisorio del Mali e la comunità internazionale per arrivare a una “normalizzazione” è stato però raggiunto solo l’11 marzo 2021, dopo un vertice fra delegati di Bamako, capeggiati dal ministro degli Esteri Zeini Moulaye, e rappresentanze dell’Unione africana, dell’ECOWAS, ossia la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecow) e della missione delle Nazioni Unite in Mali (Minusma).
Gli attuali dirigenti maliani hanno promesso “elezioni libere a marzo 2022”, sebbene Moulaye abbia messo le mani avanti: “Le elezioni presidenziali riguardano tutti. In linea di principio, si terranno a marzo 2022 ma il calendario non è stato completamente fissato. Intanto il dialogo politico è in corso”.
Alle frontiere col Burkina
Mentre i contingenti degli altri paesi europei della missione Takuba hanno iniziato ad arrivare in Mali già fra luglio e dicembre 2020, quello italiano, dopo sopralluoghi preliminari nel febbraio 2021, ha iniziato il suo vero schieramento in marzo, giusto dopo che la situazione della politica interna maliana si è, almeno apparentemente, tranquillizzata. Nel frattempo, la guerra antiterrorismo in Mali è continuata con acredine.
Il 14 novembre 2020 l’esercito francese ha annunciato su Twitter di aver annientato decine di jihadisti a Niaki. Inoltre giungeva notizia dell’uccisione, sempre da parte francese, del capo locale di Al Qaeda, Bah Ag Moussa, regista dell’attacco nel 2019 alla base militare maliana di Diura, dove erano morti 21 soldati del paese africano.
Il 28 dicembre le truppe governative maliane hanno inflitto “gravi perdite” ai qaedisti vicino ai confini col Burkina Faso, ma il giorno dopo tre militari francesi sono periti nella loro autoblindo, saltata durante un pattugliamento su una strada a Hombore a causa di un ordigno esplosivo IED sul ciglio.
Il 2 gennaio 2021 un altro attentato islamista uccideva in Mali altri due soldati francesi, scatenando una ritorsione aerea. Il 3 gennaio due caccia supersonici Mirage 2000 dell’Armée de l’Air di base in Niger sono decollati da Njamey e hanno bombardato presunti jihadisti nel villaggio maliano di Bounti, sebbene molte fonti, fra cui Amnesty, abbiano parlato di un drammatico errore che ha portato alla morte di decine di civili.
Il 10 febbraio Parigi ha confermato il proseguimento della missione Barkhane, la cui forza è arrivata complessivamente a 5100 uomini, con 3 droni, 7 caccia, 22 elicotteri, fino a 10 aerei di trasporto, 290 blindati pesanti, 240 blindati leggeri e 380 mezzi logistici. La Francia è senza dubbio l’elemento trainante, ma il contingente italiano avrà un ruolo di rilievo nella specifica, critica, area del Mali a ridosso del Burkina Faso.
Dopo che la consistenza del contributo italiano è stata già definita dal “decreto missioni” del 16 luglio 2020, e dopo i ricordati sopralluoghi, i primi elementi delle forze italiane sono partiti il 10 marzo per l’aeroporto nigerino di Njamey, per poi arrivare nella città maliana di Gao già il 12 marzo.
Ma la missione andrà a regime nelle prossime settimane, quando gli italiani porranno il loro quartier generale ad Ansongo, vicino appunto al Burkina Faso. Un paese con cui l’Italia ha stipulato fin dal 1° luglio 2019 un accordo di cooperazione militare, quando a Roma si incontrarono l’allora ministro della Difesa italiano ministra della Difesa, Elisabetta Trenta e il suo omologo del Burkina, ministro Moumina Chériff Sy.
L’attuale ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha dichiarato il 19 marzo 2021 che l’intervento italiano in Takuba va visto nell’ambito di una strategia più ampia e organica con cui il nostro paese agisce su quello che ormai può essere definito il fronte Sud avanzato della difesa dell’Europa da instabilità e infiltrazioni: “Non c’è solo il Mali. Dai pattugliamenti antipirateria nel Golfo di Guinea alla missione in Somalia, guardo alle nostre attività in Africa come a un unicum.
Le forze armate sono impegnate per migliorare le capacità militari locali in Mali, in Niger e nel prossimo futuro nel Burkina Faso. Siamo in Niger dal 2018 e stiamo per realizzare una nostra base logistica in collaborazione con le autorità nigerine. In Mali il primo nucleo di militari è arrivato pochi giorni fa e schiereremo uno squadrone di elicotteri da evacuazione medica. Anche qui però credo che per ottenere risultati ancora più solidi è necessario far convergere gli sforzi attuali verso una visione più sistematica sotto l’egida della Ue”.
Il Sahel si conferma insomma una moderna versione di quel tal “bagnasciuga” di storica memoria, su cui le possibili minacce all’Europa vanno sventate col massimo anticipo possibile.
Proprio da Ansongo, i nostri militari aiuteranno le autorità del Mali e del confinante Burkina Faso, quest’ultimo pure flagellato da numerosi attentati. A partire dal 2015 in tutto il Burkina Faso, paese che fino ad allora sembrava immune dal jihadismo, sarebbero morti oltre 1100 civili, soprattutto fedeli e sacerdoti della comunità cristiana locale, presi di mira in quanto il paese si colloca su quella sorta di “faglia” che divide l’Africa fra un Nord a prevalenza islamica e un Sud a maggioranza cristiano-animista.
Stessa linea di faglia che dal 2011 ha portato alla frattura definitiva fra le due parti del Sudan, per intenderci. Per rammentare solo alcuni episodi, il 24 dicembre 2019, vigilia di Natale, due distinti attentati ad Arbinda e presso una base militare hanno ucciso 35 persone, ma la reazione delle forze governative ha consentito di uccidere 80 terroristi, a prezzo della morte di 7 militi. Il 3 febbraio 2020, nel villaggio burkinabè di Landemol un gruppo di islamisti ha massacrato almeno 20 abitanti.
Gli altri civili, terrorizzati, hanno iniziato ad abbandonare il villaggio fuggendo verso Nord. Il 13 novembre 2020, poi, 14 soldati burkinabè sono stati trucidati in un’imboscata nel Nord del paese, al confine col Mali. Il 21 gennaio 2021, poi, è stato ucciso un prete cristiano, padre Rodrigue Sanon. Il terrore si diffonde e ormai sarebbero circa 1 milione i profughi burkinabè che hanno abbandonato le aree più pericolose.
E’ in questo scenario che arrivano gli italiani nella task Force Takuba. L’organico della missione è stato stabilito fin dall’estate 2020, come si evince dalla scheda n. 29-bis/2020 dei documenti preliminari esaminati da Camera e Senato in vista dell’approvazione della missione.
La forza del contingente italiano viene così stabilita: “L’Italia partecipa alla Task force Takuba con un contributo di 200 unità di personale militare, 20 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei. Il fabbisogno complessivo per il 2020 è pari a euro 15.627.178, di cui euro 5.000.000 per obbligazioni esigibili nell’anno 2021”. In sostanza, 200 uomini, che apparterranno a rotazione a numerosi reparti di grande esperienza fra cui il 9° Reggimento “Col Moschin”, il Gruppo Operativo Incursori della Marina, il GIS dei Carabinieri, il 4° Reggimento Alpini Parà “Monte Cervino”, il RRAO (Reggimento paracadutisti Ricognizione e Acquisizione Obbiettivi) e il 17° Stormo dell’Aeronautica Militare.
Combatteremo?
Quanto ai mezzi, fra i 20 veicoli terrestri del nostro contingente si annoverano i VTLM Lince e i Flyer 4×4, ovvero i fuoristrada leggeri e veloci di produzione americana adottati dalle forze speciali, degni corrispondenti di quelle realizzazioni tipiche delle guerriglie africane che sono le “tecniche”, i grossi fuoristrada o pick up con mitragliere pesanti o cannoncini dall’affusto sul pianale.
Circa la componente aerea gli 8 elicotteri dovrebbero essere in parte NH-90 (o UH-90, come preferisce chiamarli l’Esercito Italiano) e A-129D Mangusta. Che il Mangusta significhi combattimento è fuor di dubbio, date le sue caratteristiche, essendo ben corazzato e dotato di un cannone fisso da 20 mm a tre canne rotanti, oltre alla capacità missilistica. Quanto all’NH-90, nelle motivazioni ufficiali della sua presenza nel contingente Takuba, si è parlato di mezzo per MEDEVAC, cioè evacuazione medica, ma è chiaro a tutti che l’NH-90, armabile con due mitragliatrici laterali brandeggiabili per l’autodifesa, può servire anche per l’assalto dall’aria, in maniera simile agli elisbarchi sperimentati in tutti i conflitti dal Vietnam in poi.
Data la presenza di simili mezzi, è plausibile che l’azione italiana fra Mali e Burkina non sarà di solo addestramento o consulenza, come recita un passaggio del sopracitato documento parlamentare n. 29-bis/2020.
Precisando gli scopi del rischieramento, il documento recita:
“La forza multinazionale Takuba si inserisce nel nuovo quadro politico, strategico e operativo ribattezzato “Coalizione per il Sahel”, che riunisce sotto comando congiunto la forza dell’Opération Barkhane (a guida francese) e la “Force conjointe du G5 Sahel”, al fine di coordinare meglio la loro azione concentrando gli sforzi militari nelle tre aree di confine (Mali, Burkina Faso e Niger). La partecipazione italiana alla Task Force Takuba, oltre a fornire un contributo al rafforzamento delle capacità di sicurezza nella regione del Sahel, risponde, altresì, all’esigenza di tutela degli interessi nazionali in un’area strategica considerata prioritaria.
Il mandato della Task force prevede:
- fornire attività di consulenza, assistenza, addestramento e mentorship a supporto delle forze armate e delle forze speciali locali;
- provvedere alla consulenza, nell’ambito del processo di potenziamento della componente terrestre e di forze speciali locali, funzionale al mantenimento di un adeguato livello di sicurezza e di contrasto al terrorismo;
- supportare le forze armate e le forze speciali locali nel potenziamento delle capacità di contrasto alle minacce per la sicurezza derivanti da fenomeni di natura terroristica transnazionale e/o criminale;
- fornire gli enabler per la condotta di operazioni di contrasto al terrorismo, in particolare, mezzi elicotteristici e personale per l’evacuazione medica”.
Se si volesse esaminare la possibilità che i nostri soldati si ritrovino impegnati in azioni ostili a fianco degli alleati, e dunque non solo operanti in seconda linea come istruttori, la si potrebbe forse intravedere nel punto in cui si accenna al “supportare le forze armate e le forze speciali locali nel potenziamento delle capacità di contrasto alle minacce per la sicurezza derivanti da fenomeni di natura terroristica transnazionale e/o criminale”.
Un giro di parole per dire che, dopotutto, per aiutare quelle popolazioni e quei governi contro le milizie jihadiste, non si dovrà andare troppo per il sottile. Il nemico, come testimoniano le innumerevoli stragi, è feroce e poco incline al negoziato.
Foto: Ministero Difesa francese, AFP e Twitter