Legione Straniera: storia di un’avventura
Uomini col kepì bianco in marcia fra le sabbie africane, minacciati dalla sferza mortale del sole e dalle fucilate dei beduini ribelli. Questa l’immagine mitica della Legione Straniera francese, come è stata costruita nell’arco di quasi due secoli dalla letteratura e dal cinema, ma sulla base di concreti drammi ed eroismi.
Dall’Algeria al Messico, dall’Indocina al Kosovo, un corpo militare fra i più tenaci del mondo è stato protagonista di campagne spesso “maledette”, controverse e sovente votate alla sconfitta, ma non certo per demerito dei legionari, bensì per errori strategici ai livelli superiori. Loro, i legionari provenienti dai quattro angoli del mondo in cerca d’avventura a patto di giurare fedeltà al governo di Parigi, non si sono mai risparmiati, tantomeno nel sanguinare, sprizzando coraggio e abnegazione a testa bassa.
E pensare che al momento della fondazione della Legione Straniera, nel 1831, l’idea di base, secondo l’allora ministro della Guerra Nicolas Jean de-Dieu Soult, già fedelissimo di Napoleone “riciclatosi” con la Restaurazione, era quella di sbarazzarsi, per così dire, di qualche migliaio di stranieri presenti sul suolo francese arruolandoli in un corpo da impiegarsi esclusivamente oltremare. Erano soprattutto esuli fuggiti dagli stati assolutisti del resto d’Europa, che vedevano la Francia come faro di libertà, ma proprio per questo la monarchia di Luigi Filippo li vedeva potenziali eversivi.
Solo più tardi una parte dei reclutamenti sarebbe stata costituita da uomini in fuga dalla giustizia, desiderosi di tagliare col passato, anche inventandosi un’identità fittizia. I legionari entrarono nella storia, letteralmente, nel 1832 sostenendo i loro primi scontri coi cavalieri berberi alle porte di Algeri. Fu l’inizio di un’odissea, tuttora in corso, che viene ricostruita nella sua interezza dal nuovo libro “Legione straniera, storia di un’avventura”, che Stefano Di Marino ha scritto per le edizioni Odoya (pagine 282, euro 18).
Al di là della dettagliata cronistoria delle decine di operazioni militari di cui furono protagonisti gli uomini del kepì, ciò che emerge dal volume è il clima umano di fratellanza stabilitosi fra i legionari d’ogni epoca all’insegna della condivisione di pericoli e difficoltà enormi.
Già, perchè la Legione Straniera è stata non solo un prototipo di “società guerriera” i cui componenti si riconoscevano nel motto Legio Patria Nostra, fratelli in armi indipendentemente dall’origine personale. E’ stata, specialmente, la vera e propria personificazione dei confini altalenanti della Francia coloniale e postcoloniale nei secoli XIX e XX, e per certi aspetti anche oggi, che del XXI secolo è trascorso solo un quinto. Li troviamo in Algeria, come si è detto, nel 1832, quando la si stava, a fatica, conquistando. E ce li troviamo anche nel 1957, quando l’Algeria la si stava ormai perdendo.
Capitolo, questo, a cui il regista italiano Gillo Pontecorvo dedicò nel 1966 il film “La Battaglia di Algeri”, uno dei tanti esempi di prolifiche ricadute dell’epopea legionaria nel mondo del cinema. Troviamo i legionari nel 1884 nel Tonchino, all’assedio di Tuyen Quang, una delle vittorie che consentirono alla Francia di assicurarsi l’Indocina. E, nello stesso paese, poi noto come Vietnam, li ritroviamo, stavolta nella parte degli sconfitti, a un altro assedio, quello di Diem Bien Phu del 1954, che sancì la fine del dominio francese.
Li troviamo nel Messico del 1863, durante la velleitaria puntata di Napoleone III nel Nuovo Mondo. Li vediamo arrancare alle soglie del Sahara, nel 1924 contro la rivolta di Abd El Krim, come immortalato da un altro celebre film “legionario”, quel “La Bandera, marcia o muori” del 1977 che annoverava un eccezionale “poker” di star: Gene Hackman, Terence Hill, Catherine Deneuve e Max Von Sydow.
E nelle stesse sabbie, più o meno, eccoli ancora oggi, quasi cent’anni dopo, contro i nuovi “profeti armati”. Senza contare, naturalmente, i fronti delle due guerre mondiali. In tutti i casi, il soffrire insieme l’arsura, la sete, la fame, i pidocchi, i parassiti tropicali, la paura della morte nonché le severe punizioni, come lo star fermi, in piedi, per ore sotto il sole, ha forgiato la “famiglia” evocata dall’articolo 2 del codice del legionario: “Ogni legionario è tuo fratello. Gli devi dimostrare sempre la solidarietà che deve unire i membri di una famiglia”. Molti gli episodi di “valore sfortunato”, generalmente sotto l’assedio di forze nemiche preponderanti. Ma tante anche le storie di successo.
Un’impresa per tutte, il salvataggio nel 1978 di migliaia di europei praticamente catturati da guerriglieri katanghesi nella città mineraria di Kolwezi, nell’allora Zaire. In poco tempo francesi e belgi organizzarono una forza congiunta di 1600 paracadutisti, 650 dei quali erano parà del 2° REP (Régiment Etranger de Parachutistes) della Legione Straniera al comando del colonnello Philippe Erulin. Con l’aiuto degli americani, che fornirono aerei da trasporto C-141 e C-5, e dell’esercito governativo zairese di Mobutu, il 19 maggio 1978, i parà legionari di Erulin si lanciarono sopra Kolwezi. Narra l’autore, che, una volta toccata terra dopo il lancio avvenuto a 400 metri di quota: “I primi a entrare in azione furono i parà della 1° compagnia, che presero d’assalto il liceo Jean XII liberando un centinaio di europei che vi si erano radunati.
La 2° compagnia intanto avanzava nella zona residenziale procedendo con la bonifica di un giardino alla volta fino a prendere l’ospedale della Gécamines e poi un’officina con un parco macchine attrezzato che consentiva di iniziare almeno parzialmente le operazioni motorizzate”. Entro il 28 maggio la città poteva dirsi liberata, tantopiù che la maggior parte dei miliziani nemici era fuggita fin dai primi giorni.
Di intervento in intervento, si giunse nel 1999 alle operazioni in Kosovo, che videro però il comandante locale del contingente della Legione colà inviato, il colonnello Jacques Hogard, smarcarsi dalla “vulgata” delle direttive NATO e mettersi a proteggere gli insediamenti e i monasteri dei serbi dalle violenze dell’UCK albanese, avendo capito subito che i crimini si commettevano da entrambe le parti. Hogard, il legionario “ribelle”, scrisse infatti, una volta in pensione, il libro “L’Europa è morta a Pristina”, memorie precise e disincantate della missione della Legione in Kosovo, in cui ribadì che l’ipocrisia della NATO stava di fatto aprendo la strada all’islamizzazione estremistica dei Balcani.
Scrive Di Marino della “grana” Kosovo: “Hogard espone le sue ragioni e documenta le operazioni svolte in contrasto con le direttive del comando NATO a salvaguardia delle comunità monastiche del Kosovo, difese dall’attacco dei partigiani dell’UCK. E’ ancora oggi una pagina controversa della storia della Legione, ma che, in qualche modo, s’inanella con decisioni e mistica del corpo sin dalla sua nascita”.
Chissà, forse se i politici occidentali avessero agito e pensato in tutt’altro modo negli ultimi tre-quattro decenni, non sarebbe stato necessario inviare la Legione Straniera, insieme ad altri reparti francesi e occidentali, in Afghanistan fra il 2001 e il 2010 e in Mali a partire dal 2012, dove tuttora si combatte contro la jihad. Certo è che, a dispetto di una comune credenza secondo cui gli occidentali non vogliono più “sporcarsi le mani”, ancora oggi gli effettivi della Legione sarebbero composti per i due terzi da europei, divisi equamente fra Europa dell’Ovest e dell’Est, mentre solo un terzo rappresenterebbe tutto il resto dell’umanità, ivi compresi però anche volontari dalle Americhe, presumibilmente cristiani. La leggenda continua.